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da Casa Madre Istituto Missioni Consolata Anno 96 - N.11 Novembre Perstiterunt in Amore Fraternitatis

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Anno 96 - N.11 Novembre - 2016

La tentazione più pericolosa è non assomigliare a nulla.

(Albert Camus)

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FRAMMENTI DI LUCE

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P. Giuseppe Ronco, IMC

HAVEL HAVALIM.

“TUTTO E’ UN INFINITO NULLA”

“Quando il Rinascimento con Erasmo, poi l’Illuminismo con Diderot, con Voltaire, con Rousseau, ma anche con il Marchese de Sade, e via via fino a quell’ebreo ateo che è stato Sigmund Freud, proclamano la libertà degli uomini e delle donne di ribellarsi contro i dogmi e le oppressioni, la libertà di emancipare gli spiriti e i corpi, di mettere in discussione ogni certezza, comandamento o valore - aprono forse essi la porta a un nichilismo apocalittico? Figlio della cultura europea, l’umanesimo è l’incontro di differenze culturali favorite dalla globalizzazione e dall’informatizzazione. L’umanesimo rispetta, traduce e rivaluta le varianti dei bisogni di credere e dei desideri di sapere che sono patrimonio universale di tutte le civiltà.

Non c’è più un Universo; la ricerca scientifica scopre e indaga continuamente il Multiverso . Molteplicità di culture, di religioni, di gusti e di creazioni. Molteplicità di spazi cosmici, di materie e di energie che coabitano con il vuoto, che si compongono con il vuoto. Non abbiate paura di essere mortali. Capace di pensare il multiverso, l’umanesimo è chiamato a confrontarsi con un compito epocale: iscrivere la mortalità nei multiversi della vita e del cosmo”

(Julia Kristeva).

Con queste parole pronunciate a Parigi nel Cortile dei gentili (marzo 2011) e ad Assisi nell’incontro di preghiera delle Religioni (ottobre 2011), Julia Kristeva, nota semiologa e psicanalista francese di origine bulgara, rivendica il diritto di esistenza all’umanesimo secolarizzato, definito in tempi passati come ateismo.

Il dialogo tra le religioni e l’umanesimo secolarizzato viene oggi alla ribalta come un compito missionario. Si tratta infatti di mettersi in relazione empatica con la periferia esistenziale

dell’ateismo, che pone domande fondamentali

sul senso della vita e della morte, in un contesto di società che non riconosce più i valori cristiani. E’ evangelizzazione ad gentes nel senso proprio del termine, proprio perché vuole testimoniare il Vangelo a persone intellettuali che escludono Dio dall’orizzonte della loro vita.

La Bibbia conosce il lamento di chi percepisce Dio lontano, di chi dubita della sua esistenza e di chi ricerca con onestà, pur senza trovarlo, il senso ultimo della vita. Alcuni Salmi, Geremia e Giobbe ne sono l’esempio classico.

La rivelazione accoglie all’interno di sé anche le oscurità di un uomo come Qohelet, sconsolato e

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disilluso, pericolosamente vicino alla negazione di ogni valore.

Come comportarsi allora davanti a chi, per esperienza di vita, ritiene che “la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa” (Qo 3,18), di chi dice “presi in odio la vita, perché mi era insopportabile quello che si fa sotto il sole” (Qo 2,17) perché l’esistenza è un’ombra assurda (6,12), di chi sostiene “migliore è l’aborto” (6,3) dell’uomo vivo, o di chi ritiene che “tutto è un infinito niente” (così traduce G. Ceronetti Havel

Havalim, vanità delle vanità) (Qo 1,1)?

Le risposte esigono tempo, illuminata saggezza e pazienza.

“Fratello ateo, nobilmente pensoso, alla ricerca di un Dio che non so darti, attraversiamo insieme il deserto. Di deserto in deserto andiamo oltre la foresta delle fedi,

liberi e nudi verso il Nudo Essere e là

dove la parola muore

abbia fine il nostro cammino”. (David Maria Turoldo, Canti ultimi)

Quale senso ha l’uomo e la vita?

Sfugge alle possibilità di questo articolo, ma sarebbe interessante mettere a confronto le domande e le risposte sul senso dell’uomo e della vita poste da Qohelet e dagli umanisti secolarizzati. Sono domande antiche che si perpetuano nel tempo, e diventano nuove attraversando i contesti storici che incontrano. Impressiona l’orizzonte comune di Qohelet e dell’umanesimo secolarizzato nel ritenere vano e inutile ogni ricerca di senso, perché la vita condannata alla morte non può avere un senso. Il convincimento poi dell’umanista, desideroso di essere artefice del suo destino, lasciando Dio “nei cieli” e non ritenendolo necessario, si scontra contro l’ineluttabilità di un mistero che permane insoluto. Anche Qohelet è convinto che Dio sia impenetrabile e perciò improponibile in ogni ricerca di senso, essendo la misteriosità assoluta di Dio incomprensibile per l’uomo.

“Tutto è vanità, dice Qohelet” (Qo 1,1), proprio come Jean Rostand sostiene nella sua riflessione sull’uomo. “Atomo irrisorio, sperduto nel cosmo inerte e sconfinato, l’uomo sa che la sua febbrile attività è soltanto un piccolo fenomeno locale, effimero, senza significato e senza scopo. Sa che i suoi valori valgono soltanto per lui e che, dal punto di vista siderale, la caduta di un impero o la rovina di un ideale equivalgono alla distruzione di un formicaio sotto il piede di un passante distratto” (J. Rostand, L’Homme, Paris 1962, 173).

Già la tragedia greca nel suo pessimismo lo aveva detto: “Noi tutti che viviamo, altro non siamo che una vana immagine o una vuota ombra” (Sofocle, Aiace, 125, 126)

E’ facile identificare nell’ havel concepito come

fumo e vanità la risposta comune alla domanda di

senso sull’uomo e sull’esistenza. Questa parola, che già appare all’inizio del libro della Genesi nel nome di Abele (Havel, l’uomo dell’evanescenza), secondogenito di Adamo ed Eva, contiene in sé in tragico destino dell’uomo segnato dalla morte. Egli è fumo, nebbia, appannamento, ombra, caos, vacuità, nulla.

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Il destino dei nostri giorni è la « polvere », cioè il vuoto dello sheol, sorte identica a quella delle bestie (cfr Qo 3,18-2 1; 12,7).

“Ribelle solitario, pensatore eccentrico, desideroso di una risposta globale al senso della vita e dell’essere contro ogni spiegazione settoriale, Qohelet è visto come un intellettuale critico che, pur usando metodi e strutture della sapienza tradizionale, ne rivela la radicale insufficienza. Ecco, allora, la vita priva di senso, ridotta ad hebel vano e fumoso; ecco la percezione della storia come una catena ciclica e deterministica in cui Dio ci imprigiona; ecco l’oggettiva incomprensibilità dell’essere, del mondo, dell’ opera di Dio” (G. Ravasi, Qohelet, 2012).

E sulla morte che dire?

“Quando adesso mi racchiudo nelle mani la mia faccia di vecchio,

sotto le dita esattamente scopro al tatto il contorno d’un teschio”.

Così scrive Jaroslav Seifert, primo ceco di Praga ad ottenere il Premio Nobel per la letteratura nel 1984, nella sua opera L’ombrello di Piccadilly. Per la cultura contemporanea la morte è un avvenimento assurdo, perché le ragioni del morire sono ignote.

Essa va “sterilizzata a ogni costo, vetrificata, criogenizzata, climatizzata, truccata, braccata con lo stesso accanimento della sporcizia, del sesso, dei residui batteriologici o radioattivi” (J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la

morte,2007).

La morte dà scacco matto all’umanista secolarizzato che si crede artefice del suo destino, spezza il corso dell’ esistenza, mette fine agli affetti, rompe i legami con la società, creando silenzio e vuoto attorno a noi. Ci fa toccare con mano l’assurdità di una vita che finisce e che tutto ingoia nella morte.

Scrive Roger Garaudy: “Ogni tentativo di sottrarre l’individuo alla morte è soltanto una consolazione illusoria che diamo a noi

stessi, si tratti della credenza animistica nella sopravvivenza di un doppione o della pretesa immortalità dell’anima di Platone. La morte è angosciosa soltanto per chi si ferma al suo mondo individuale, si attacca alle sue proprietà. Perché tutto ciò che è individuo sarà distrutto dalla morte. Individuo biologico e personaggio sociale non sopravvivono al naufragio” (R. Garaudy,

Parola di uomo, Assisi 1975, pp. 31-32).

Alla stessa conclusione giunge Qohelet (cfr 11,7-12,8). Finito il tempo della giovinezza e dei capelli neri, l’uomo invecchia e tutto gli scivola dalle mani e va verso il nulla.

Arriva il lungo, triste e buio inverno della vecchiaia, quando le forze diminuiscono, la vista si offusca, i desideri si attenuano, il corpo va lentamente in sfacelo, come il palazzo di un ricco signore ormai rimasto solo e in miseria. Nulla

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più lo appassiona; tutto gli appare monotono e triste; il suo corpo perde vigore e la sua schiena s’incurva; fatica a mangiare perché gli sono rimasti pochi denti; le cateratte gli annebbiano la vista; non ha più desiderio di muoversi, di uscire; i movimenti si fanno lenti e l’udito diminuisce; la voce diventa fioca e insicura; la memoria si fa incerta e manca la voglia di fare festa; l’incedere diventa insicuro, le salite fanno venire il fiatone e ogni piccolo ostacolo rappresenta un pericolo; i capelli diventano bianchi; gli appetiti gastronomici e sessuali si affievoliscono.

Per Qoèlet la vecchiaia è come un lungo inverno al quale non segue più la primavera, ma la fine di tutto e la discesa nella tomba, accompagnati dai piagnoni che si aggirano per le strade della città in attesa del lavoro che certamente prima o poi verrà.

Il filo d’argento della vita si spezza per sempre. Assieme ad esso vanno in frantumi la lampada d’oro dell’intelligenza che illuminava quella nobile casa, l’anfora per dissetarsi alla fonte della sapienza e la carrucola che permetteva di attingere la saggezza al pozzo della storia.

“Vanità delle vanità, dice Qohelet, tutto è vanità: Tutto è un infinito niente” (Qo 12,8).

Ben diversa è la prospettiva cristiana, cantata da P.D. M. Turoldo quando gli annunziarono di avere il cancro:

“Ieri infatti all’ora nona mi dissero: il Drago è certo, insediato nel centro del ventre come un re sul trono. E calmo risposi: bene! Mettiamoci in orbita.

Quando avrò dalla mia cella salutato gli amici e il sole e si alzerà la notte, finalmente saldato il conto, campane suonate a distesa: la porta è da tempo segnata dal sangue pronte le erbe amare e il pane azimo: allora andremo leggeri nel vento.

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L’imperativa urgenza di dialogo

Dialogare con l’umanesimo ateo è un compito difficile e i missionari ad gentes dovrebbero assumerlo come campo del loro ministero. E’ il cortile dei gentili per eccellenza, dove le problematiche esistenziali dell’uomo che non ammette Dio nel suo orizzonte, emergono con forza e ferocia.

Comprende il confronto con l’ateismo rigoroso che sostituisce l’uomo alla trascendenza di Dio. Comprende il dialogo con l’incredulità dove non si ammette l’interferenza di Dio nelle vicende umane. Si dialoga con chi non concorda con l’assenza o il mutismo di Dio di fronte al dolore e al male che vanifica l’affermazione di un mondo felice. Ed è anche il dialogo con chi vive la notte dello Spirito, non sapendo più riconoscere “la mancanza di Dio come mancanza” (cfr. M. Heiddeger, Sentieri interrotti).

L’esempio di Qohelet è mirabile: egli si fa voce

di un’umanità che non sa trovare una risposta ai molti perché della vita e al silenzio di Dio. Combatte la religione consolatoria, nemico di una religiosità di superficie e delle spiegazioni di seconda mano.

Egli vuole che l’uomo abbia il coraggio di arrivare fino alle domande ultime, di interrogarsi in profondità, vagliando tutti gli argomenti che gli hanno insegnato, per vedere se sono validi o no.

“Dio gradisce molto di più

le bestemmie del disperato, che non le lodi tranquille

e compassate del benestante” (M. Lutero).

Il messaggio di Qohèlet è chiaro: anche all’interno di un uomo disperato che non trova risposta ai suoi perché, c’ è un Dio che parla.

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BEATA IRENE STEFANI

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MARIA E SUOR IRENE

In occasione della festa della Consolata, stralciamo alcuni pensieri di suor Gian Paola e di Padre Giuseppe Mina da articoli pubblicati sull’informativo “Continuando il cammino” (n.2 e n.11).

Tutti i santi, dai luminari della teologia ai piccoli servi di Yavhè, impostando la loro vita su un amore appassionato per Cristo, guardano a Maria, camminano mano nella mano con lei, non la perdono mai di vista e, nella loro peregrinazione di fede, ne seguono le orme con spontaneità di figli.

Anche per Irene Stefani è stato così.

Dire quando abbia cominciato ad amare Maria, è difficile. Indubbiamente succhiò quell’amore col latte di sua madre, lo respirò in famiglia, crebbe con lei negli anni, fino a traboccare in gesti, in parole, in invocazioni continue a Maria, la Madre di Gesù

Ella non scrisse pagine o trattati di mariologia, ma non c’è sua lettera in cui non c’entri Maria, non ci sono incontri fortuiti con qualsiasi persona, che ella non conclude con esortazioni d’amore verso Maria; non ci sono piste da lei percorse in Africa, ora sul litorale sabbioso e bruciante del Tanzania durante il difficile periodo bellico, ora nell’intrico delle boscaglie kikuyu, senza un continuo sgranare di Ave Maria

“Camminava calzando i duri scarponi militari,

con in testa il casco per ripararsi dal sole e, in mano, sempre, il rosario”.

Così l’hanno descritta Bernard Mugambi, Clotilde Nyambura, e tanto altri testimoni africani. “ Da lei ho imparato in che cosa consiste la vera devozione a Maria”, osservava madre Giovanna Wambui, superiora generale emerita della congregazione delle Suore dell’Immacolata di Nyeri.

Per suor Irene la Madre di Dio aveva un nome particolare: Consolata. Fin dall’inizio la sua vocazione fu legata a questo nome e questa devozione di Maria:

Tra i Santuari che videro entrare lungo i secoli santi, beati, venerabili, servi di Dio... a decine, vi è certamente il Santuario della Consolata.

E’ interessante per noi riandare al momento in cui vi entrò anche la Serva di Dio suor Irene Stefani, allora semplicemente Mercede Stefani. La fama degli Istituti Missionari fondati dall’Allamano, Rettore appunto del Santuario ed oggi Beato anche lui, era corsa lontano raggiungendo Brescia ed anche Anfo, la piccola borgata bresciana nella qua- le il 22 agosto 1891, era nata Mercede. Il primo ad essere contagiato dalle Missioni torinesi fu padre Angelo Bellani (1875-1964), di Palosco (Diocesi di Brescia). La sua indole incandescente trasmise a molti il suo entusiasmo missionario. Tra i primi, ricordiamo gli Anfesi

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Bartolomeo Liberini (1890-1960) e Mercede Stefani (1891-1930).

Questa che, a 13 anni già sognava le missioni, non tardò a parlarne decisamente ai genitori e a vent’anni, tramite lo zelante parroco don Capitanio, inoltrò domanda all’Allamano per essere ammessa sa all’Istituto della Consolata di recente fondazione. Era una giovane tutto fare, piena di vita, esuberante nello zelo e l’Allamano non tardò a dare il suo consenso anzi, fissò la data della sua entrata nell’ Istituto per il 19 giugno 1911.

Perché scelse proprio tale giorno - vigilia della festa della Consolata - non lo sappiamo, ma tant’è: accompagnata dal babbo e dal parroco, puntuale, il 19 giugno Mercede giunge a Torino. Pioveva a dirotto.

Una folla indescrivibile si accalcava nelle strade adiacenti e sulla piazzetta del Santuario, cercando di entrare. Folle simili Mercede non ne aveva mai viste! La piccola comitiva a stento poté raggiungere l’ufficio dove l’Allamano li attendeva. Papà Stefani, baciata la mano al Rettore, gli si inginocchiò ai piedi con accanto la figlia. Il buon canonico, commosso per questo spontaneo gesto di fede, fatta accompagnare Mercede alla sede dell’Istituto, volle che Stefani ed il parroco si trattenessero con lui a pranzo. A papà Stefani l’Allamano donerà, prima della partenza, una bella grande tela della Consolata.

Mercede era la ventisettesima recluta che l’Allamano

riceveva nel suo Istituto Femminile che contava allora solo un anno di vita. Venuto il momento del distacco, Mercede si inginocchiò davanti al babbo per l’ultima benedizione, e poi, dopo un abbraccio straziante e il cuore pieno di gioia, cercò finalmente di entrare nel Santuario. Non fu impresa facile. La gente si pigiava ovunque in modo in- verosimile. Ceri e luci e oranti che, a piena voce, pregavano Maria e cantavano. Lei poté, alfine, con le giovani consorelle, giungere presso l’altare splendidamente parato. Mercede veniva per darsi al Signore Gesù per l’avvento del suo Regno, ed aveva a Lui detto “di sì”. Adesso i suoi grandi occhi neri fissavano la bella icona: Maria ed il Bambino le restituivano lo sguardo dolcissimo.

A sedici anni Mercede aveva perso la mamma e la seconda moglie dello Stefani, Teresa Savoldi, per quarto buona, non aveva riempito il vuoto procurato da quella perdita.

Adesso, a vent’anni, un’altra madre stava dinanzi a lei e, in quel momento, Mercede sentì di aver ritrovato una Mamma che non l’avrebbe lasciata mai più. Per tre anni fino al momento della partenza per l’Africa almeno ogni sabato verrà a trovarla al Santuario. Era la tradizione che, passata dai missionari alle sorelle missionarie, continuava come espressione di affetto, supplica e preghiera, e come risposta al desiderio dell’Allamano. E ogni volta sarà il ripetersi dell’incontro con una Madre che infondeva consolazione e Mercede ardeva dal desiderio di portarla un giorno alle genti.

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L’ALLAMANO

NELLE SUE LETTERE

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Che l’Allamano abbia insistito sulla santità come premessa indispensabile per essere missionari e missionarie è risaputo. Esprimeva sinteticamente il suo ideale con le parole di S. Tommaso d’Aquino alle sorelle che gli chiedevano come farsi sante: “Basta volerlo: voglio farmi santa, presto santa, grande santa”. Lui ripeteva questa famosa trilogia quando parlava ai suoi giovani, sia al maschile che al femminile, perché voleva che i suoi missionari e le sue missionarie fossero di prima qualità, cioè “santi” e “sante” al superlativo.

Ciò che si deve notare, però, è un aspetto che caratterizza la pedagogia dell’Allamano: la santità era proposta sempre in vista della missione. Si potrebbe dire che proponeva una “santità missionaria”. Questo particolare lo si coglie soprattutto perché l’Allamano abbinava quasi sempre l’impegno della propria santità con quella della “salvezza delle anime”, come usava esprimersi. Soprattutto nelle lettere questo aspetto emerge molto chiaramente e anche molto spesso.

Ai missionari del Kenya, parlando dello spirito di fede nella lettera circolare del 27 novembre 1903, precisò: «Ognuno tenga sempre dinnanzi agli occhi della mente l’ad quid venisti? [perché sei venuto?]. Non per motivi umani siete venuti in Africa, ma solo per farvi più santi e

con voi salvare molte anime, e così meritarvi il paradiso riservato agli Apostoli. E ciò otterrete se praticamente ed in tutte le circostanze della vita procurerete di avere in mira Dio solo – Deus

meus et omnia [mio Dio e mio tutto]» (III, 687).

Si noti quel “più santi” con il quale il Fondatore esprimeva la convinzione che la missione richiede un “di più”, cioè una santità “superlativa”.

Nella lettera circolare ai missionari del Kenya scritta il 6 gennaio 1905, dopo avere parlato della conclusione dell’anno centenario alla Consolata, scrisse parole molto affettuose proprio pensando ai suoi figli lontani: «Se i chierici vostri confratelli furono giustamente orgogliosi di assumersi in quei giorni la rappresentanza di voi ai piedi della Consolata, io me ne feci un dovere specialissimo. Lasciai in certo qual modo da parte le altre mie attribuzioni per non ricordare che la mia qualità di padre di questa nuova famiglia, e come tale vi presentai tutti insieme, e ciascuno di voi in particolare a quella buona Madre chiedendole instantemente non tanto l’incremento materiale dell’Istituto, quanto la grazia che continuasse anzi crescesse in voi la volontà e l’impegno di santificare voi stessi, mentre zelate la conversione dei poveri infedeli» (IV, 276-277). Oltre la carica affettiva che sprigiona da queste parole, ciò che risulta maggiormente è che il Fondatore chiede la grazia della santità per i suoi figli “mentre

P. Francesco Pavese, IMC

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zelate”, cioè durante la loro attività missionaria. È la missione il luogo ideale della loro santità. Questo discorso sulla santità missionaria, nelle lettere del Fondatore al gruppo dei primi missionari in Kenya, è quasi un ritornello. Per esempio, il 27 novembre 1904: «Lavorate alla vostra santificazione e alla conversione di questi miseri neri» ((IV, 473). A parte l’aggettivo “miseri”, che nella sua mente non era dispregiativo, ma segno di rispetto e compassione perché non erano cristiani, l’indicazione è chiarissima.

Il 24 dicembre 1907: «Fra poco vi radunerete per i Santi Spirituali Esercizi, ed io a voi presente in spirito, v’invito a studiare i mezzi più idonei alla vostra santificazione ed alla conversione di cotesto popolo. E prima dovere pensare alla santificazione vostra, perciò vi esorto caldamente ad esaminare la vita da voi tenuta in Africa sino al presente. Ognuno veda se durante questo tempo abbia progredito o sia andato indietro nelle virtù proprie del Sacerdote – Religioso –

Missionario». (IV, 769). Fatta questa premessa, il

Fondatore spiegò una ad una queste tre identità dei suoi figli. Riguardo la terza scrisse: «Siete di più missionari, che vuol dire apostoli per zelare la salute delle anime. Quanta fu ed è in voi la sete delle anime, da sacrificarvi interamente giorno e notte, come S. Paolo e S. Francesco Zaverio?» (IV, 771). Avuto notizia dal superiore P. F. Perlo che gli esercizi spirituali erano riusciti bene, il Fondatore, con lettera del 7 settembre 1907, espresse il suo compiacimento, scrivendo: «Ne sia ringraziato il Signore, e la Sua grazia faccia sì che il frutto ricavatone sia duraturo a vostra santificazione ed a bene di cotesti poveri neri» (V, 100).

Dopo 10 anni dal “Decretum Laudis” in forza del quale l’Istituto fu definitivamente approvato e divenne di diritto pontificio, il Fondatore volle rinnovare le Costituzioni del 1909, in base all’esperienza fatta e secondo le norme del Codice di Dritto Canonico del 1917. Chiese ai missionari di esaminarle e inviargli le loro osservazioni. Anche in quel caso l’obiettivo era di salvaguardare la santità di suoi missionari nel contesto della loro attività missionaria. Ecco quanto scrisse il 3 marzo 1919: «Invito perciò

tutti voi a ben esaminare la Costituzioni, e riferirmi per iscritto le osservazioni che vi faranno conferire alla maggior vostra santificazione ed alla futura prosperità delle Missioni. Fatta una novena allo Spirito Santo ed alla nostra Ss. Consolata, ognuno senza conferire con altri, scriva ciò che gli detta la coscienza, ed a quel che vorrebbe avere scritto in punto di morte» (VIII, 310-311).

A P. E. Manfredi e ai chierici L. Massa, B. Perino e M. Nebbia, che stavano per partire, il Fondatore mandò un messaggio di saluto l’8 luglio 1921 mentre si trovava a S. Ignazio: «Come S. Ignazio a nome di Dio e della Chiesa mandò in Missione S. Francesco Zaverio e i compagni, colla stessa autorità, da questo Santuario dedicato al gran Santo, io mando voi quattro in Africa. […]. Arrivati sul campo da tanti anni desiderato, baciate quella terra che irrigherete coi vostri

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sudori e rinnovate il proposito di rendervi santi missionari» (IX/1, 101). Le parole sono un po diverse, ma il pensiero è identico a quanto il Fondatore insegnò fin dall’inizio, cioè che senza santità non c’è missione.

La proposta di una “santità missionaria” il Fondatore la fece pure alle suore, a partire da quella famosa lettera del 1 novembre 1913, da leggersi in viaggio: «Anzitutto tenete sempre in cima ai vostri pensieri il fine per cui vi siete fatte Suore Missionarie, ch’è unicamente di farvi sante e di salvare on voi tante anime. Ciò facendo avrete corrisposto alla vostra sublime vocazione, e ne riceverete gran premio in Paradiso» (VI, 495).

Idea confermata nella breve lettera inviata il 24 dicembre, neppure un mese dopo quela consegnata alla partenza: «Dalle varie lettere scrittemi dalla vostra Superiora e dalle carissime righe di ognuna appresi che il viaggio procedette assai bene, e che siete giunte felicemente sul campo della vostra santificazione. Ringraziamone il buon Dio e la SS. Consolata. […]. Non aggiungo parola, dovendovi bastare quanto vi ho ricordato alla partenza. […]. Imploro su tutte e ciascuna di voi tante benedizioni; e voi non dimenticate il vostro vecchio padre nel Signore» (VI, 520). Il “vecchio padre” fu subito vicino alle sue figlie da poco giunte in Kenya, e volle ricordare loro che proprio quel posto e la sua gente, con tutti gli impegni di apostolato legati alla missione, era il “campo della loro santificazione”.

Il fondatore ripeté questa sua convinzione dall’inizio alla fine della sua vita. Per esempio, a quattro suore partenti (Sr. Costantina Mattalia, Sr. Raffaella Gerbore, Sr. Secondina Granero e Sr. Rosalia Carrera), mandò un messaggio da

Sr. Ignazio l’8 luglio 1921, come aveva fatto con i missionari partenti alla stessa data: «Senza ripetervi in questo punto i molti ammaestramenti che vi diedi in tanti anni, vi ricordo solamente, che teniate sempre in alto il vostro spirito: Dio

solo, in tutto e sempre. Così supererete tutte le

difficoltà, vi solleverete subito dai momentanei scoraggiamenti e procurerete di sacrificarvi per consolare Gesù avido di anime» (IX/1, 103). Vorrei far notare un particolare: questa quattro sorelle, come i quattro missionari della stessa spedizione, erano tutte fragili di salute perché, come scrisse il Camisassa a Sr. Margherita De Maria, era «tutta gente che soffrì di denutrizione durante la guerra e dopo» (IX/1, 192, nota 1). Eppure il Fondatore scrisse loro una lettera di forte tono missionario, come se fossero le persone più robuste e incoraggiandole con un: «Partite dunque con coraggio, benedette dalla nostra Patrona, la SS. Consolata, e dal vostro affezionatissimo superiore e padre» (IX/1, 104). Oltre che i gruppi, il Fondatore incoraggiò alla “santità missionaria” anche singole persone. Sembra che questa idea gli scivolasse dalla penna quando scriveva, senza che se ne accorgesse. Così a P. G. Balbo, all’inizio di dicembre 1908: «Soprattutto prosegui nel buon spirito, procurando di avanzarti ogni dì più nella perfezione, per mezzo della quale solamente potrai convertire le anime altrui» (V, 149). Quel “soprattutto” ha un significato. Dopo avergli notificato che gli avrebbe mandato i libri richiesti e altro materiale con la futura spedizione, lo invitò a continuare «a ore perse lo studio e la raccolta per il nostro istituto». P. Balbo, infatti, stava facendo studi di scienze naturali, specialmente sulla qualità del terreno. Per il Fondatore, però, ciò che era più importante era proseguire

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nell’impegno di perfezione indispensabile per convertire la gente. Per questo aggiunse il “soprattutto prosegui nel buon spirito”.

Scrivendo a P. A. Dal Canton, il 29 giugno 1913, il Fondatore espresse il proprio pensiero con una sfumatura particolare. La perfezione del missionario viene “prima” e “poi” la conversione della gente. Logicamente sono un “prima” e un “poi” di carattere logico e non cronologico, in quanto non sono separabili. Questa sottigliezza, però, fa comprendere quanto il Fondatore ci tenesse alla santità dei missionari, ma in missione. Ecco le sue parole: «Ero persuaso di averti scritto dopo la tua professione; se non lo feci non è perché ti abbia dimenticato od abbia qualche malumore per la tua condotta. […]. Tu ben sai quale spirito io desideri nei nostri missionari. Che siano ben fondati nello spirito di Fede, sicché operino per Dio, e nella loro condotta rappresentino Dio stesso in faccia ai neri. […]. Io prego ogni giorno il Signore perché tutti vivano costantemente quali degni missionari, e lavorino prima alla propria santificazione, e poi alla conversione di cotesti cari africani» (VI, 421-422).

Stessa sottigliezza in un messaggio di quattro righe scritto verso la fine del 1920 a P. G. Chiomio: «Sempre coraggio in Domino, conservando e propagando il buon spirito fra i confratelli. Prima santi voi, poi bene ai neri: in tutto N. S. G. C.» (VIII, 731). La conclusione dopo i due punti è molto profonda, perché la motivazione di tutto è la persona del Cristo.

Concludo con due scritti a Sr. Margherita De Maria alla quale il Fondatore ricordò lo stesso ideale di santità missionaria da trasmettere alla suore. Il primo è del il 14 dicembre 1916: «Coraggio a tutte nel Signore; colla mente ed il cuore intenti all’unico scopo di farvi sante e salvare il maggior numero di anime» (VII, 493). Il secondo è del 6 dicembre 1918, dopo la fine della guerra, che aveva visto molte missionarie impegnate negli ospedali militari: «Venuta ormai la pace le suore potranno ritornare nel Vicariato, e riprendere le proprie mansioni. Ho scritto a Monsignore che vi faccia dettare gli Esercizi Spirituali. Così purificate dalle miserie contratte nel mondo, si daranno con tutta l’anima alla santificazione propria ed a salvare anime» (VIII, 250).

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ATTIVITÀ DELLA DIREZIONE GENERALE

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P. Ugo Pozzoli, IMC

VERSO IL CAPITOLO

ASIA: IL SUO PROGETTO E LE NOSTRE INQUIETUDINI

Si è svolta a Hoengseong (Corea del Sud), dal 10 al 12 ottobre 2016, la prima delle quattro assemblee continentali pre-capitolari previste come preparazione al prossimo Capitolo Generale IMC. L’incontro ha visto la partecipazione di tutti i Missionari della Consolata oggi appartenenti alla neo Regione Asia, più quattro membri della Direzione generale: p. Stefano Camerlengo (Superiore generale), p. Dietrich Pendawazima (Vice Superiore generale), P. Ugo Pozzoli (Consigliere generale per l’Asia e l’Europa) e p. Salvador Medina (Consigliere generale per il continente americano). La settimana prima, i partecipanti della Direzione Generale avevano predicato il ritiro annuale della Regione sul tema della consacrazione religiosa per la missione ad gentes, cuore del carisma secondo le nostre Costituzioni e tema centrale anche del Progetto missionario continentale.

a) L’assemblea e il progetto missionario

I lavori si sono svolti speditamente anche grazie al lavoro che un’apposita commissione, formata dai padri Louro e Cazzolato (Corea), Viscardi (Mongolia), Odhiambo (Taiwan) e Pozzoli (DG) aveva concretizzato in maggio, producendo la bozza finale del progetto, l’Instrumentum laboris su cui si è poi lavorato. L’apporto in assemblea dato dai missionari che avevano fatto parte della commissione di preparazione è stato cruciale. I padri Viscardi e Odhiambo si sono incaricati di moderare l’incontro, cosa che hanno fatto

con ordine e precisione, facendo rispettare un piccolo regolamento di massima preparato per l’occasione. I padri Marengo e Cazzolato sono stati invece i segretari dell’Assemblea. È grazie al loro lavoro che si è giunti alla versione finale del documento, che verrà presentata al Capitolo Generale come contributo del Continente Asia. Il testo finale si divide in tre parti principali. La prima, dal titolo “Obbedienti all’azione dello spirito in Asia”, inquadra la situazione del Continente e offre una lettura della realtà di tipo storico-geografico, socio-economico, religioso ed ecclesiale, con sottolineature particolari sul ruolo giocato dalla Conferenza dei vescovi cattolici asiatici (FABC) e la sua importanza per ogni agente pastorale che si vuole inserire a lavorare nel contesto asiatico. Chiude il capitolo una lettura “a volo di uccello” sui tre paesi in cui lavoriamo.

La seconda parte, “La missione IMC in Asia”, tocca invece più direttamente la missione che da ormai 28 anni (i nostri primi passi in Corea risalgono al 1988) portiamo avanti nel continente. In questa sezione vengono riassunti principi e criteri del nostro essere missionari in questo contesto, le scelte prioritarie ad gentes e la formazione. La terza parte, infine, “Riorganizzazione delle comunità IMC in Asia”, dopo aver ripercorso la storia del cammino della continentalità nel continente, prende in esame l’organizzazione giuridica e l’economia di comunione. Ci si è infatti interpellati

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a lungo su che cosa significa e che cosa potrebbe comportare in futuro il fatto che tre presenze, che fino a poche settimane fa erano una delegazione (Corea) e due comunità dipendenti direttamente dalla direzione generale (Mongolia e Taiwan), siano diventate un’unica Regione, con un unico superiore (p. Tamrat Defar), due Consiglieri (p. Giorgio Marengo e p. Eugenio Boatella) e un unico progetto (che contempla però tre esperienze tra loro molto diverse).

Come si è detto, l’incontro è proceduto in maniera veloce. La parte teorica iniziale più alcune sezioni di carattere storico contenute nel testo sono state approvate immediatamente, senza darne lettura in Assemblea. Contengono un quadro sintetico della realtà in cui è immersa la nostra missione, nonché la storia dei primi passi compiuti insieme dai Missionari della Consolata (assemblee congiunte, esercizi spirituali, incontri di formazione permanente, ecc.).

Chiaramente, più tempo è stato dedicato ai criteri che animano la nostra missione ad gentes in Asia, alle scelte concrete che da detti criteri devono prendere ispirazione, alla formazione, all’economia di comunione per la missione e alla gestione organizzativa necessario per portare avanti il progetto. Su questi punti sono stati raccolti contributi interessanti che non hanno

però modificato più di tanto l’essenza di un documento definito dall’Assemblea come già sufficientemente completo.

b) Passione per la missione

A margine del documento, che si potrà leggere insieme ai testi degli altri Progetti continentali prima del prossimo Capitolo Generale, mi piace condividere alcune considerazioni personali. Ho vissuto questa assemblea con tanto piacere, così come con altrettanta gioia ringrazio l’Istituto per l’opportunità che mi ha dato di svolgere il mio servizio di Consigliere Generale per questo continente, così immenso e allo stesso tempo affascinante.

Oggi in Asia vivono 18 missionari della Consolata provenienti da 10 paesi diversi; si tratta, forse, della Regione più ricca dal punto di vista interculturale di tutto l’Istituto in proporzione al numero dei suo membri; diciassette missionari sono sacerdoti e uno, lo studente keniano Geoffrey Boriga, sta facendo lo stage di due anni in preparazione alla professione perpetua e alle ordinazioni diaconale e sacerdotale. L’età media, 40 anni, fa della Regione Asia una delle Circoscrizioni più giovani dell’Istituto. La Corea ospita oggi undici missionari della Consolata, quattro si trovano in Mongolia e tre a Taiwan (un quarto si sta preparando con lo studio della lingua inglese e dovrebbe raggiungere

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i compagni entro l’inizio dell’anno prossimo per iniziare lo studio del cinese mandarino). Questa composizione eterogenea e giovane di missionari è un potenziale molto grande, che troverà la sua attuazione se saprà armonizzarsi intorno a due condizioni imprescindibili, tanto interne alla comunità quanto esterne ad essa: passione e formazione.

“Ci vuole fuoco per essere apostoli”, diceva il nostro Fondatore, il beato Giuseppe Allamano. Questo aspetto non vale soltanto per la missione in Asia, ma non può essere banalizzato in un continente dove siamo come cattolici in forte minoranza. La passione esprime con i gesti chi siamo, è il nostro migliore biglietto da visita, ciò che ci rende veri e credibili. Questa energia interiore va espressa (e il documento lo afferma molto bene) tanto nei confronti del Signore, come nelle relazioni con le altre persone. Scriverlo è importante, ma bisogna continuare ad interrogarsi, mai cessando di alzare il tiro, pena un quasi certo destino di anonimato. Il mondo in cui lavoriamo in Asia ha tradizioni così antiche e radicate nella cultura della gente che le persone devono trovare una differenza specifica nel messaggio che noi annunciamo se pretendiamo di essere ascoltati e, forse un giorno, capiti, veramente accolti da coloro che non condividono la nostra stessa fede religiosa. La vita di preghiera deve dunque trovare la sua dimensione più profonda, deve diventare anelito spirituale vero, deve trasmettere un percorso mai concluso ed agognato di ricerca di Dio se vuole diventare interrogativo per gli altri. Più che in altre parti del mondo, in cui siamo forse ancora riconosciuti come protagonisti della missione, l’aspetto cultuale, liturgico e la dimensione presbiterale diventano importanti soltanto nel momento in cui sanno integrare in modo autentico la voce dello spirito e lasciare intravedere il Mistero.

Allo stesso modo le nostre comunità devono vivere con passione la dimensione interculturale che le caratterizza. Passione per l’altro con cui condividiamo la nostra missione e passione per chi incontriamo, ci visita e ci cerca. Siamo davvero portatori di una grande ricchezza che conserviamo in vasi di coccio. Il vivere insieme

come fratelli, nonostante la differenza di storia, tradizioni e abitudini, è evangelizzazione di per sé, uno strumento enormemente importante, fondamentale, eppure a volte sacrificato sugli altari del “Dio degli affari miei”.

Il nostro stare insieme parla sempre; occorre tuttavia capire che cosa effettivamente trasmette. È dunque importante che la fraternità sinceramente vissuta all’interno delle nostre comunità diventi anche comunicata all’esterno, a chi ci frequenta e che deve trovare nelle nostre case e nei nostri cuori degli ambienti aperti, ospitali, capaci di accoglienza, calore e se è il caso anche di consolazione. Davvero, come il documento esprime con forza, il dialogo è lo strumento per evangelizzare in Asia, una vera e propria arte, ma oltre (e prima) del dialogo interreligioso dobbiamo affinare le nostre capacità nel dialogo con noi stessi, con i nostri fratelli e con le persone che incontriamo.

c) Formarsi all’Asia

Questa passione va coltivata, accresciuta e maturata in un processo formativo costante, che deve occupare la vita del missionario in Asia

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dal momento in cui arriva per la prima volta a destinazione. Molto si è parlato in passato della “difficoltà” delle lingue asiatiche. Ho apprezzato molto che fossero gli stessi missionari più giovani, molti di quali ancora nel processo di apprendimento basico dell’idioma, a chiedere di non carcare troppo la mano su questo aspetto; la difficoltà, infatti, è un fattore relativo, che dipende dalle capacità naturali di ciascuno, dall’impegno che ci si mette, dalla simpatia con cui si affronta lo studio di una lingua e di una cultura. Meglio dire che il mondo asiatico è esigente, che richiede studio, applicazione, tempi lunghi, stabilità e soprattutto tanta passione. Tutti noi che abbiamo affrontato l’apprendimento di uno o più idiomi stranieri ci siamo accorti che: “Più ne imparo la lingua e più divento vicino al popolo in cui sono inserito, e più divento prossimo a questo popolo e più facile sarà per me impararne la lingua”. Questo circolo vizioso vale anche e soprattutto per l’Asia, visto in esso ci si trova di fronte a mentalità ed idiomi strutturati in maniera molto diversa da quelli di provenienza della quasi totalità dei nostri missionari.

Questo aspetto non va nascosto; i missionari destinati a lavorare in Asia vanno informati su cosa troveranno e sui tempi richiesti per diventare operativi nella loro missione. Ci vuole pazienza. Non dovranno però impaurirsi di fronte a questa “missione esigente” che li pone su cammini già percorsi e superati da altri e in un contesto missionario unico, imprescindibile perché ci riporta alle sorgenti del nostro carisma. Passione e formazione sono due argomenti su cui l’Istituto stesso dovrà però riflettere a lungo e non soltanto parlando del contesto asiatico. A mio modo di vedere, infatti, questa è una riflessione che tocca tutto l’universo IMC. Abbiamo oggi “passione” per la missione? E soprattutto, formiamo missionari innamorati della missione? La domanda non vuole essere assolutamente provocatoria, ma un necessario stimolo a riprendere in mano alcuni criteri che dovrebbero essere ritenuti fondamentali nella formazione di un Missionario della Consolata, criteri che sovente l’esperienza ci dice vengono invece disattesi.

d) L’Asia al servizio del cammino

di rivitalizzazione e ristrutturazione

La Chiesa attraverso documenti, messaggi, simposi chiede da tempo al mondo missionario di fare nuovamente una “sterzata ad gentes” e di dirigersi senza paura verso l’incontro con le

moltitudini che ancora non conoscono Cristo riscoprendo, questa volta nelle dimensioni più fraterne del dialogo, la bellezza e la perenne validità del primo annuncio. A mio giudizio è un invito da non disdegnare. Il Signore ha voluto benedire il nostro istituto con tante vocazioni alla missione. Non posso non notare con piacere che dal giorno in cui io stesso sono entrato per la prima volta in una comunità formativa IMC per iniziarvi il processo formativo, il numero dei missionari non è cambiato di molto, siamo diminuiti soltanto sensibilmente. Non possiamo buttare al vento questa ricchezza, sarebbe come seppellire un talento sotto l’albero, come ricevere un compito e non portarlo avanti per mille ragioni che poco hanno a che vedere con il nostro carisma. Forse anche per questa ragione dobbiamo rinverdire quel qualche cosa che ci appartiene e che abbiamo con il tempo disimparato a fare: la missione di prima evangelizzazione. Sacche di questo ad gentes speciale, nostro, lo possiamo trovare anche negli altri continenti: nell’immensa Africa da cui molti di noi provengono, che ha dato all’Istituto il modello missionario e che rappresenta tuttora il punto di riferimento della nostra missione, un continente in profonda crescita e trasformazione in cui occorre continuamente rivedere i modelli di missione fino ad oggi imperanti; nel vecchio

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continente Europa, dove migliaia e migliaia di persone giungono ogni giorno sovvertendo la vita culturale dei nostri paesi, cambiando i paradigmi di chiesa finora vigenti, stimolando la nostra missione a dare risposte originali; oppure, infine, nel continente America, con i suoi ambiti specifici di missione (nativi indigeni, afro-discendenti, grandi periferie urbane) sempre in cerca di missionari pronti ad immergersi in contesti socio-culturali molto sfidanti, complessi, ma non per questo meno entusiasmanti.

In questa scia di pensiero, l’Istituto ha da tempo visto nella missione che il continente asiatico presenta la sfida che aiuterebbe i Missionari della Consolata a rivitalizzarsi in quell’aspetto per loro identificativo che è la missione ad gentes di primo annuncio. Per questa ragione, dando ancora seguito al mandato ricevuto nel Capitolo generale scorso, l’IMC sarà chiamato a fare ulteriori scelte concrete per l’Asia (cfr. Atti XII CG, n. 47). Dovrà per forza, per esempio, interrogarsi sulla formazione per garantire che, sin a partire dai primi stadi, il cammino di preparazione alla vita religiosa e missionaria permetta la crescita nel carisma del candidato e la sua progressiva identificazione con l’Istituto e la sua missione; dovrà però anche tenere in conto, in uno stadio più avanzato, della contestualizzazione alla missione nel continente, cosa che oggi si cerca di fare in Africa, America ed Europa. A questo riguardo, di grande aiuto sarà l’esperienza delle vocazioni asiatiche oggi nell’Istituto, a cui si chiede di mettere a disposizione di tutti il bagaglio di conoscenza maturato dall’essere originari del continente e aver fatto esperienza di missione in altri contesti.

Oltre a questo aspetto dovrà anche chiedersi come aumentare la presenza di Missionari della Consolata nel continente asiatico, approfittando di studi già portati avanti nel sessennio su possibili nuove aperture o intraprendendone di nuovi. Soltanto una maggiore presenza di missionari darà infatti quella visibilità che permetterà all’Istituto di guardare all’Asia non come a una cosa eccezionale, ma come un qualcosa di consueto, familiare… nostro.

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P. Renzo Marcolongo, IMC

OTTOBRE

Sono passati 10 anni dalla morte/martirio di suor Leonella e il 17 settembre abbiamo celebrato questo ricordo assieme alle nostre sorelle di Nepi nella loro casa. E’ stato un momento bello intorno all’Eucarestia concelebrata e alla mensa condivisa, sentendo la presenza di suor Leonella viva ed attuale.

Il mese di ottobre porta l’inizio di un nuovo anno accademico e sono tornati in casa tutti i padri studenti, anche quelli sparsi per l’Italia per vari servizi. Tanti auguri a tutti per un fecondo anno scolastico.

Continua come sempre l’accoglienza che distingue la nostra casa: Card, Njue John di Nairobi Mons. Coutts Joseph arch. Di Karachi , Mons Rafael Ramòn Conde Alfonso vescovo di Maracay (Venezuela)e Mons. Gustavo Garcìa Naranjo vescovo di Guarenas (Venezuela). In più, diversi padri, ma in modo speciale ricordiamo p. Claudio Brualdi che celebra i 50 anni di sacerdozio.

Quest’anno abbiamo la gioia di avere tra noi per un periodo più prolungato alcuni padri che fanno il loro periodo sabbatico: p. Ottone Cantore che ci rallegrerà con la sua presenza fino a Natale, p. Giuseppe Cravero che starà con noi fino a Pasqua e padre Luigi Manco che farà un mese sabbatico.

Il 6 ottobre alcuni di noi partecipano all’inaugurazione dell’anno accademico

2016/2017 al collegio Urbano, durante la messa presieduta dal Card. Filoni Fernando, il nostro padre Tobias riceve il mandato di essere padre spirituale aggiunto nello stesso collegio. Padre Tobias vivrà nel collegio stesso e noi lo ringraziamo per il suo servizio come segretario generale e per tutto quello che ha significato la sua presenza nella nostra comunità: presenza fatta di servizio e attenzione.

Lo sostituisce come segretario generale il padre Louro arrivato tra noi il 16 di settembre e a lui diamo il benvenuto, gli auguriamo tutto il bene e lo ringraziamo per aver accettato questo servizio per l’Istituto.

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A Roma si hanno diverse possibilità di partecipare ad incontri.

Il 6 ottobre p. Ronco e padre Rinaldo hanno partecipato all’incontro organizzato dalla Congregazione dei Religiosi e affidato a Nova Res sull’economia.

I gruppo di Casa Generalizia ha scelto il suo rappresentante al Capitolo. L’ 8 ottobre, alla seconda votazione, e viene scelto padre Kota Victor, attualmente padre spirituale presso il Collegio Urbano.

L’8 ottobre padre Renzo ha partecipato ad un incontro sui “Carismi missionari nella città di

Roma” organizzato dal Vicariato di Roma. Le due relazioni del padre David Glandy e don Gianni Colzani hanno offerto buoni spunti per una condivisione tra di noi.

Il 20 settembre abbiamo celebrato l’80 compleanno di padre Pasqualetti Gottardo. Tanti auguri per continuare ad offrire la sua esperienza e conoscenza del Fondatore, anche se ormai ha dovuto cedere l’incarico di Postulatore al padre Giacomo Mazzotti.

Superiori maggiori sono in Asia per l’assemblea precapitolare e a scaglioni saranno di ritorno per celebrare qui a Roma l’assemblea pre-capitolare dell’Europa e poi quella dell’Africa ed infine quella dell’America. Il capitolo Generale si avvicina e i preparativi si fanno più intensi.

Il Giubileo della Misericordia continua a richiamare molta gente a Roma e i pellegrini

non si lasciano intimorire dalle continue e complesse perquisizioni prima di accedere alle funzioni giubilari. L’ultimo giubileo in ordine di tempo, dopo quella dei Nunzi e dei Catechisti, è stato quello Mariano: migliaia di persone vi hanno partecipato affrontando anche la pioggia e il maltempo e portando statue e quadri della Madonna provenienti da tutto il mondo.

Domenica 16 ottobre è stato un giorno speciale in san Pietro perché sono stati canonizzati 7 nuovi beati tra cui ricordiamo l’Argentino Giuseppe Gabriele del Rosario Brochero (1840-1914) meglio conosciuto cole il Cura Brochero e Alfonso Maria Fusco (1839-1910) fondatore delle suore Battistine a cui siamo legati da un lungo servizio pastorale nella loro chiesa di Corso Giulio Cesare.

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P. Ssimbwa Lawrence, IMC

COLOMBIA CELEBRA LA FIRMA DEL ACUERDO DE PAZ

El día 26 de septiembre de 2016 quedará siempre registrado en la memoria histórica de Colombia. Este día que muchos colombianos esperaban será siempre inolvidable y será contado a las futuras generaciones. Es el día en que se firmó oficialmente en Cartagena de Indias el acuerdo final de paz que puso en fin los 52 años de guerra sangrienta entre las Farc y el gobierno nacional. Ante la presencia de 15 presidentes, 27 cancilleres, incluido el secretario de Estado de los Estados Unidos de América, John Kerry, el Secretario General de la ONU, Ban ki-Moon, el rey emérito de España, Juan Carlos de Barbón y cabezas de organismos multilaterales como la rectora del Fondo Monetario Internacional, Christine Lagarde, entre otras personalidades, el presidente Juan Manuel Santo y el máximo jefe de las Farc, Rodrigo Londoño Echeverri, alias “Timochenko” firmaron en la explanada de Banderas del Centro de convenciones el acuerdo final de paz. Esta firma de paz teóricamente ratificó el fin a uno de los conflictos más viejo, degradado y sangriento del planeta, y así abrió las puertas a una Colombia mejor que todos sus habitantes sueñan.

Los discursos tanto del presidente Santos como del máximo jefe de las Farc estaban llenos de esperanza de paz. El mandatario colombiano le dio a la guerrilla la bienvenida a la democracia

y la guerrilla a través de Timochenko ofrecieron perdón sobre todo a las víctimas del conflicto. La firma del acuerdo final y definitivo de paz es resultado de las negociones que duraron 4 años. Los diálogos de paz oficialmente empezaron el 16 de noviembre de 2012 en Oslo (Noruega) con la instalación de la mesa de Diálogo de paz entre las Farc y el gobierno del presidente Juan Manuel Santos Calderón. La mayor parte de las negociaciones se realizó en La Habana (Cuba) hasta el 24 de agosto de 2016 cuando se llegó al acuerdo final, integral y definitivo para la terminación del conflicto armado y la construcción de una paz estable y duradera en Colombia.

El acuerdo de paz que se firmó contiene 6 puntos que hacen falta tenerse en cuenta:

Hacia un nuevo campo colombiano. Reforma Rural Integral (acordado el 26 de marzo de 2013).

Participación política. Apertura democrática para construir la paz (acordado el 6 de noviembre de 2013).

Fin del conflicto (acordado el 24 de agosto de 2016).

Solución al problema de las drogas ilícitas (acordado el 16 de mayo de 2014).

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Victimas: Sistema integral de Verdad, Justicia, Reparación y No repetición (acordado el 15 de diciembre de 2015).

Implementación, verificación, y refrendación (acordado el 24 de agosto de 2016).

Sin lugar a dudas, este acontecimiento abre esperanza no solo para Colombia, sino tambien para el resto del mundo, pues termina la existencia del conflicto más antiguo del hemisferio occidental que dejó aproximadamente 267.162 muertos (véase el periódico El Tiempo del 26

de septiembre de 2016) y muchos millones de desplazados y victimas. Sin embargo, la alegría será completa después del plebiscito que el pueblo colombiano realizará el 02 de octubre para ratificar esos acuerdos. Si gana el Sí, eso significa que el acuerdo firmado entrará en vigencia y el gobierno nacional tendrá la posibilidad de poner en práctica lo acordado. Si gana el No, la posibilidad es que el gobierno busque otra alternativa que hasta el momento no se sabe.

¡Que Dios de la paz siga bendiciendo a Colombia!

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P. Ramón Lázaro Esnaola, IMC

RENCONTRE DE SUPÉRIEURS LOCAUX

EN CÔTE D’IVOIRE

Du 19 au 22 septembre 2016, les supérieurs locaux des six communautés IMC en Côte d’Ivoire se sont rencontrés dans le Philosophât Bse Irène Stefani situé à Djogorobité II (Abidjan). Le p. Yvon Elenga, jésuite congolais de Brazzaville, recteur de leur théologât francophone en Afrique, nous a accompagnés pendant ces jours de grâce pour revitaliser la figure du supérieur local dans notre Délégation.

Tous les supérieurs n’ont pas hésité à prendre la route et se libérer de leurs multiples engagements pour participer à ce moment de formation et de partage. Chacun a fait pas moins de sept heures de voyage pour y participer mais à la fin de la rencontre tous ont manifesté l’opportunité de ce genre de rencontres.

Le p. Elenga a touché trois thèmes qui développent le rôle du supérieur local en faisant référence à nos Constitutions IMC et aux Actes

de notre III Conférence IMC en Côte d’Ivoire : l’art de gouverner, le gouvernement dans l’Esprit et le leadership. À continuation, je vous partage ses intuitions.

Le supérieur local n’est pas un modèle ni un missionnaire sans défauts mais il est un témoin. Il essaie à vivre l’esprit des missionnaires de la Consolata selon l’esprit de notre Fondateur et du développement ultérieur de notre charisme (cf. Constitutions 27).

Ainsi, il est le guide de l’animation spirituelle de la fraternité IMC. Pour cela, il doit tenir compte des sentiments personnels de chaque confrère. Il cherche à faire une synthèse entre la personne du missionnaire et la fidélité à la mission ad gentes de notre Institut dans notre Délégation.

Le supérieur à la tâche de motiver les différentes décisions et de faire voir, dans la patience, aussi les infidélités à notre vocation afin que la

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communauté soit en cohérence avec le projet de la Délégation, de l’Institut et de l’Église locale et universelle. Le supérieur cherche le soin du missionnaire, pas son propre plaisir ou le plaisir du confrère.

Le supérieur a le « devoir de charité » de faire face aux différentes situations de crise qui peuvent vivre les confrères et les siennes propres. Certainement, le supérieur n’est pas souvent « consolé » par la prise de certaines décisions mais il peut être « confirmé » après. Il a la responsabilité d’éviter que ses confrères puissent vivre une situation où leur vie consacrée peut être mise en cause. Il évitera de « faire semblant de ne pas voir » ou la « passivité » face aux situations qui demandent une intervention (cf. notre Code Déontologique).

Le supérieur est attentif aux conditionnements culturels de nos fraternités interculturelles et invitera les membres à faire des dépassements pour vivre la communion dans l’esprit de la Consolata. Ainsi, il invitera les confrères à « sortir de soi-même » pour accueillir les contextes culturels et la vie ecclésiale de ce pays qui nous a accueillis, la Côte d’Ivoire, car dans ce pays, tous les missionnaires de la Consolata, nous sommes étrangers et assez éloignés des cultures ouest-africaines.

Le supérieur cherche à maintenir l’unité de la fraternité. Cela peut amener au conflit mais bien géré peut être une source de croissance pour chaque missionnaire et pour toute la fraternité. Le supérieur sera spécialement attentif que les confrères « n’exposent pas » la communauté avec des personnes qui ne sont pas membres de la communauté. Le supérieur veillera ainsi à l’unité pas seulement de la communauté mais aussi de l’action missionnaire et de notre présence de consolation.

Le supérieur veillera à enrichir la communication dans la fraternité car le risque est de rester dans un domaine extérieur où le sport, l’actualité politique et l’action pastorale occupent 99% de nos dialogues. Il invitera aussi à dépasser nos limitations idéologiques à travers nos liens spirituels.

Le supérieur trouvera sa source d’inspiration de toute son action dans sa relation personnelle avec Dieu et avec sa Parole. Le supérieur prie pour ses confrères et rend grâce à Dieu pour ses confrères. Une vie spirituelle riche l’aide à encaisser les difficultés des décisions à prendre et les accueillir inséré dans la « Sequela Christi ». Il porte le poids de la communauté en tant que témoin de la Mission avec ses propres limitations et fragilités humaines.

Bref, le supérieur est quelqu’un qui cherche la « participation » de tous les confrères dans la communauté. Il encourage la « collégialité » de tous les membres car tous ont le souci pour les personnes, pour la communauté et pour la mission chacun à son niveau. Il veillera à mettre en place le principe de « subsidiarité » afin que les différentes difficultés soient d’abord traitées par l’instance la plus proche. Finalement, il « rendra compte » à la communauté de toutes les communications de la Délégation, de l’IMC et de l’Église et encouragera aussi que chacun

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rende compte de ces différentes responsabilités : curé, économe, administrateur d’une œuvre de consolation, animateur, formateur…

Deux dangers à éviter : penser que le confrère « est assez grand » et il n’a pas besoin de l’accompagnement ou des rappels du supérieur ; et s’autocensurer en pensant « qu’on n’est plus au séminaire ». L’expérience personnelle nous montre que nous vivons différents moments et étapes dans notre vie humaine, missionnaire, spirituel, de consacré. Donc, nous avons toujours besoin d’une personne qui nous accompagne et qui encourage notre conversion et sanctification. Suite à ces réflexions, nous suivrons ces lignes d’inspiration pour cette année 2016-2017 pour nos communautés IMC en Côte d’Ivoire :

Vivre dans un « état de Chapitre » en suivant les intuitions du XIII CG qui aura lieu en mai-juin 2017 : explorer de nouveaux territoires, connaître de nouveaux peuples, faire connaître le Christ à qui ne l’a pas encore trouvé, revitaliser le missionnaire et la fraternité et rendre plus efficace et requalifier notre action missionnaire et du dialogue interreligieux.

Mettre en œuvre les indications de notre Projet Continental Contextualisé pour l’Afrique qui est le résultat d’un cheminement de plusieurs années.

Approfondir et tirer les conséquences de la lettre que le Père Général nous a adressé après sa visite du mois d’août et qui nous invite à « sortir », à

marquer le style d’une Délégation « en sortie » et à discerner en communauté nos options préférentielles : le dialogue interreligieux, l’AMV et la formation de base et la possibilité d’avoir une présence pastorale à Abidjan.

En ce qui fait référence à la formation continue, nous voulons proposer la lettre que la Congrégation pour la Vie Consacrée va faire sortir prochainement dont le titre est « Annoncez » et qui nous invite à aller « jusqu’aux limites de la terre », à être une « Église en sortie » et à rester « hors de la porte » pour transformer notre façon de comprendre la mission et la configurer enracinés dans l’écoute de la Parole de Dieu. Nous ferons ces rencontres avec une fréquence annuelle. Si c’est possible, pendant la première quinzaine de septembre, au début de l’année pastorale. Dans la prochaine rencontre nous nous approprierons davantage du Code Déontologique IMC qui est un document que nous ne connaissons pas en profondeur et qui est fondamental pour l’animation et accompagnement qu’un supérieur local doit exercer dans sa communauté.

Nous remercions Dieu pour ce moment de grâce avec tous les supérieurs locaux et nous prions pour eux afin qu’ils trouvent dans la Parole de Dieu et dans nos sources d’inspiration IMC la foi, l’espérance et la miséricorde pour accompagner et animer chaque missionnaire et chaque communauté en vue de la mission ad gentes des missionnaires de la Consolata en Côte d’Ivoire.

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P. Godfrey Msumange, IMC

IL PRIMO SACERDOTE MASAI

MISSIONARIO DELLA CONSOLATA

È stato un momento molto affascinante, carico di fede e emozione, ritornare nella Valle dell’Usangu, nei luoghi che hanno assaporato il sudore dei missionari della Consolata che con passione hanno evangelizzato queste terre fino agli inizi del 2000.

Questa volta, però, siamo ritornati per ricevere dono eccezionale: due sacerdoti e un diacono, missionari della Consolata. I preti sono

“novelli” e si chiamano Obadia Paraboy Ole Kaney e Heradius Mbeyela, mentre il diacono si chiama William Wema Meta.

La mattinata del 6 Ottobre 2016, i missionari della Consolta, provenienti da diversi luoghi, il clero locale, le suore e fedeli hanno riempito la nuova grandiosa chiesa parrocchiale di Mbarali, nella regione di Mbeya, diocesi di Iringa. I due preti provengono dalla Valle dell’Usangu, dalle parrocchie di Mbarali (un tempo parte di Ujewa) e di Chosi. Il diacono proviene dal nord, nella diocesi di Mbulu.

Oltre ai circa 60 sacerdoti presenti, ha concelebrato l’Eucaristia anche il nostro confratello Mons. Evaristo Chengula, vescovo di Mbeya. La liturgia della ordinazione diaconale e sacerdotale è stata presieduta da Mons. Tarcisio Ngalalekumtwa, vescovo di Iringa. Una liturgia ben organizzata, con canti e danze al ritmo di tamburi.

Naturalmente gli occhi di tutti erano puntati sui genitori e parenti di padre Obadia, primo missionario della Consolata masai. Essi erano quelli tra la prima fila a seguire da vicino la celebrazione liturgica, per tanti di loro

primo evento nella storia. “Qui Dio è sceso davvero” una esclamazione venuta fuori da uno degli anziani masai, assistendo a questa liturgia dell’ordinazione sacerdotale. Altri, non finivano a piangere per le emozioni grande vedendo, per la prima volta da quando mondo è mondo, un figlio masai diventa sacerdote missionario della Consolata! E’ la benedizione grande dal Signore che si ottiene proprio nell’ottobre missionario.

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P. Michelangelo Piovano, IMC

COMUNICAZIONE N. 4

«Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati» Atti 13,2

Accogliamo con gioia l’invito della Direzione Generale a percorrere il cammino di questo anno pastorale, che stiamo iniziando e che ci porterà fino alla celebrazione del XIII Capitolo Generale, seguendo le orme di Paolo e Barnaba. Il libro degli Atti racconta come ad Antiochia vengono riservati dallo Spirito per l’opera per la quale sono stati chiamati.

Come missionari ci sentiamo partecipi di questa “opera” e missione, anche noi riservati per essa, anche noi con un cammino da percorrere verso quelle frontiere e periferie dove vive oggi l’umanità e della quale ci sentiamo parte e per la quale siamo portatori del carisma della consolazione.

Il Progetto Missionario Continentale ci porta a guardare, in modo particolare, alla nostra realtà europea nella quale viviamo e lavoriamo e sarà con questo che arriveremo al Capitolo per definire i passi e le scelte da fare, la strada da percorrere e lo spirito che dovrà animarci

nei prossimi anni. E’ fondamentale che questo cammino lo facciamo assieme ed in comunione, come Istituto che è chiamato ad una missione specifica anche qui in Europa.

E’ stato questo il sentire comune dell’incontro dei Consigli d’Europa dell’Italia, Portogallo e Spagna con la Direzione Generale alla Certosa di Pesio alcuni giorni fa. Affidiamo alla Consolata questo cammino e lasciamo che sia anche Lei a guidarci.

Ora alcune informazioni sulla vita della regione e le decisioni prese nel Consiglio Regionale del 17 – 18 settembre 2016.

Formazione di base

I teologi sono rimasti contenti delle esperienze pastorali e di animazione fatte nelle comunità della regione. Positivo il corso su Tradizione e Carisma per gli studenti del primo anno fatto a Castelnuovo.

Si valuta tuttavia che è importante programmare bene il tempo dei mesi estivi affinché non sia dispersivo, ma offra la possibilità di fare una buona esperienza pastorale e missionaria. Durante questi giorni la comunità di Bravetta sta facendo la programmazione comunitaria alla quale partecipa anche p. Osorio a nome del Consiglio regionale. La comunità conta con 16 studenti, un diacono e l’equipe formativa composta da P. Paul Maina, rettore, P. Vincenzo Salemi, vice-formatore e P. Gaetano Mazzoleni per l’aiuto negli studi.

Il diacono Danstan, con altri due studenti, è stato incaricato dell’economia del seminario.

Arrivo Nuovi Studenti

Sono in arrivo in questa settimana i sei nuovi studenti del Seminario di Bravetta e che inizieranno la teologia il prossimo anno. Andranno a Castelnuovo Don Bosco fino a

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Da Casa Madre

11 / Novembre 2016

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febbraio per lo studio della lingua e poi nelle comunità per la pratica. Sono: Augusto del Mozambico, Vincent dell’Uganda, Michael Paschal del Tanzania, Martin, Patrick e Bernard del Kenya. Saranno seguiti in questi mesi da P. Mario Barbero e P. Efrem Baldasso. A loro il nostro benvenuto nella regione e un buon cammino di inserimento e formativo.

Consiglio Continentale Europeo

A Torino, dal 7 al 9 settembre, vi è stato l’incontro dell’equipe della formazione del continente che ha lavorato sulla scheda del Progetto Missionario Continentale dando anche orientamenti per la formazione di base e continua.

Dal 20 al 24 settembre 2016, alla Certosa di Pesio, si è tenuto l’incontro dei neo eletti Consigli d’Europa con la Direzione Generale e gli amministratori di ogni circoscrizione. Si è lavorato sul PMC e su altri aspetti riguardanti il servizio del superiore e dei consiglieri. Inoltre il cammino dei prossimi mesi fino al Capitolo e l’Assemblea pre-capitolare europea che si terrà a Roma dal 28 novembre al 4 dicembre con tutti coloro che parteciperanno al Capitolo del continente Europa.

Evangelizzazione/Animazione M. -

Promozione V.

E’ stata fatta una valutazione positiva degli incontri ed attività estive (Campi, GMG, altri incontri). La GMG in Polonia ben organizzata, contenti del servizio e attività dei nostri confratelli in Polonia ai quali va un grande ringraziamento per tutto il lavoro

fatto con serietà e responsabilità.

Amministrazione

P. Pietro Villa, amministratore regionale, ha presentato la situazione delle RI e delle Case della Regione, in modo particolare quelle dove si stanno facendo o si dovranno fare lavori di ristrutturazione. E’ in fase di studio e preparazione il progetto per l’accoglienza di un gruppo di migranti nella casa di Bevera per il quale la comunità stessa sta cercando di dare il suo contributo assieme alla cooperativa Arcobaleno e alla Caritas di Lecco.

In questa comunione, di chi ha ancora tante forze per la missione, dei giovani, degli anziani, degli ammalati e anche con chi è già con il Signore camminiamo senza stancarci, con forza e coraggio, ci direbbe il Fondatore e sulle orme di Paolo e Barnaba. Ogni mese saremo anche aiutati con una riflessione a guardare a questi apostoli e missionari come ispiratori del nostro cammino.

Referências

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