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IL POTERE DEL VENTRE

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Academic year: 2023

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Silvia Forni, Cecilia Pennacini, Chiara Pussetti

IL POTERE DEL VENTRE

Antropologia, genere, riproduzione

2006

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Indice

Introduzione (Cecilia Pennacini)

I. La costruzione culturale dei generi

Costruire significati dalla materia. Percezioni del sesso, del genere e dei corpi tra i Turkana (Vigdis Broch-Due)

II. Riti di passaggio e ciclo di vita

Trasformare le donne. Essere e divenire in una società insulare Melanesiana (Deane Fergie)

III. Le ferite simboliche nella costruzione della femminilità

Il ventre come un’oasi. Il contesto simbolico della circoncisione faraonica in un villaggio del Sudan Settentrionale (Janice Boddy)

IV. Il sangue mestruale come cibo dell’anima

Ingerire sangue mestruale: nozioni di salute e fluidi corporei a Bengala (Kristin Hanssen)

V. Matrimonio, fertilità e reti famigliari

“Cucinare dentro”. Parentela e genere nel linguaggio bangangté sul matrimonio e la procreazione (Pamela Feldman-Savelsberg)

VI. Riproduzione e controllo sociale

Perfezionare la società: tecnologie riproduttive, test genetici e pianificazione famigliare in Giappone (Margaret Lock)

Bibliografia

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Introduzione

Cecilia Pennacini

Questo volume antologico presenta in traduzione italiana una serie di saggi, alcuni dei quali divenuti ormai dei classici, relativi alla costruzione culturale del genere femminile e alle concezioni della nascita e della riproduzione. L’esigenza che ci ha spinto a mettere a disposizione del pubblico italiano questi materiali è in primo luogo di tipo didattico; tuttavia al di là di questo obiettivo, il volume intende proporre una riflessione generale su temi che sentiamo estremamente attuali all’interno e – soprattutto - all’esterno dei confini dell’antropologia. Riteniamo infatti che l’antropologia, grazie all’originalità di uno sguardo formatosi in contesti etnografici e culturali spesso poco conosciuti, possa utilmente contribuire al recente dibattito su temi cruciali per la vita delle donne e più in generale delle società (riproduzione, fecondazione assistita, modalità di interruzione volontaria della gravidanza, tipologie di matrimonio, ecc.) arricchendolo di prospettive nuove.

Antropo-poiesi

Dieci anni fa, nell’introduzione a un volume che costituisce in qualche modo la premessa e l’antecedente de Il potere nel ventre1, Francesco Remotti elencava alcune tesi per la costruzione di una prospettiva “antropo-poietica” (1996, p. 9 e sg.). In estrema sintesi, Remotti prendeva avvio dalle teorie dell’incompletezza biologica dell’uomo, che considerano l’essere umano come un organismo biologicamente incompleto e plasmabile il quale necessita per la sua stessa sopravvivenza dell’intervento della cultura2, per affrontare in questa chiave vari esempi di rituali di iniziazione alla vita adulta. Nel corso di questi rituali, che in generale costituiscono una sorta di seconda nascita consentendo l’ingresso dell’individuo in società, le culture completano il processo di maturazione biologica con un intervento squisitamente culturale, che forgia la personalità oltre che lo status degli iniziandi,

1 Allovio S. e Favole A., 1996.

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modificandone talvolta con violenza il corpo stesso. Le culture, in questa prospettiva, intervengono a “costruire” gli individui secondo modelli determinati, abbracciando così specifici progetti antropo-poietici. I modelli impliciti nei riti di iniziazione sono dunque modelli di umanità, che le culture perseguono attivamente intervenendo sui corpi, sulle concezioni della persona e delle sue relazioni sociali.

I rituali e le concezioni culturali prefigurano - anche se in forme spesso implicite - un ideale generale di umanità, ma allo stesso tempo indicano modelli specifici che regolano e stabiliscono i diversi ruoli degli attori sociali. In questo ambito il progetto antropo-poietico propone di norma due modelli fondamentali, quello dell’andro-poiesi e quello della gineco- poiesi. Gli individui non vengono infatti costruiti in maniera indistinta, ma secondo precise attribuzioni che si fondano principalmente sul genere. I riti di iniziazione puberale hanno in effetti la funzione di definire l’identità di genere, che in molte culture resta confusa e indeterminata per tutta la durata dell’infanzia. L’intervento culturale, fissando irrevocabilmente il genere della persona, le consente di accedere alla vita adulta, al matrimonio e alla procreazione.

La diffusione dei riti di iniziazione puberale, molti dei quali prevedono interventi di modificazione permanente degli organi genitali, sembra dunque rispondere all’esigenza di favorire e sancire, attraverso pratiche culturali energiche e talvolta addirittura violente, l’acquisizione di una precisa identità di genere. Tali pratiche intervengono a correggere ciò che viene per lo più considerata come una condizione di ambiguità e indeterminatezza, caratteristica della condizione infantile. Molte culture affermano così ciò che Margaret Mead scoprì negli anni trenta del Novecento quando, analizzando comparativamente il rapporto tra “sesso” e “temperamento” presso tre società della Nuova Guinea (i Mundugumor, gli Arapesh e i Ciambuli), colse con chiarezza la natura culturale e variabile del temperamento femminile e di quello maschile, considerati a quel tempo come tratti innati e universali della personalità determinati dal sesso biologico (Mead, 1935). La comparazione consentì alla Mead di dimostrare agevolmente come le caratteristiche della personalità femminile (così come di quella maschile) variassero invece da cultura a cultura, sfuggendo a qualsiasi generalizzazione. Ciò significava che, al di là delle determinazioni biologiche prodotte dal dimorfismo sessuale (patrimonio genetico, anatomia dell’apparato riproduttivo, degli organi genitali e dei caratteri secondari), non si dà alla nascita alcuna caratteristica psicologica

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direttamente connessa al sesso. La costruzione della personalità secondo il genere3 è dunque il risultato di un impegno attivo delle culture, inteso a integrare, completare e interpretare differenze biologiche che non sono in grado di produrre di per sè alcun modello comportamentale.

Ciascuna società persegue dunque specifici modelli di donne e di uomini, le cui caratteristiche di femminilità e mascolinità sono il risultato di complesse e pervasive costruzioni culturali, che trapelano dall’analisi delle pratiche sociali e delle categorie semantiche con cui la società e l’universo vengono descritti e ordinati, come mostra Vigdis Broch-Due a proposito dei Turkana del Kenya nel primo articolo di questa raccolta. I corpi di donne e uomini, prima ancora di essere modificati nel corso dei riti di iniziazione, sono dai Turkana “scolpiti” (Broch-Due e Bleie, 1993) per mezzo delle categorie semantiche con cui essi vengono descritti a partire dall’osservazione anatomica del bestiame, fulcro della cultura e dell’economia pastorale. La logica soggiacente all’organizzazione delle categorie semantiche turkana sembra protesa verso la costruzione di un mondo in cui maschile e femminile si bilancino e si compenetrino, nell’ossessiva ricerca di una complementarità equilibrata. Così la comprensione turkana dei processi fisiologici della riproduzione mette in evidenza la costante, sistematica integrazione di elementi considerati femminili (umidi, dolci, freddi e aperti) e di elementi associati alla mascolinità (asciutti, amari, caldi e chiusi), che vanno a coagularsi all’interno del ventre della madre per formare il bambino che deve nascere. Alla complementarità dei ruoli maschile e femminile nel progetto genitoriale – “scolpita” nella concezione anatomica dei corpi e dei processi fisiologici - corrisponde, nell’analisi della Broch-Due, un’organizzazione sociale basata anch’essa su una visione sostanzialmente complementare dei patrilignaggi e dei matrilignaggi.

Gineco-poiesi

Il tema della ricerca di una complementarità dei generi, che necessitano l’uno dell’altro per riprodursi e riprodurre la società (evidenziato dal caso dei Turkana come da molti altri esempi etnografici africani4), suggerisce una riconsiderazione del problema dell’incompletezza e della funzione “completante” dei rituali e delle pratiche culturali.

Marilyn Strathern, in un articolo significativamente intitolato “Fare l’incompleto” (1993),

3 Sull’origine e l’utilizzo del concetto di gender cfr. Busoni, 2000.

4 Si veda a questo proposito il capitolo “Paradossi della gemellarità nel rituale ndembu, contenuto in

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apparso nella medesima raccolta in cui compare il citato saggio di Broch-Due, evidenzia come i rituali di iniziazione non sembrano essere intesi a costruire individui completi, ma al contrario sembrano più spesso voler decomporre l’androginia originaria del bambino per creare un essere strutturalmente incompleto, predisposto a completarsi nell’unione con l’Altro. La scelta di una precisa identità di genere comporta infatti, sia per gli uomini che per le donne, una sorta di decomposizione identitaria in vista dell’approdo a una nuova completezza, quella della coppia riproduttrice. Tuttavia questo processo presenta significative differenze nei due casi.

Strathern osserva come nei rituali di inziazione le donne vengano spesso esplicitamente rappresentate in quanto esseri incompleti, inadatti per questo a partecipare alla vita pubblica.

Se l’educazione dei maschi si completa strappando in un determinato momento i ragazzi dalla sfera domestica per gettarli nella vita pubblica e sociale degli adulti, quella delle ragazze le confina invece nella sfera privata (all’interno della quale si svolgono per lo più i rituali di iniziazione femminile), dove esse saranno destinate a vivere gran parte della loro esistenza.

La gineco-poiesi contrasterebbe in questo senso con l’andro-poiesi, di cui solo apparentemente costituisce la manifestazione speculare. I due generi sono il risultato di processi culturali profondamente diversi: i maschi trovano infatti proprio attraverso l’iniziazione un loro completamento nella vita pubblica, mentre le femmine avranno nel corso della loro intera esistenza ben poche chances di giungere a una socializzazione completa, restando per lo più segregate all’interno dell’ambiente domestico. La marginalizzazione subita dalle donne nella sfera pubblica contribuisce dunque a proiettarle verso la ricerca di completezza in un’altra sfera, quella del matrimonio e della maternità. La femminilità si presenta infine come una costruzione sociale e culturale che, escludendo la donna dall’arena pubblica, la proietta verso la vita matrimoniale e la maternità, trasformandola in “un riproduttore che completerà se stesso in nuove relazioni” (Strathern, 1993, p. 49).

Già Margaret Mead aveva, in Maschio e femmina (1949), sottolineato come la biologia della vita femminile sia caratterizzata dalla predisposizione alla maternità: l’intera vita delle donne – a differenza di quella degli uomini – è infatti segnata da tappe biologiche (il menarca e poi il ripetersi regolare dei cicli mestruali e infine la menopausa) che ricordano e consolidano la consapevolezza delle potenzialità riproduttive insite nel corpo delle donne. In assenza di analoghe funzioni biologiche, i maschi vengono spesso sottoposti a prove intese ad accrescere culturalmente e socialmente una virilità che ha bisogno di essere costantemente

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ribadita e confermata. “Nel caso della donna è invece necessario soltanto che le sia permesso, da un dato ordinamento sociale, di compiere la sua funzione biologica, per provare la sensazione di aver compiuto qualcosa di irrevocabile” (Mead 1962, p. 143). E se non tutte, a buon diritto, condividono l’idea che la maternità costituisca il destino naturale di ogni donna, la sua mera potenzialità biologica e le tracce che tale potenzialità, tale potere, impongono al vissuto corporeo fondano comunque un’irriducibile differenza che segna l’esperienza esistenziale di uomini e donne.

Potere riproduttivo e controllo sociale

La biologia della riproduzione umana conferisce dunque alle donne un grande potere.

Nonostante l’indispensabile contributo maschile della fecondazione, che in molte società come abbiamo visto si estende e si prolunga ben oltre il momento dell’inseminazione nella ricerca spesso ossessiva di una complementarità culturale di uomini e donne e dei loro rispettivi ruoli genitoriali, il nudo dato biologico conferisce alle donne il potere di controllare la riproduzione, di dare o non dare alla luce nuovi individui che verranno poi, attraverso i complessi meccanismi della filiazione e della discendenza, attribuiti ai gruppi sociali. Proprio per questo, Mead legge gran parte delle istituzioni e delle pratiche sociali che, nei diversi contesti, costruiscono la mascolinità e le sue prerogative, come un tentativo di controbilanciare il potere riproduttivo delle donne.

In questa prospettiva si comprende come la sessualità delle donne possa essere vissuta come un pericolo per le società, le quali mettono in atto complesse strategie che mirano al controllo del potere riproduttivo e dei suoi prodotti. La maggior parte dei saggi che presentiamo in questa raccolta interpretano le pratiche sociali e rituali atte a costruire i generi e le loro relazioni sullo sfondo di più ampie strategie di controllo, di “addomesticamento” e di socializzazione del potere riproduttivo delle donne. L’articolo di Fergie sui rituali di iniziazione femminile in Melanesia descrive ad esempio il processo attraverso cui le ragazze vengono indotte dal rito ad acquisire quel tipo di sessualità “composta” che si ritiene adatta alla vita matrimoniale. Per giungere a questo risultato vengono paradossalmente incoraggiate a rappresentare all’interno della cornice rituale una sessualità libera e sfrenata, descritta con umorismo in alcune sequenze della performance in cui le ragazze sembrano rivendicare una loro trasgressiva alterità adolescenziale, ridicolizzando sistematicamente gli uomini. Questa sorta di rovesciamento delle regole sembra attivare un processo psico-dinamico, che porterà

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le ragazze alla consapevolezza e all’accettazione del modello di sessualità femminile

“normale”.

Il famoso saggio di Janice Boddy sulla cosiddetta “circoncisione faraonica” in Sudan, forma estrema e drammatica di modificazione degli organi genitali femminili, affronta il difficile compito di spiegare i significati di una pratica che agli occhi occidentali appare profondamente sconcertante, anche per via delle severe conseguenze che essa produce sulla salute delle donne. Ma sono proprio la violenza dell’intervento e la portata delle sue conseguenze a esigere una spiegazione: la chiave interpretativa adottata dall’autrice mostra come questo tipo di infibulazione miri ad assicurare e a socializzare la fertilità femminile, perseguendo un modello estetico che conferisce al corpo della donna una forma densa di significati simbolici. Dal punto di vista “funzionale”, l’infibulazione garantisce al marito il controllo della riproduzione, assicurando che la donna giunga vergine al matrimonio e successivamente impedendole relazioni sessuali incontrollabili. Ma è sotto il profilo estetico che questo ideale si rafforza e si consolida. Il corpo infibulato della donna riproduce infatti il modello della chiusura dell’ambiente domestico, all’interno del quale l’esistenza femminile è confinata. La chiusura dell’orifizio vaginale consente di rinchiudere, metaforicamente e letteralmente, il potere riproduttivo all’interno del ventre della donna, così come la sua esperienza di vita verrà rinchiusa all’interno dello spazio della casa.

Questo caso, come anche il precedente, se mettono con chiarezza in luce l’intento di imbrigliare, addomesticare e infine rinchiudere la sessualità e il potere riproduttivo delle donne, allo stesso tempo sottolineano come tale processo di “addomesticamento” vada letto come un processo sociale di ordine fondamentale. Le etnografie presentate nei saggi, così come le testimonianze delle informatrici ascoltate dalle antropologhe, non denunciano esclusivamente situazioni di aperto controllo degli uomini sulle donne. Al contrario, sono il più delle volte le donne stesse a farsi carico delle pratiche e delle strategie di trasformazione e socializzazione del potere riproduttivo. La violenza che in alcuni casi questo processo comporta è dunque percepita come il risultato di forze miranti a integrare la società e le sue componenti in vista di un comune obiettivo, quello della riproduzione sociale. Sono dunque di norma le donne stesse a mettere a disposizione il loro potere riproduttivo rinunciando al controllo su di esso, in modo da condividerlo con i loro partner e con la società più in generale. Si crea così un equilibrio sociale, garantito dalla condivisione e dall’accettazione da parte di entrambi i generi di norme e processi miranti alla socializzazione del potere

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riproduttivo. Un equilibrio che, tuttavia, può comportare (come nel caso del Sudan) costi molto alti per la salute e per la qualità della vita delle donne. Proprio per questo, negli ultimi decenni, una nuova sensibilità e consapevolezza femminile ha favorito il sorgere di vari movimenti, che lottano per modificare le pratiche culturali sui corpi delle donne a partire dal riconoscimento della complessità di questi fenomeni e delle loro implicazioni sociali.

A dimostrazione di quanto le società percepiscano come pericoloso il potere riproduttivo delle donne, e di quanto reputino parallelamente indispensabili le pratiche orientate a socializzarlo e controllarlo, troviamo le innumerevoli concezioni che associano il flusso mestruale a una condizione impura e contaminante, che impone in quel periodo l’allontamento della donna dalle attività sociali più importanti. Già Claude Lévi-Strauss (1947) aveva sottolineato l’estrema diffusione delle interdizioni relative al sangue mestruale, strettamente connesse secondo questo autore al problema dell’esogamia e dell’incesto. Il sangue, infatti, rappresenterebbe non solo il potere riproduttivo in generale, ma più specificamente esso incarnerebbe il simbolo stesso del gruppo di discendenza, pensato per l’appunto come una realtà sociale generata da vincoli di sangue. Tuttavia il sangue mestruale non risulta essere un tabu universale: nell’articolo di Hanssen contenuto in questo volume emerge come il mestruo possa anche assurgere a simbolo positivo di una fertilità condivisa dai due generi, come avviene nella cultura dei Baul, mistici musicisti erranti del Bengala appartenenti a una casta marginale e intoccabile. Il flusso mestruale, secondo i Baul, renderebbe le donne più forti e più complete degli uomini. Per questo, i “rinuncianti”

effettuano l’ingestione di sangue mestruale, una pratica che, unita a quella di trattenere e ingerire il liquido seminale, contribuisce a valorizzare e socializzare il potere della fertilità e della riproduzione.

L’esigenza di controllare e socializzare il potere riproduttivo delle donne si traduce in una varietà di pratiche sociali estremamente mutevoli, sottoposte a dinamiche trasformative all’interno delle quali le donne stanno recentemente assumendo, in molti contesti, posizioni sempre più attive e consapevoli. Gli ultimi due casi presentati nel volume descrivono due diverse strategie di socializzazione del potere riproduttivo. Il caso dei Bangangté del Camerun descritto da Feldman evoca, per certi aspetti, alcuni temi già emersi nell’articolo di Boddy: la concezione locale della maternità prevede qui che le neo-mogli, straniere per via della regola virilocale di residenza post-matrimoniale, vadano a vivere dopo il matrimonio in una cucina costruita per loro dal marito, all’interno della quale non solo cucineranno il cibo

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con cui nutrire marito e figli ma, simbolicamente, “cucineranno dentro” i bambini stessi frutto dell’unione. La procreazione è metaforicamente descritta in questa società come una pratica culinaria che si svolge nel chiuso della cucina domestica, all’interno della quale la moglie mescola sapientemente ingredienti prodotti da lei stessa con altri portati dal marito.

Nel ventre caldo della donna, come nell’ambiente chiuso e accogliente del focolare domestico, il bambino verrà cotto come una pietanza. Anche qui, come abbiamo visto in altri contesti, si riconosce alla donna un ruolo chiaramente dominante nella “cucina procreativa”, in grado di conferire al nascituro particolari caratteristiche di personalità che lo distingueranno dai suoi fratellastri figli di altre co-mogli, “cucinati dentro” un altro focolare domestico.

L’ultimo esempio che proponiamo affronta un tema divenuto di grande attualità in Italia, oltre che in tutto il mondo occidentale, quello delle tecnologie riproduttive e del modo con cui la loro introduzione abbia in parte modificato le concezioni relative alla maternità nel Giappone contemporaneo. In questo saggio, Margaret Lock ricorre al concetto foucaltiano di “biopotere” per descrivere come il corpo delle donne venga esplicitamente controllato e manipolato dalla società giapponese a vantaggio di una corretta riproduzione sociale. Nel Giappone pre-moderno le donne venivano descritte come “ventri in prestito”, utilizzati per produrre il tipo di discendenza considerato ideale per la famiglia allargata. Nel Giappone contemporaneo tale visione si è progressivamente modificata, grazie al tramonto della famiglia allargata e alla diffusione di nuclei monofamigliari. Le donne, in questa situazione, possono esercitare un certo controllo sui meccanismi riproduttivi, adottando se lo desiderano alcune tecnologie atte a favorire il concepimento o lo screening di eventuali patologie fetali, e in taluni casi ricorrendo anche all’interruzione volontaria di gravidanza.

Tuttavia, per quanto mitigato da una maggiore capacità di controllo da parte delle donne, il biopotere continua a esercitarsi sui loro corpi, che vengono utilizzati come tramite per costruire una famiglia ideale in cui la donna rinuncia, nella stragrande maggioranza dei casi alla propria professione, per dedicarsi alla cura dei figli e degli anziani, di cui è considerata interamente responsabile.

Negoziare il potere del ventre

I processi di costruzione andro-poietici e gineco-poietici presentano certamente, e questa antologia ne è una prova, un’estrema varietà di posizioni e punti di vista, difficilmente

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riconducibili a modelli uniformi. Inoltre pare impossibile, alla luce delle conoscenze antropologiche, ridurre i modelli di genere a una secca dicotomia maschile/femminile, quando numerosi esempi etnografici mostrano come diverse società non pensino il genere come qualcosa di dato alla nascita bensì come un’identità che l’individuo sceglie e costruisce con una certa libertà5, tenendo spesso conto di possibilità ulteriori (una “terza via”) in grado di spezzare la logica binaria di un’eterosessualità obbligata (Morris, 1995). Tuttavia, pur in questo panorama variegato ed eterogeneo, il potere delle donne di controllare e di sperimentare direttamente all’interno del proprio corpo l’intero processo riproduttivo costituisce un elemento imprescindibile nella costruzione dei modelli di genere, qualcosa con cui in definitiva nessuna cultura può permettersi di non confrontarsi. I diversi processi antropo-poietici di costruzione degli individui non possono dunque non tenere conto dei paralleli processi di riproduzione biologica degli esseri umani e delle loro caratteristiche, e del ruolo centrale che la maternità svolge in essi.

Il problema della rappresentazione e della gestione di questo potere rimane dunque in generale al centro delle problematiche di genere. I casi discussi in questo libro sembrano risolverlo orientando gli sforzi delle culture verso due direzioni opposte: da un lato quella della ricerca della complementarità e del bilanciamento nell’apporto che i due generi forniscono al processo riproduttivo, dall’altro quella dell’esercizio di un controllo e di un potere sociale più marcatamente connotato nei termini di una gerarchia che pone gli uomini in posizione dominante rispetto alle donne. In questo caso alle donne è generalmente assegnata una posizione preminente nella procreazione nonché nell’allevamento e nell’educazione della prole, riconoscendo esplicitamente il loro potere riproduttivo (come è anche dimostrato dal fatto che l’interruzione volontaria di gravidanza, laddove viene regolamentata per legge, conferisce unicamente alla donna il diritto di scegliere tra la vita e la morte del nascituro). Il potere riproduttivo esercitato dalle donne viene però sistematicamente subordinato a un’istanza superiore, quella della riproduzione sociale. Sia che prevalga la ricerca di una complementarità tra i generi sia che invece emerga un modello gerarchico, la diversità di genere è dunque riconosciuta per essere successivamente risolta e superata nell’interesse più ampio della società.

Molte culture africane propendono, come si è già detto, per la prima soluzione. Non si intende affatto negare con questo la presenza nelle società africane di una gerarchia dei

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generi, che per lo più pone la donna in una posizione subordinata nell’ambito pubblico e in quella politico. Tuttavia, quando si entra più specificamente nella sfera riproduttiva, gli esempi sottolineano la presenza di una visione complementare dell’apporto che padri e madri danno alla riproduzione biologica e sociale. Questa visione non sembra avere lo scopo di costruire un’equiparazione di uomini e donne; al contrario, la complementarità si fonda sulla rivendicazione delle reciproche diversità e sulla separazione dei ruoli sociali e produttivi.

Le società che perseguono questa strada, come gli Ndembu dello Zambia studiati da Victor Turner (1969), sono inoltre molto spesso società a discendenza unilineare dove, però, si sente chiaramente l’esigenza di non escludere completamente dall’investimento procreativo il gruppo cui è preclusa la discendenza. Il caso degli Ndembu è a questo proposito emblematico: la regola di discendenza matrilineare si oppone strutturalmente alla regola di residenza post-matrimoniale virilocale. Quest’opposizione, se come ha mostrato Turner (1957) è fonte continua di conflitti e di divorzi, mantiene ben presenti gli interessi di entrambe le linee di parenti nei confronti della prole.

Nonostante la matrilinearità, gli Ndembu sembrano infatti preoccuparsi di ribadire anche il ruolo svolto dai parenti agnatici nella riproduzione sociale e, analogamente, il ruolo che ciascun genitore per parte sua svolge nella riproduzione biologica. Nell’analisi di un rituale eseguito per la nascita di gemelli, Turner sottolinea l’enfasi posta dagli Ndembu sul tema della complementarità dei generi, evidente nella fase che viene descritta come la

“feconda contesa dei sessi”. Qui, nella forma scherzosa, liminare e trasgressiva tipica del rito, emerge una rappresentazione paritaria di uomini e donne: “C’è nei riti una forte tensione verso l’egualitarismo; i sessi sono rappresentati come uguali anche se opposti.

Questa parità esprime qualcosa di profondo nella natura di tutti i sistemi sociali…Un evento come la gemellarità, che esorbita dalle classificazioni ortodosse della società, viene paradossalmente trasformato nell’occasione rituale di un’ostentazione di valori che si riferiscono alla comunità nel suo complesso, come unità omogenea e non strutturata che trascende le proprie differenziazioni e contraddizioni” (2001, p. 107-108). La parità, che non caratterizza affatto la vita quotidiana della società ndembu, emerge dunque nelle rappresentazioni rituali della riproduzione biologica e sociale: l’unione di un uomo e di una donna nel matrimonio, delle loro diversità di genere e di discendenza, si risolve per gli ndembu in un principio fondamentale dell’organizzazione sociale, quello del superamento delle differenze in un progetto più ampio e condiviso.

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Tale progetto si concretizza in primo luogo proprio nella procreazione. E’ come se in vista del concepimento di un nuovo individuo, uomini e donne spostassero la loro attenzione dal piano delle reciproche differenze di genere a quello delle potenzialità insite nella loro unione. Qui non è più in gioco soltanto la relazione tra uomini e donne né il riconoscimento dei diversi ruoli da essi sostenuti nella riproduzione, ma la possibilità che il figlio o la figlia si formino come prodotto dell’unione di due individui diversi e complementari. Solo questa diversità, infatti, consente nell’immaginario di una società a discendenza unilineare, di dar vita a un individuo davvero unico, che fonde - rimescolandole in una miscela originale - le caratteristiche ereditate dalla madre e dai suoi parenti uterini e quelle del padre e degli antenati agnatici.

L’originalità che caratterizza un nascituro, in quanto individuo dotato di sue caratteristiche peculiari e irripetibili, discende dunque precisamente dal riconoscimento della fusione di due apporti differenti, quello della madre e quello del padre che, unendosi danno luogo a qualcosa di nuovo. L’antropo-poiesi, l’andro-poiesi e la gineco-poiesi lasciano a questo punto il posto a un terzo livello di costruzione dell’individuo, cui i genitori devono arrendersi a vantaggio dell’originalità e dell’indipendenza del prodotto, quello dell’auto-poiesi (Remotti, 1996), che segue e completa gli altri due livelli precedentemente messi in luce, corrispondenti ai processi antropo-poietici (primo livello) e ai processi complementari gineco-poietici e andro-poietici (secondo livello).

Le teorie dell’incompletezza biologica dell’essere umano consentono di spiegare la necessità dei processi miranti a completare e plasmare le persone secondo modelli antropo- poietici di ordine generale. Il controllo che la donna esercita sulla riproduzione biologica, un’esperienza da lei vissuta all’interno del suo stesso corpo al momento del concepimento, della gravidanza, del parto e dell’allattamento (ma anche semplicemente nel regolare succedersi dei flussi mestruali), richiede un intervento delle società che di norma mirano ad appropriarsi di tale potere attraverso processi culturali complessi. Si spiega così la logica dei processi gineco-poietici miranti a costruire il genere femminile ai fini del controllo del potere riproduttivo, e dei paralleli e complementari processi andro-poietici. Tuttavia, padri e madri sembrano in generale disposti a rinegoziare il potere riproduttivo in una forma che valorizzi la loro reciproca complementarità, favorendo la costruzione auto-poietica dell’individuo.

Quest’ultimo passaggio fondamentale avviene non tanto nell’interesse di un equilibrio dei generi e dei ruoli genitoriali, quanto piuttosto nella prospettiva di poter garantire al nascituro

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una vita propria, un’esistenza che possa “automodellarsi” in virtù della libertà che scaturisce dall’attingere liberamente a due modelli diversi, senza dover aderire completamente a nessuno di essi. La scelta della complementarità e del riconoscimento del diverso apporto dei genitori nel processo riproduttivo apre infatti la strada alla necessaria auto-poiesi dell’individuo.

Anche a nome di Silvia Forni e di Chiara Pussetti intendo ringraziare le autrici dei saggi che gentilmente hanno acconsentito alla pubblicazione, nonchè la redazione di Carocci per la consueta cura con cui ha seguito le varie fasi di elaborazione di questo volume.

Personalmente vorrei poi esprimere un ringraziamento a Chiara e a Silvia per il lavoro di traduzione e introduzione degli articoli, e a Francesco Remotti per l’attenzione e il sostegno con cui ha seguito questo lavoro. Penso di fare cosa gradita a tutte menzionando a questo punto anche i nostri bambini e le nostre bambine (Niccolò, Ginevra, Noah, Gaia e Sole) i quali, come è stato ripetutamente espresso in alcune pagine di questo libro, fanno davvero parte di noi e della nostra esperienza di vita, pur proiettandosi liberamente in una società futura che ancora noi non conosciamo. Questo lavoro è dedicato a loro.

Le introduzioni ai saggi sono state scritte da Silvia Forni (capitoli I, V e VI) e da Chiara Pussetti (capitoli II, III e IV).

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La costruzione culturale dei generi

I Turkana sono una popolazione di allevatori nomadi di bovini, che vivono nell’area circostante l’omonimo lago nel nord del Kenya. Analizzando le pratiche quotidiane, i canti e le parole che i Turkana utilizzano per parlare degli individui e delle loro relazioni, l’articolo di Vigdis Broch-Due propone una riflessione sull’importanza dell’intersezione tra la dimensione biologica e la dimensione sociale nell’immagine culturale del corpo. Il saggio analizza in profondità il pensiero relativo alla definizione dell’individuo in quanto essere corporeo e sociale, dotato di un’identità personale, sessuale e di genere che orienta comportamenti e azioni. Pubblicato nel 1993, in una raccolta più ampia incentrata sui temi della costruzione del Sé, dell’incorporazione e del genere, l’articolo affronta alcuni dei nodi problematici della definizione dei ruoli sociali di uomini e donne che, a partire dagli anni Settanta del Novecento, sono emersi all’attenzione della riflessione antropologica.

L’interesse verso la questione del genere in antropologia si è sviluppato in conseguenza dell’affermarsi di una nuova sensibilità, stimolata dal lavoro di numerose studiose femministe, che mise in luce il pregiudizio fortemente maschilista di gran parte della ricerca antropologica.6 In un articolo pionieristico apparso per la prima volta nel 1972 intitolato “La credenza e il problema delle donne”, Edwin Ardener sottolinea come per decenni gli antropologi abbiano rappresentato le società presso cui svolgevano la propria ricerca riportando esclusivamente la prospettiva degli uomini, che spesso erano i soli informatori interpellati, ignorando sistematicamente il punto di vista delle donne. Dal momento che, in moltissimi casi, gli uomini sono detentori del sapere ufficiale e pubblico della cultura, si riteneva che l’accesso a questo sapere potesse esaurire gli aspetti degni di essere presi in considerazione dal sapere antropologico. Implicito in questa visione era un duplice assunto: da un lato si affermava che la prospettiva maschile, in quanto politicamente dominante, fosse necessariamente più completa, dall’altro che la sfera pubblica fosse intrinsecamente più rappresentativa di una società rispetto alla sfera domestica. Pur rilevando la carenza intrinseca della ricerca antropologica condotta fino a quel momento, Ardener

6 Tra le molte autrici che hanno riflettuto sul genere in antropologia segnaliamo Rosaldo e Lamphere, 1974; Ortner, 1974; Friedl, 1975; Schlegel 1977; Mac Cormack e Strathern, 1980; Ortner e Whitehead, 1981. Per una sintesi delle

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non criticava direttamente questi presupposti, ma riteneva che il “problema delle donne” fosse legato soprattutto alla natura discorsiva del sapere antropologico, che trova materiale più facilmente interpretabile nelle modalità espressive verbali legate, in molte culture, alla sfera del potere maschile, in grado di far ammutolire le donne ponendole in uno spazio di marginalità quasi inaccessibile all’antropologo/a.

Al di là delle fondamentali differenze culturali nel definire il maschile e il femminile, gli studi di genere hanno sottolineato chiaramente l’importanza della dimensione del potere nel determinare sia il rapporto tra i generi all’interno di una cultura sia la chiave epistemologica adottata dagli antropologi e dalle antropologhe nell’interpretarla. Mettere in primo piano la dimensione del potere non significa, però, legittimare l’applicazione del modello di oppressione delle donne da parte del potere maschile sviluppato da e per le donne bianche di classe media dell’Europa e degli Stati Uniti a partire dagli ultimi decenni del XX secolo. Se infatti rapporti asimmetrici di potere si possono riscontrare in diverse società, la valenza e il significato che queste asimmetrie assumono localmente hanno connotazioni eterogenee, che spesso danno origine a equilibri e interconnessioni pratiche e simboliche che non hanno nulla a che vedere con il modello dell’oppressione maschile di matrice occidentale.

I lavori apparsi nei decenni successivi hanno messo in vario modo in discussione gli assunti sulla diversa “natura” del maschile e del femminile, sia per quel che riguarda i rapporti tra gli uomini e le donne in un determinato contesto culturale sia per quanto concerne le modalità di indagine di queste relazioni da parte degli studiosi occidentali. Non è possibile in quest’ambito entrare nel merito del dibattito antropologico e femminista degli ultimi trent’anni. Tuttavia è importante sottolineare come da questo sia scaturita la consapevolezza della valenza profondamente culturale e sociale della definizione del maschile e del femminile, nonché dell’onnipresenza della dimensione del genere in qualsiasi tipo di relazione sociale. Se inizialmente, infatti, il genere veniva definito come il “problema delle donne” o dei rapporti tra individui di sesso diverso, la riflessione più recente, in cui si colloca anche il lavoro di Broch-Due, afferma con forza l’imprescindibilità di questa dimensione nella comprensione di qualsiasi tipo di interazione sociale. Il genere è un fattore che informa in molti modi i rapporti tra individui, anche quando si tratta di individui dello stesso sesso. Così come gli altri aspetti della vita sociale analizzati dagli antropologi, il genere si configura come un campo di indagine da esplorare prestando particolare attenzione alle valenze e ai significati locali, evitando rimozioni e appiattimenti, sia nel senso della mancata considerazione dell’importanza di questi rapporti, sia

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nella trasposizione acritica di modelli e questioni politiche sviluppati in ambito occidentale a contesti profondamente diversi.

Corpo e genere tra i Turkana

Analizzando il linguaggio e le metafore che i Turkana utilizzano per parlare degli uomini e delle donne, Vigdis Broch-Due mette in luce un altro aspetto problematico della definizione del genere, vale a dire il suo legame intrinseco con il dimorfismo sessuale quale fonte di diversità radicale. Se è indubbio che tutte le culture facciano distinzione tra maschi e femmine, non necessariamente l’evidente differenza degli organi genitali è concepita come un elemento di distinzione radicale e definitiva tra uomini e donne.

Per i Turkana, maschi e femmine possiedono un corredo anatomico simile sia per quel che riguarda la conformazione degli organi riproduttivi – semplicemente collocato all’esterno per gli uomini e all’interno per le donne – sia per quel che riguarda i fluidi, quali saliva, sangue, sperma e midollo osseo, ritenuti agenti essenziali della vitalità e potenzialità riproduttiva. Uomini e donne, così come i bovini di cui essi si prendono cura, producono nel proprio corpo, attraverso l’assimilazione e la trasformazione dei cibi, un fertile amalgama riproduttivo che prevede un accurato bilanciamento di elementi maschili e femminili. Questo quadro anatomico deriva per lo più dalle conoscenze empiriche acquisite dai Turkana attraverso la macellazione dei bovini. Nella concezione corporea turkana la procreazione diventa quindi un atto di continua collaborazione tra uomini e donne. L’atto del concepimento, la gestazione e il puerperio sono momenti in cui è essenziale che entrambi i partner siano coinvolti contribuendo ciascuno per la sua parte con il proprio fluido riproduttivo. Solo questa collaborazione – assimilata alla cottura dei cibi così come tra i Bangangté del Camerun (vedi Feldman-Savelsberg in questo volume) – garantisce l’equilibrio delle sostanze corporee, indispensabile affinché il nascituro sia sano e forte dal punto di vista fisico ed emotivo. La coesistenza di elementi maschili e femminili in ciascun individuo, di per sé sostanzialmente completo sotto il profilo fisiologico, sposta la questione della definizione del genere – e dei conseguenti comportamenti e ruoli sociali – su un altro piano rispetto al dimorfismo sessuale.

L’analisi di Broch-Due mette in luce come la caratterizzazione di uomini e donne in quanto esseri corporei e sociali non possa essere scissa dalla comprensione più ampia del pensiero fisico

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e metafisico dei Turkana. Analizzando la dimensione metaforica e pratica del linguaggio rituale e quotidiano utilizzato dai suoi informatori, l’autrice evidenzia la valenza profondamente culturale della definizione del corpo e delle sue funzioni fisiologiche e sociali. Il corpo non è un dato bruto a partire dal quale le culture elaborano modelli di genere diversi. È esso stesso frutto di elaborazione culturale alla stregua del genere e delle relazioni sociali che insieme concorrono a plasmare l’individuo e i suoi ruoli.

Nella visione turkana, il corpo è concepito come plurale e permeabile. La sua sopravvivenza, crescita e riproduzione dipendono infatti dal continuo scambio di elementi con l’ambiente circostante e con altri corpi. Il cibo, le cui proprietà sono in grado di influenzare il carattere degli individui, viene trasformato in sostanze vitali e fluidi riproduttivi presenti in quantità diverse nei corpi maschili e femminili. Così come le relazioni tra le diverse componenti della società si fondano sullo scambio di donne e di bestiame, così la riproduzione si fonda sullo scambio reciproco di elementi maschili (asciutti, amari, caldi e chiusi) e femminili (umidi, dolci, freddi e aperti). Il neonato è percepito come un essere androgino, che racchiude in se la rete di relazioni sociali che l’hanno portato al mondo, il cui corpo, genere e personalità saranno modellati in senso fisico metaforico e metonimico a partire dal momento della nascita.

Il corpo è nel pensiero turkana un’immagine della società e del cosmo. Vigdis Broch-Due analizza nel dettaglio la complessa rete di metafore e metonimie che legano i corpi animali, i corpi umani, i gruppi sociali e il paesaggio, connessi tra loro attraverso immagini di corpi dotati di genere, di processi corporei e di scambi fra corpi. Metafore e metonimie non sono soltanto elementi del pensiero e del linguaggio, ma si rivelano come tecniche pratiche e sensoriali che caratterizzano le azioni quotidiane e nel rapporto con l’ambiente. Un caso emblematico in cui la pluralità corporea trova una sua definizione nelle pratiche e azioni sociali sono le negoziazioni matrimoniali. Broch-Due dimostra come in queste interazioni il modello astratto degli attributi di genere contrastanti e complementari venga in qualche modo fissato e reso concreto nei “corpi sociali”. Si tratta però di una definizione contestuale, che può assumere caratteristiche diverse a seconda delle circostanze e delle negoziazioni. Le analogie corporee dei Turkana, che connettono strettamente diversi ordini di realtà, consentono continui passaggi di livello, che restituiscono un’immagine quanto mai complessa e articolata delle definizioni di genere, sottolineando, in modo quasi ossessivo, le dimensioni della complementarità e della permeabilità che informano qualsiasi concezione e pratica di riproduzione sociale.

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Nel pensiero turkana riportato da Vigdis Broch-Due, il genere appare come una realtà tutt’altro che univoca. Piuttosto emerge come una serie di attributi aperti a essere definiti e ridefiniti contestualmente attraverso le scelte e le azioni degli individui. Ciascun uomo e ciascuna donna contribuiscono infatti con elementi maschili e femminili – individuati nelle sostanze ma anche nei comportamenti – agli scambi che caratterizzano i rapporti tra individui e gruppi.

Tuttavia, la fluidità delle attribuzioni di genere tipica dell’interazione sociale, viene inevitabilmente cristallizzata a livello individuale, attraverso il modellamento sociale di un corpo inequivocabilmente connotato da attributi di genere univoci e da riferimenti concreti alla storia individuale. Azioni e decisioni personali e familiari sono infatti rese pubbliche e sottolineate in modo definitivo dalle cicatrici, che riflettono la storia sociale e personale, rivelando attraverso la texture individuale il potenziale e i successi di ogni persona. Tali scarificazioni riflettono da un lato il superamento dei riti di passaggio, caratteristici di ciascun genere, in occasione dei quali la pelle viene segnata con segni sanciti culturalmente. Dall’altro, la superficie corporea, attraverso le sue cicatrici, rivela anche il percorso individuale fatto di incidenti, malattie, terapie7 e altri eventi che definiscono in modo unico e incontrovertibile ciascun uomo e donna.

In questa prospettiva, i segni incisi sulla pelle diventano una traccia visibile del processo di costruzione della persona sociale. Come fa notare Marilyn Strathern (1993), tale processo non necessariamente va nella direzione del completamento della persona. Di fatto, tra i Turkana, la definizione dell’identità di genere dell’individuo adulto è il risultato di una complessa dinamica di plasmazione per sottrazione, dove il neonato androgino viene progressivamente trasformato in un uomo o una donna, la cui relativa incompletezza diventa il presupposto imprescindibile dello scambio e della collaborazione sociale e riproduttiva.

7 In molte società africane, la cura di diverse malattie prevede l’inserimento sottocutaneo di erbe e altre sostanze. I tagli operati in contesti terapeutici lasciano spesso cicatrici molto visibili sulle parti trattate complicando e

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Vigdis Broch-Due

Costruire significati dalla materia:

percezioni del sesso, del genere e dei corpi tra i Turkana

Hey, hey ci sono degli orecchini dentro il nostro tianga il tratto stretto e lungo con un buco

Hey, hey ci sono delle scodelle con l’olio dentro il nostro tianga il tratto stretto e lungo con un buco

Hey, hey ci sono dei cammelli dentro il nostro tianga il tratto stretto e lungo con un buco

Hey, hey ci sono dei bovini dentro il nostro tianga il tratto stretto e lungo con un buco

Hey, hey ci sono delle capre e delle pecore dentro il nostro tianga il tratto stretto e lungo con un buco

Hey, hey ci sono degli asini dentro il nostro tianga il tratto stretto e lungo con un buco

Hey, hey ci sono erba e acqua dentro il nostro tianga il tratto stretto e lungo con un buco

Hey, hey c’è del cibo dentro il nostro tianga il tratto stretto e lungo con un buco

Questa canzone, eseguita dalle donne durante i matrimoni, illustra bene il modo complesso ed efficace in cui la materia fisica partecipa alla politica della costruzione di significati tra i pastori Turkana del Kenya nordoccidentale. In particolare, la canzone mostra come una varietà di forme – esseri umani, animali, piante e artefatti – facciano parte di un unico universo verbale e visivo. Questo simbolismo complesso ha come fulcro il corpo fisico, fonte di una miriade di immagini creative investite di significati che vanno oltre la portata della parola, espresse anche dagli abiti ricchi di colore e dai segni incisi sulla pelle, che si accumulano nel corso della vita di un individuo. I corpi degli animali recano segni simili e partecipano anch’essi nello sforzo continuo di connettere le biografie delle persone attraverso l’accampamento e l’appartenenza clanica; gli animali amplificano l’effetto che le

Questo articolo è apparso originariamente con il titolo Making Meaning Out of Matter: Perceptions of Sex, Gender and Bodies among the Turkana in Broch-Due V., Rudie I. e Bleie T. (eds.) Carved Flesh Cast Selves. Gendered Symbols and Social Practices, Providence e Oxford, Berg, 1993, pp. 53-82. Traduzione italiana di Silvia Forni. Per esigenze di spazio sono state omessi alcuni brevi passagi del testo originale.

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persone cercano di produrre l’una sull’altra, rivelando le forme e i valori che esseri umani e oggetti acquisiscono.

Nella canzone, le donne Turkana parlano dell’interno del proprio corpo non come del luogo di un Sé individuale e unico, i cui segreti possono solo essere compresi sintomaticamente e disseppelliti analiticamente dal profondo terreno della “mente”.

Rivelano piuttosto l’assunto sorprendente e non-essenzialista che i loro corpi contengono qualcos’altro, altri corpi coagulati all’interno di ciascuno. Gli animali, le perline e le scodelle celebrate dalle donne sono artefatti incorporati che fungono da segno delle relazioni sociali, che vengono create attraverso il loro passaggio di proprietà durante la cerimonia del matrimonio. Attraverso la marcata gestualità e i passi di danza che accompagnano i canti, le donne mostrano come queste appendici personali sono estratte da un corpo e trasmesse a un altro. Mettono in scena il corteggiamento imitando la forma delle corna e il muggito del loro capo di bestiame preferito, così come farebbe un corteggiatore che volesse fare colpo sulla ragazza prescelta, definita essa stessa, convenzionalmente, come “una vacca grassa”.

Attraverso i movimenti sinuosi dei loro corpi, le donne proseguono la danza imitando con precisione i movimenti in cui marito e moglie si trasferiscono i contenuti dei propri corpi attraverso “il tratto stretto e lungo con un buco”. La sequenza della canzone è messa in scena attraverso una serie di gesti, in cui una rappresentazione corporea viene rapidamente trasformata in un’altra, ciascuna delle quali richiama una delle varie immagini connesse alla figura del tianga – un “selvaggio animale da riproduzione”.

Attraverso questo termine, la canzone costruisce una sorprendente analogia anatomica in cui i poteri riproduttivi di uomini e animali sono in qualche modo assimilati;

tianga, infatti, è espressione figurata che si riferisce al pene e alla vagina umani, che vengono concepiti come uniti in un’unica forma. Questa metafora crea un’immagine multipla che annulla temporaneamente non solo le differenze tra esseri umani e animali, ma anche tra uomini e donne. La continuità costruita tra uomini e animali si ritrova anche nelle teorie turkana sulla procreazione. La genesi del bambino e del vitello è immaginata come derivante dalle stesse origini, nello specifico ”erba” e “acqua” – chiaramente connesse ai termini utilizzati per sperma e sangue coagulato. Contenuta in queste immagini sovrapposte di sessualità e procreazione, è anche l’immagine della fisiologia comune del processo di assimilazione del cibo. I Turkana riconoscono che i corpi degli animali e delle persone sono di fatto in relazione tra loro in quanto sistemi analoghi di acquisizione e rilascio inseriti in

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successione nella sequenza della catena alimentare pastorale, in cui acqua ed erba passano nel latte, sangue, grasso e carne degli animali che, a loro volta, vengono consumati e digeriti dagli uomini. Una rivelazione più sorprendente è che entrambe le parti di questo fertile amalgama – erba/sperma e acqua/sangue – figurano nel paesaggio corporeo femminile della canzone. Nella fisiologia turkana la femmina, così come il maschio, è ritenuta capace di produrre sperma in quantità sufficienti a garantire la propria vitalità e il nutrimento del feto.

Per concepire, la donna ha bisogno di un surplus di sperma da un donatore maschio che deve essere mescolato con il proprio surplus di sangue. I corpi degli uomini e delle donne sono analoghi, nel senso che entrambi partecipano allo scambio di sostanze procreative in una transazione del tutto egualitaria.

Quando le donne, nella loro ballata, rivolgono la propria attenzione al corpo femminile per comunicare al mondo le sue capacità sociali, sfruttano la capacità analogica del linguaggio per sottolineare le affermazioni espresse attraverso la loro gestualità. Come un’analogia funziona attraverso la giustapposizione di forme linguistiche, così, in questo caso, a essere giustapposti sono corpi e parole (Strathern, 1989). Attraverso la rappresentazione culturale della realtà, vedremo come i Turkana giocano costantemente, e in modo molto sofisticato, con la materialità del linguaggio e la semiologia della materia.

Prestare attenzione all’impatto estetico che i Turkana cercano di produrre con i propri corpi e con quelli dei propri animali, nella poesia e nella pratica, significa prestare attenzione alla forma del loro pensiero. Ma che tipo di status analitico dobbiamo attribuire alla percezione turkana del corpo?

Il corpo come materia e significato

La canzone iniziale è un punto di partenza per comprendere una società le cui parti si connettono attraverso il movimento delle cose, tangibili e intangibili, che transitano da una persona a un’altra in seguito a richieste e contro-richieste e legano individui, gruppi e regni nello scambio di doni. Per i Turkana, i doni non sono semplici oggetti. Sono appendici animate della persona. Per ricapitolare la classica argomentazione di Mauss (1970), l’oggetto donato è dotato delle stesse caratteristiche del donatore. L’atto del donare non è solo una metafora della relazione, ma sposta concretamente l’immagine del donatore nella coscienza di colui che riceve, creando una trasformazione non metaforica ma metonimica.

Contrariamente alla costruzione europea del dono, il dono turkana non solo rappresenta ma

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incarna in modo concreto gli attributi di persone, relazioni e aspetti del mondo naturale.

Questo riflette una caratteristica persistente del pensiero turkana: la persona non è un’entità unitaria e delimitata, ma plurale e permeabile. Le relazioni sociali e quelle tra i sessi, nonché i doni che incarnano queste relazioni, sono tutti considerati presenti e attivi nel corpo di ciascuna persona.

Lo spettro di associazioni connesse al termine turkana per ‘corpo’ illustra molto chiaramente questo orizzonte di pensiero e azione. Itwan è un termine in cui convergono i significati di ‘corpo’ e di ‘persona’. Il tema ‘wan’ fa anche parte di una rete semantica che intreccia insieme i termini ‘stesso’, ikwaan, ‘simile’, ikwan, e ‘dissimile’, nyikwaan.

Significativamente, l’atto di divenire ‘simile’ è espresso con il verbo attivo arianikini, da akine che significa ‘capra, dare, dono, contratto e debito’, e rimanda quindi all’idea che sia avvenuta una qualche forma di scambio. Al contrario, l’essere ‘non mescolato’ è espresso dall’aggettivo nyinyalakina, che significa letteralmente che il dono non è stato ‘assaggiato’, e implica pertanto l’assenza di un trasferimento. Da ciò si può evincere che i termini che esprimono la reciprocità sono connessi ai termini corporei di consumo. Questi idiomi di transazione, imbricati nel linguaggio stesso, rendono più facile comprendere perché, per esempio, ‘pene’ (amir) ha un prefisso di genere femminile, mentre ‘clitoride’ (emornire) ha un prefisso di genere maschile. Questo è solo uno dei molti esempi di coppie sessuate di termini costantemente e sistematicamente invertiti.

I Turkana, chiaramente, non hanno nessun problema a distinguere “uomo”, ekile, da

“donna”, aberu. Nella vita di tutti i giorni, gli attori si presentano al mondo con un'unica immagine, una figura totalmente maschile o totalmente femminile resa esplicita dall’abbigliamento e dalla decorazione della pelle con segni che connotano in modo specifico il genere. Il genere diventa una continua stilizzazione dei contorni del corpo e dell’abbigliamento connesso a una serie di atti ripetuti all’interno di una cornice flessibile (vedi Butler, 1990). Di fatto, il frequente trasferimento di sostanze sessuali crea un incrocio tale che l’uomo viene a incarnare qualcosa di ‘femminile’, mentre la donna incarna qualcosa di ‘maschile’. La conseguenza di queste azioni si manifesta negli effetti prodotti nell’altra persona, o eventualmente nel loro prodotto congiunto: per esempio un bambino, ikoko, che ha un prefisso neutro esattamente perché è percepito come androgino in termini di genere.

Maschio e femmina non sono identici ma di tipologia abbastanza simile. Sono concepiti sia come due metà di una stessa forma o un elemento di una coppia (Strathern, 1988). Abbiamo

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a che fare con una cultura in cui le persone scambiano tra loro parti di se stessi attraverso le cose che si donano a vicenda. Questo ci porta a un’altra questione. Per queste persone non è il genere che determina la natura e la direzione del dare e del ricevere, ma piuttosto il contrario: l’atto del donare è un atto ‘maschile’ e quello del ricevere un atto ‘femminile’. Per i Turkana, quindi, quando un uomo e una donna danno e ricevono allo stesso momento, sono contemporaneamente impegnati in un atto maschile e in uno femminile.

Il gioco delle metafore e metonimie corporee ci proietta direttamente nel cuore dell’acceso dibattito tra ‘essenzialisti’ e ‘costruzionisti’ che ruota intorno alla domanda fondamentale formulata da De Beauvoir. “La donna (o l’uomo) sono così dalla nascita o sono prodotti successivamente?” Gli essenzialisti vedono i sessi ‘maschile’ e ‘femminile’

come qualche cosa di stabile, segni naturali che originano da una matrice biologica pre- discorsiva che trasporta attraverso il tempo e le culture, le categorie di ‘uomo’ e ‘donna’ che rimangono intrinsecamente coerenti. I costruzionisti, dal canto loro, cercano di mettere tra parentesi la biologia del sesso, concentrandosi invece sulle differenze di genere e sulle differenze che il genere produce, viste come effetti che risultano da un’elaborazione discorsiva e da fattori eminentemente sociali. Al di là di queste differenze superficiali, entrambi gli approcci vedono il corpo come un mezzo muto e passivo sottoposto alle forze trasformative impresse dalla ‘natura’ o dalla ‘cultura’. Nel porre materia e significato come termini esclusivi, entrambi cancellano gli effetti problematici prodotti dall’intersezione tra il mentale e il materiale (Butler, 1990). In effetti, molte femministe che temono gli attacchi dei teorici essenzialisti, escludono i corpi materiali dalle loro trattazioni. Nel passaggio tra la formulazione “il corpo non è materia” a “il corpo non è materia d’interesse”1 si crea uno spazio vuoto. Quello che si perde in molte riflessioni contemporanee è precisamente un’analisi del corpo come materia (Fuss, 1989). Tuttavia, per quanto possano apparire lontane dalla materia, le costruzioni culturali della realtà originano da forme fisiche, e quelle forme devono in qualche modo comunicare con la sfera concettuale – sia pure filtrate attraverso il linguaggio e le rappresentazioni che strutturano le esperienze e le spiegazioni della realtà.

Infatti, la teoria del corpo permeabile e plurale elaborata dai Turkana è costruita su un sapere pratico raffinato connesso alle tecniche di allevamento di bovini sviluppate per

1 Nel testo originale inglese queste due affermazioni “the body is not matter” e “the body does not matter”

(letteralmente “il corpo non ha importanza”) consentono un gioco di parole molto più efficace rispetto alla resa italiana (NDT).

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ottenere vitelli con una costituzione particolare. Questo è ottenuto grazie a uno studio preciso delle genealogie di vacche e tori, che consente di scegliere le combinazioni ideali per l’accoppiamento. Sono molti gli incentivi sociali che spingono questi pastori ad acquisire saperi e tecniche sofisticate di manipolazione della biologia sessuale degli animali finalizzate a ottenere buoni risultati procreativi. Incroci strategici di mandrie sono mirati a produrre animali con manti di colori specifici, che possono dimostrare le capacità tecniche e il successo di un individuo: più grande è il numero di animali che mostra il particolare disegno del proprietario, maggiori sono i guadagni che questo può sperare di ottenere.

Ci si potrebbe chiedere perché dunque gente competente come i Turkana, che continuamente incrociano animali che sono manifestamente maschi o femmine, elaborino una teoria della sessualità che prevede che le donne producano sperma all’interno del loro corpo? Perché, mentre il dimorfismo sessuale di animali e esseri umani ha una funzione evidente per l’accoppiamento e la riproduzione, l’economia dei fluidi in quanto tale, e la fisiologia degli scambi procreativi non sono così facilmente distinguibili né così facilmente attribuibili all’uno o l’altro sesso. In generale, nessuna serie di fatti rimanda mai a un’immagine essenzialista della differenza sessuale per quel che riguarda la sostanza corporea (vedi Laqueur, 1990).

La biologia del sesso è sempre ambigua, potenzialmente capace di scolpire la carne (e i fluidi) in ‘maschile’ e ‘femminile’ secondo una molteplicità di modelli, appunto perché è anche parte di altri programmi culturali. Tutto ciò che uno dice, al di fuori di contesti molto specifici, riguardo alla biologia del sesso, anche riferita al mondo animale, è già mediato da modelli specifici al cui interno sono contenuti precisi costrutti di genere. Questi modelli si intersecano con idee complesse e conflittuali riguardanti i concetti di differenza ed eguaglianza espressi nei discorsi di genere che, nella percezione sociale dei corpi sessuati, funzionano da filtro oscurando alcune possibilità e privilegiandone altre. L’interpretazione dei segni naturali implica ed è, a sua volta, implicata in una teoria culturale di base che determina ciò che conta e ciò che non conta come evidenza. Sebbene i significati attribuiti ai corpi materiali si confrontino con alcuni vincoli iniziali posti dalla biologia stessa, le risposte ottenute dall’analisi dipendono evidentemente dalla prospettiva da cui le persone intraprendono le proprie indagini. Dato che i Turkana non praticano la dissezione dei corpi umani, né possiedono laboratori ben attrezzati per elaborare esperimenti bio-chimici, devono arrangiarsi osservando i corpi degli animali. Dal momento che solitamente le

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femmine sono allevate per la produzione di latte, mentre i maschi vengono macellati per la carne, la maggior parte delle carcasse che si ritrovano a studiare sono quelle maschili. Di conseguenza, il modello fisiologico proposto da questa popolazione di pastori, nel quale i corpi maschili e femminili appaiono come variazioni gli uni degli altri, incorpora la conoscenza anatomica acquisita attraverso i segni naturali visti e interpretati nel corso delle macellazioni.

La costruzione di una corporeità unisessuata con le sue diverse versioni di genere – maschile, femminile e androgina – si riflette in un’organizzazione della parentela in cui si dà così tanta importanza alla maternità nel contesto della discendenza patrilineare che di fatto il sistema funziona in modo bilaterale. Le rappresentazioni naturalistiche dei processi che avvengono nei corpi dei bovini come modelli per i corpi umani, da un lato, e i costrutti culturali della parentela, dall’altro, si combinano per creare il terreno concettuale che influenza in modo del tutto particolare le percezioni delle esperienze sensoriali, dei processi corporei e del genere dei Turkana. Se, per certi aspetti, uomini e animali si assomigliano, per altri sono profondamente diversi. Questa differenza è elaborata nelle percezioni relative alla procreazione e alla gravidanza.

Per apprezzare il modo in cui queste costruzioni si confrontano con i corpi materiali, è necessario decostruire la predominanza del pensiero metaforico tipica della mentalità occidentale per privilegiare il pensiero metonimico. Dobbiamo inoltre pensare alla metafora e alla metonimia, non solo come figure intessute in pensieri, parole e testi, ma anche come tecniche pratiche e sensoriali utilizzate nelle azioni quotidiane e nel rapporto con l’ambiente. Il tipo di pensiero esemplificato dai Turkana è un caso emblematico di quanto espresso nella famosa frase di Mary Douglas: “Ciò che è scolpito nella carne è un’immagine della società”.

Questa affermazione spinge l’attenzione verso immagini corporee molto concrete in cui il mentale e il materiale, significato e materia, sono giustapposti. Il corpo emerge al contempo come una superficie solida e come la scena dell’iscrizione sociale. La riflessione della Douglas evidenzia la relazione tra il corpo esperienziale e particolare (pratica e performance) e il corpo rappresentativo e astratto (simbolico e semantico). Più profondamente, il corpo fisico e il corpo sociale “si toccano” l’un l’altro. Questa affermazione metaforica, con la sua immagine di contatto e continuità tra campi apparentemente disparati, rende evidente il movimento della metonimia.

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Nel corso di questo capitolo, vedremo l’importanza delle trasformazioni metonimiche, che hanno luogo dentro e intorno al corpo, immaginato come un sistema continuo di assunzione e rilascio di sostanze, per costruire e poi rompere i ponti metaforici tra fenomeni apparentemente distanti tra loro nello spazio fisico e mentale. Per avvicinarci al meccanismo che rende questa operazione possibile dobbiamo cercare di cogliere una modalità cognitiva in cui i significati sono concepiti come concretamente imbricati nella materialità delle cose e il gioco delle figure retoriche come qualche cosa che permea il mondo materiale. I Turkana sono in sintonia con gli elementi dell’ambiente in tutti i dettagli empirici osservabili, le loro forme, odori, suoni, e così via. Fanno molta attenzione alle cose, con il loro potenziale inerente di crescita e trasformazione, il loro ciclo di crescita e decadimento. Osservando ogni sfumatura del materiale, notano anche le molteplici connessioni tra cose diverse che si esplicitano attraverso somiglianze tra questi termini. Le azioni, pratiche, artefatti e forme linguistiche che si fondano su queste connessioni sono, dal loro punto di vista, espressione e messa in atto di questa rete di nessi che a sua volta si riflette nei comportamenti, negli utensili e nel linguaggio parlato.

Analiticamente questo punto è di grande importanza. Se un osservatore esterno inevitabilmente vede la molteplicità di modi in cui questi pastori formano le proprie esperienze e filtrano quello che vedono nel mondo materiale attraverso le categorie linguistiche a loro disposizione, il fatto che i Turkana stessi considerino la relazione tra le parole e il mondo come una corrispondenza biunivoca caratterizza il loro pensiero. Ciò ha delle implicazioni reali sia nell’azione sia nell’uso del linguaggio. Il mio obiettivo in questo capitolo è di tentare un duplice difficile compito. Da un lato, analizzare le costruzioni di legami concreti tra il materiale e il mentale tipiche dei Turkana, e le loro conseguenze reali.

Dall’altro, tentare di rendere le loro percezioni dei significati analogici inerenti al mondo materiale e le ugualmente reali conseguenze dell’assunto che queste non siano assolutamente delle costruzioni. Questo obiettivo determina la forma e lo stile del mio resoconto, che prende le mosse dal pensiero analogico turkana seguendo un numero di fili strettamente connessi e intrecciati che ci consentono di cogliere come i sensi e i modi di vedere, parlare, toccare e gustare sono costruiti all’interno della loro concezione del sapere. In seguito analizzerò le loro idee di uguaglianza e differenza dei corpi maschile e femminile, e di quelli umani e animali, per terminare con la loro concezione della società umana e degli scambi su cui è costruita. Il mio scopo è di lasciare che l’estrema raffinatezza del discorso turkana, che

Referências

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