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da Casa Madre Istituto Missioni Consolata Anno 99 - N. 09/ Settembre Perstiterunt in Amore Fraternitatis

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Perstiterunt in Amore Fraternitatis

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Anno 99 - N. 09/ Settembre - 2017

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Ricordando la morte del can. Giacomo Camisassa avvenuta il 18 agosto 1922.

La collaborazione tra l’Allamano e il Camisassa fu un esempio di fiducia reciproca e di stima mirabile, al sorgere della nostra famiglia missionaria.

Ricordava l’Allamano: “Erano 42 anni che eravamo insieme, eravamo una cosa sola – Tutte le sere passavamo in questo mio studio lunghe ore. Qui nacque il progetto dell’Istituto, qui si è parlato di andare in Africa. Insomma tutto si combinava qui”.

Il can. Nicola Baravalle testimonia: “Quando penso a quei due grandi uomini [l’Allamano e il Camisassa] mi ritorna sempre quella cara antifona: “Sunt duo olivae et duo candelabra

lucentia ante Dominum”. Noi avevamo ammirazione grande per entrambi. Uno era la mente che pensa, la virtù che forma, il Mosè che sul monte tratta col Signore e l’altro l’esecutore fedelissimo che si tiene sempre nell’ombra” (22 luglio 1946).

Il canonico Giacomo Camisassa dopo aver affiancato e sostenuto per 42 anni il canonico Allamano, fu il primo a cedere con la salute. Morì a Torino il 18 agosto 1922 a 78 anni. L’Allamano nell’Omelia disse “Tocca a me fare

i suoi elogi. Era sempre intento a sacrificarsi, pur di risparmiare me; era un uomo che aveva l’arte di nascondersi e possedeva la vera umiltà”; “Quale perdita per il Santuario e più per l’Istituto e per le Missioni”; “Abbiamo promesso di dirci la verità e l’abbiamo sempre”.

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FRAMMENTI DI LUCE

P. Giuseppe Ronco, IMC

CHE FANTASTICA STORIA E’ LA VITA!

Quando dal cielo scompare la stella polare, il navigare diventa periglioso per i navigatori. Se prima il mare era visto come luogo di lavoro, di svago e di bellezza, ora appare come possibilità di morte e di oscurità.

Capita così anche nella vita. Davanti a situazioni e fatti sconcertanti, ad avvenimenti difficilmente interpretabili, davanti ad omicidi efferati e guerre senza senso o a menzogne colossali rese sistema, viene da chiedersi: che senso ha la vita, il mondo in cui viviamo, la storia?

Abbiamo la sensazione che l’oscurità e il non senso ci siano caduti addosso, bloccando gli orizzonti di speranza che prima erano luminosi. “Amaro e noia la vita; e fango è il mondo” (G. Leopardi, A se stesso).

Riflettere sul senso della vita, del mondo, è fondamentale per chi non vuole sprofondare nell’abisso oscuro del disimpegno, del sopravvivere, del vivacchiare.

Può aiutarci la ricerca di una sana teologia della storia, che è sempre storia di salvezza e storia dell’amore di Dio per l’uomo. “Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano

Dio” (Rom 8,28).

“Mi chiamano Gesù e faccio il pescatore e del mare e del pesce sento ancora l’odore di mio padre e mia madre su questa croce nelle notti d’estate sento ancora la voce e quando penso che sia finita

è proprio allora che comincia la salita che fantastica storia è la vita

che fantastica storia è la vita”

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Dove trovare il senso?

Il senso della vita non è qualcosa d’irrilevante: da esso dipende la felicità o la tristezza, l’amore per i fratelli o il disimpegno. Non aveva ragione

Macbeth di Shakespeare dicendo che “La vita

non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla” (Macbeth, Atto V, Scena V). Aveva piuttosto ragione Etty Hillesum, ebrea morta ad Aushwitz, dicendo “Trovo bella la vita e mi sento libera. I cieli si stendono sopra di me come dentro di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave. Dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio. Il resto verrà allora da sé.” O ancora: “Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra” (Etty Hillesum, Diario).

Col passare degli anni si scopre che a dare senso alla vita non è mai soltanto qualcosa, ma è piuttosto qualcuno che si possa amare e ci possa offrire il suo amore. L’uomo infatti è relazione e nell’amore trova la pienezza della vita.

Quando ci si accorge che chi ci vive accanto ha un volto ed una storia, l’indifferenza lascia il posto alla responsabilità. Nascerà allora una serie di atteggiamenti e di azioni che daranno senso al nostro vivere, facendoci superare l’dea di inutilità che spesso si insinua in noi. Accogliere, avvicinarsi, avere compassione, aiutare e soccorrere, diventare fratelli fino a dare anche la vita per l’altro, sono il programma che Gesù ci propone per dare senso alla vita.

L’aspetto missionario è ben indicato nel logion di Gesù “Voi siete il sale della terra” (Mt 5,13), quasi a dire che tocca a noi trasmettere agli altri il gusto della vita. Infondere coraggio a chi è smarrito è infondere senso, preservando dalla corruzione chi è in difficoltà e tenendo lontani e germi inquinanti dell’egoismo.

Farsi incontro all’altro, con stile di vita sobrio, da amici di Gesù. In questi tre modi di essere

troviamo il senso della vita e ciò che dà sapore alla vita del missionario.

L’incontro è una esperienza di notevole spessore umano, capace di liberare l’esistenza umana dalla tirannia dell’ego, dalla solitudine e dall’autoreferenzialità, così invadente nella nostra vita quotidiana. Un’esperienza che arriva a dire all’altro: Tu sei un bene per me.

L’altro non solo ci dice e ci rivela chi siamo, ma ci fa scoprire che accanto a noi vive uno diverso da noi, ricco, da non omologare, ma da accogliere nella sua ricchezza e molteplicità. ( cf Jacques Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore

della funzione dell’io, Comunicazione al XVI

Congresso internazionale di psicoanalisi Zurigo, 17 luglio 1949).

L’altro dà anche sapore alla vita. L’incontro, infatti, arricchisce sempre ed è fonte di gioia. In alcuni casi è anche l’origine di una vita nuova (Cfr Giovanni Paolo II, 16 novembre 1983). Farsi incontro vuol dire entrare nel mondo di altri seguendo la strada intrapresa da Gesù nell’incarnazione, per incontrare l’essere umano e manifestare l’amore anche per uno sconosciuto.

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L’altro ci rivela anche Dio, il totalmente altro, con la sua dimensione di trascendenza e di totalità. L’altro ci rivela l’Altro e quel Dio non concreto che si cercava lontano da sé, lo si ritrova presente, concreto e vicino nella forma del fratello. Il discepolo sente l’esigenza di farsi incontro, di diventare prossimo ispirandosi al suo Signore, per diventare un buon samaritano verso chi è nel bisogno e lo cura con attenzione. La vita di san Domenico (uomo del Signore) è un mirabile esempio di carità e di evangelizzazione che può ispirare ancora il missionario di oggi. Sapeva comunicare agli altri la parola e la carità che custodiva nel cuore.

La spiritualità, o meglio il cammino di santità, che soggiace al farsi incontro, si qualifica anche come spiritualità della presenza. Essa va oltre la vicinanza fisica, per estendersi fino a tutte le periferie esistenziali.

Oltrepassando ogni ideologia e ogni condizionamento, essa vede sempre nell’altro un fratello, un figlio amato da Dio, con cui condividere la vita.

Richiede una solidarietà affettiva ed effettiva con la gente che si incontra, specialmente con gli emarginati e gli oppressi e tende ad una

autentica amicizia.

“Il senso della vita non può fermarsi a ciò che è mortale e penultimo, per quanto forte sia il legame che ad esso ci unisce: la vita ha senso se la meta e la patria per cui si vive, si soffre e si ama, ha la misteriosa potenza di vincere la morte, di dare alla nostalgia del cuore inquieto un approdo di eternità. È qui che nella ricerca del senso due amori si toccano: quello alla scena del mondo che passa, e quello a Colui che è in persona l’amore più forte della morte, origine, grembo e patria di ogni vero amore. La ricerca del senso sfocia così, con naturale continuità, nella ricerca di Dio e del Suo volto, nel desiderio e nella nostalgia del Totalmente Altro, che garantisca la vittoria ultima dell’amore sulla morte, della vita sul nulla” (B. Forte, Lettere sulla collina. Sulla fede e

l’esperienza di Dio, Mondadori).

l’interpretazione biblica della storia

La storia che noi viviamo è storia della salvezza. Ogni avvenimento infatti accade sotto gli occhi di Dio e il fine ultimo resta sempre la salvezza dell’uomo.

Tutte le cose provengono da lui e a lui ritornano. A noi resta il compito della lode: “qualunque cosa fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo grazie (eucharistuntes) per mezzo di lui a Dio Padre” (Col 3,17).

“La storia è la santità stessa di Dio che si rivela in essa, la pervade” e le manifestazioni di Dio sono atti di amore per dire all’uomo come e quanto Egli sia presente. La storia, nella luce di una fede, è lo spazio che Dio ha scelto per essere il “Dio con noi”. Una presenza che ha i caratteri della continuità e della prossimità : ehyeh 'ašer

'ehyeh ”Io sono colui che c’ero, che ci sono e che

sarò con te” (Es 3,14) .

Secondo l’insegnamento della Bibbia ciò che accade non accade secondo gli impulsi di un destino cieco, ma per realizzare il disegno della sua volontà. La storia non appare più come cronaca, ma come realizzazione di un preciso disegno salvifico di Dio: “Dio, nostro salvatore, vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino

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alla conoscenza della verità” (1 Tm 2,4).

Nel prologo della lettera agli Efesini, Paolo rivela che il Padre  “ ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito  per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra (Ef 1, 9-10). 

Per il cristiano essere nella storia significa sì essere creatura mortale sottomessa alle leggi della natura, ma significa anche avere coscienza di essere eternamente amati da Dio (cf Col 1,15ss; Gv 17,5.24). La nostra storia personale è la storia di questo amore, storia profana diventata sacra agli occhi di Dio.

Avendo Cristo al suo centro, l’evento che ha segnato l’ingresso del divino nella storia, trasformandone il tragitto e il percorso, è l’incarnazione. Non solo Dio ha un’abitazione in mezzo agli uomini ma Dio si fa uomo,

l’umanità diventa lei l’abitazione di Dio: l’umanità di Gesù è l’umanità dove Dio abita. Nel mistero pasquale, poi,   “ abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia (Ef 1,7).

Nella teologia della storia si innesta necessariamente la teologia della speranza.

Jürgen Moltmann fu il primo, in ambito protestante, a sottolineare l’importanza dell’escatologia cristiana. C’è nella teologia della speranza, il recupero della dimensione essenziale del messaggio evangelico che propone l’epifania del Dio cristiano in uno slancio dinamico nel tempo che verrà, l’avvenire.

L’orizzonte escatologico è la Risurrezione di Cristo, cuore e senso della sequela al Gesù di Nazareth.

Ogni singolo avvenimento rileva le realtà ultime, perché soltanto alla fine dei tempi si potrà guardare alla storia umana come rivelazione di Dio.

Il compito missionario cristiano rimane quello di trasformare il mondo, la storia e la natura umana “nell’attesa di una trasformazione divina” . La speranza non defrauda l’uomo dal suo presente, ma nel ricordo (anamnesi) del futuro, comprende e prende in mano il presente trasformandolo, trasfigurandolo. Vivere vuol dire trasformare le cose, il tempo, le doti, le realtà che possediamo, cercando di infondere in esse la speranza, l’ amore, la bontà, la pazienza.

“La speranza escatologica diventa una forza motrice della storia a favore delle utopie creative dell’amore per l’uomo sofferente e per il suo mondo imperfetto, muovendosi verso il futuro sconosciuto, ma promesso, di Dio. In questo senso l’escatologia cristiana potrà esprimersi a favore del ‘principio speranza’ e d’altra parte ricevere dal ‘principio speranza’ l’impulso a meglio delinearsi” (J. Moltmann, Teologia della

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Ecco, io faccio nuove tutte le cose

Presto tardi, la storia finirà: “sappiano le genti che sono mortali” (Ps 9).

La storia umana non è solo un complesso di avvenimenti caotici, a volte incomprensibili. In essa c’è un filo conduttore, un progetto e una direzione definiti da Dio, verso cui noi tutti camminiamo.

Nel tentativo di comprendere il piano di Dio su tutta la storia, l’Apocalisse ha elaborato una vera teologia cristiana della storia, vedendo nel mistero del Cristo risorto, presentato come agnello sgozzato, unico capace di rivelare pienamente il progetto salvifico di Dio, quando rompe i sigilli che lo rinchiudono (cfr. 5,1- 10), la chiave interpretativa di tutto.

Questo agnello immolato, dopo aver vinto tutte le negatività della storia, peccato compreso, ci introdurrà definitivamente nella città eterna, la Gerusalemme celeste, luogo dove Dio dimora. Allora soltanto comprenderemo pienamente il senso di tutti gli eventi capitati nella nostra vita personale e nella storia del mondo lungo i secoli.

Il piano di Dio si realizza:

“Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono:

Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro

ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio-con-loro.

E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte,

né lutto, né lamento, né affanno,

perché le cose di prima sono passate” (Ap 21,1-4). “L’opera di salvezza, annunciata da Giovanni alla sua comunità, è un evento di trasformazione dal profondo, che riguarda ogni singola persona e contemporaneamente tutte le strutture del mondo; una trasformazione che chiede collaborazione «sacerdotale» e non si realizza semplicemente in modo magico; una trasformazione che si sta lentamente realizzando in una continua tensione verso il compimento finale e che richiede ai cristiani impegno e decisione nella sicura fiducia che la storia è fermamente nelle mani di Dio” (C. Doglio,

Sintesi teologica dell’Apocalisse).

La salvezza sarà una ri-creazione, un rendere profondamente nuovo l’universo. Così lo descrive S. Gregorio di Nissa:

“In questo giorno Dio crea “un nuovo cielo e una nuova terra » (Is 65,17 ; Ap 21,1). In questo giorno è creato il vero uomo, colui che è “a immagine e somiglianza di Dio” (Gen 1,26). Vedi quale mondo è inaugurato in questo giorno, il “giorno fatto dal Signore” (Sal 118,24). Questo giorno ha abolito il dolore della morte e ha messo al mondo “il primogenito di coloro che risuscitano dai morti” (Col 1,18). In questo giorno la prigione della morte è stata distrutta, i ciechi hanno riavuto la vista, “dall’alto un sole sorge    e viene a rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte” (Seconda

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Che sia benedetta

Vorrei proporre come conclusione una canzone del Festival di San Remo del 2017, cantata da Fiorella Mannoia. Una poesia, una preghiera, un inno alla vita. Ho sbagliato tante volte nella vita Chissà quante volte ancora sbaglierò Quante volte ho rovesciato la clessidra Questo tempo non è sabbia ma è la vita che passa che passa. 

Che sia benedetta

Per quanto assurda e complessa ci sembri la vita è perfetta

Per quanto sembri incoerente e testarda se cadi ti aspetta

Siamo noi che dovremmo imparare a tenercela stretta 

Tenersela stretta

Siamo eterno siamo passi siamo storie Siamo figli della nostra verità

E se è vero che c’è un Dio e non ci abbandona 

Che sia fatta adesso la sua volontà In questo traffico di sguardi senza meta In quei sorrisi spenti per la strada Quante volte condanniamo questa vita Illudendoci d’averla già capita

Non basta non basta Che sia benedetta

A chi trova se stesso nel proprio coraggio A chi nasce ogni giorno e comincia il suo viaggio

A chi lotta da sempre e sopporta il dolore Qui nessuno è diverso nessuno è

migliore.

A chi ha perso tutto e riparte da zero perché niente finisce quando vivi davvero A chi resta da solo abbracciato al silenzio A chi dona l’amore che ha dentro

Che sia benedetta 

Per quanto assurda e complessa ci sembri la vita è perfetta

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PAOLO E BARNABA

Card. Carlo Maria Martini

LA ROTTURA TRA BARNABA E PAOLO

Questo episodio difficile anche per la nostra interpretazione fa parte di quelle oscurità dell’esistenza attraverso le quali l’uomo di Dio passa, si raffina e si purifica.

Chi era Barnaba

Uno dei giganti della Chiesa primitiva, uno dei primissimi che aveva preso sul serio il Vangelo. Non aveva probabilmente conosciuto il Signore, ma era tanto meritevole che Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni, che erano stati col Signore, gli avevano dato fiducia. È uno dei primi a credere alla parola degli apostoli, uno dei primi che si butta, il primo che vende tutto. Ci viene presentato negli Atti: «Giuseppe, soprannominato dagli apostoli Barnaba, che significa” figlio dell’esortazione”, un levita originario di Cipro, che era padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò l’importo deponendolo ai piedi degli apostoli» (At 4, 36). In un momento in cui la comunità ancora non significava quasi niente, era un gruppo sparuto di uomini, che potevano apparire fanatici, lui ha creduto, si è sbarazzato di tutto e si è messo totalmente dalla parte degli apostoli e di Cristo. Per questo è chiamato «figlio

dell’esortazione, figlio della consolazione ». Come personalità, Barnaba, era un uomo ricco di sapienza, di ottimismo, irradiava fiducia, e volentieri gli altri camminavano con lui e facevano affidamento su di lui.

Infatti lo vediamo adoperato in missioni di somma importanza. Barnaba è l’uomo che ha saputo riconoscere l’autenticità del cristianesimo di Antiochia da cui è nato tutto il cristianesimo dell’occidente greco e dell’Asia Minore. Senza di lui la Chiesa sarebbe rimasta ancora chissà quanto tempo prigioniera delle pastoie giudeo-cristiane di Gerusalemme. Barnaba ha una intuizione profonda, è libero da pregiudizi, da paure, e capisce che ad Antiochia sta operando lo Spirito. È capace anche di mediare: di rassicurare Gerusalemme e di incoraggiare Antiochia, evitando le rotture. Uomo, perciò, prezioso per la primitiva cristianità.

Chi è stato Barnaba per Paolo

È stato d’importanza fondamentale: dopo Anania è l’uomo a cui Paolo deve di più. Anzi ad Anania deve il primo ingresso, la prima accoglienza, ma

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gente; ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani” (At 11, 25-26). Dietro a questo versetto c’è l’immagine di una meravigliosa collaborazione tra Barnaba e Paolo: Barnaba è il primo dei profeti, Paolo è l’ultimo venuto, ma Barnaba lo sa valorizzare e lo introduce in una attività che diventa la più fruttuosa di tutta la Chiesa antica, quella da cui nasce una cristianità, che si impone talmente che il nome di cristiani deriva da lì. È la comunità che ha cominciato veramente a farsi notare nella storia. Barnaba è stato tutto questo per Paolo.

Barnaba è anche il primo scelto dallo Spirito per la missione. È descritto l’inizio della missione che poi diventerà la grande missione ai pagani: “Mentre essi - questi profeti - stavano celebrando il culto del Signore e digiunando, lo Spirito Santo disse:

Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho c h i a m a t i ” (At 13, 2). Barnaba è il primo e Saulo è l’aggiunto. B a r n a b a è il capo della nuova s p e d i z i o n e ; descrivendola, l’autore menziona per primo sempre Barnaba. L’ordine non è mai indifferente: Barnaba è colui che viene riconosciuto ufficialmente capo della missione: al v. 7 dice che arrivarono dal proconsole, persona di senno, “che aveva fatto chiamare a sé Barnaba e Saulo e desiderava ascoltare la parola di Dio”. Ed ecco che, molto rapidamente, in questa missione la personalità di Paolo comincia ad emergere. Pochi versetti dopo, noi vediamo che l’attore principale della situazione in cui il mago Elìmas viene accecato è Saulo: “Saulo, detto anche Paolo, pieno di Spirito Santo, fissò gli occhi su di lui e disse: O uomo pieno di ogni frode e di ogni malizia” (At 13, 9); e più avanti: “Salpati da Pafo, Paolo e i suoi compagni giunsero a Perge di Panfilia” (13, 13). poi tutto il resto lo deve a Barnaba. Egli è stato

per Paolo colui che l’ha cercato, l’ha capito, l’ha sostenuto. È stato l’amico, il padre spirituale, il maestro di apostolato, quello che l’ha introdotto nell’esperienza apostolica.

“Barnaba lo prese con sé, lo presentò agli apostoli e raccontò loro come durante il viaggio aveva visto il Signore che gli aveva parlato, e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù” (At 9, 27). È molto bello poter commentare questo testo parola per parola. “Barnaba lo prese con sé”: il verbo greco è « epilabòmenos », lo stesso che viene usato per Gesù che prende per mano Pietro che sta per affondare nel lago durante la tempesta (cf. Mt 14, 31). L’immagine che possiamo avere davanti è quella di Paolo smarrito a Gerusalemme: tutti gli chiudono la porta in faccia, non ha neanche dove dormire, e Barnaba va, gli tende la mano e gli dice: “Vieni con me, ti accompagno, ti presento io”. Per Paolo, a t t r a v e r s o

Barnaba, le porte si riaprono. Dicono gli Atti: “Così egli poté stare con loro e andava e veniva a Gerusalemme parlando apertamente nel nome del Signore” (At 9, 28).

Anche in seguito, quando si tratta della comunità di Antiochia, Barnaba è il primo dei profeti: “C’erano nella comunità di Antiochia profeti e dottori: Barnaba, Simeone soprannominato Niger, Lucio di Cirene, Manaen, compagno di infanzia di Erode tetrarca, e Saulo” (At 13, 1). Dunque la gente di Antiochia riconosce i profeti, ma il primo è Barnaba e Saulo è l’ultimo venuto, e sappiamo come: “Barnaba poi partì alla volta di T arso per cercare Saulo e trovatolo lo condusse ad Antiochia; Rimasero insieme un anno intero in quella comunità e istruirono molta

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Barnaba è già ridotto al rango di compagno. Possiamo qui cogliere lentamente il cambiamento psicologico che è avvenuto e la mutazione di ruoli in questa primitiva spedizione.

E purtroppo, proprio poco dopo, quando la mutazione di ruoli è ormai quasi codificata accade che Giovanni-Marco se ne va e la spedizione si restringe di numero.

Il capitolo 15 degli Atti, mostra Paolo e Barnaba in strettissima collaborazione, ormai però sempre nell’ordine, prima Paolo e poi Barnaba. I due sono pienamente d’accordo, agiscono con piena concertazione e condivisione di scopi là dove si tratta di resistere all’ingiunzione dei giudaizzanti di circoncidere i pagani convertiti. Tutto il cap. 15 è presentato ancora sotto il segno di una precisa collaborazione fra i due.

Che cosa è accaduto

Verso la fine del capitolo 15 viene presentato il dramma della rottura. 

C’è stato il Concilio di Gerusalemme. La lettera è stata consegnata a Paolo, a Barnaba e ad altri due fratelli, Giuda-Barsabba e Sila, perché la portassero ad Antiochia. Scendono ad Antiochia, rimangono là ad insegnare, ad annunciare la Parola di Dio e poi Paolo decide di riprendere la missione. “Barnaba voleva prendere insieme anche Giovanni, detto Marco, ma Paolo riteneva che non si dovesse prendere uno che si era allontanato da loro nella Panfilia e non aveva voluto partecipare alla loro opera. Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro; Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì, raccomandato dai fratelli alla grazia del Signore” (At 15, 37-40). Che cosa è successo? Dal punto di vista immediato il racconto è evidente: un dissenso su un collaboratore. Per Barnaba andava bene, per Paolo no. Si aggiungeva il fatto imbarazzante che Barnaba era cugino di Giovanni-Marco, e probabilmente difende anche un po’ se stesso, l’immagine di famiglia.

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Paolo si irrigidisce su una questione di principio: “Il dissenso fu tale che si separarono” (At 15, 39). Discutono forse per parecchi giorni, forse la comunità cerca di riconciliarli, di convincerli; ma la discussione raggiunge un punto tale di tensione che pare davvero meglio che ciascuno se ne vada per conto proprio. Questo culmine è indicato nel greco con la parola « paraxusmòs », «parossismo », anche se, in altri casi, ha un significato più blando, cioè provocazione o stimolo.

È naturale chiederci se un punto di vista diverso a proposito di un collaboratore possa giustificare una rottura così drammatica; o se in realtà sia stato solo un pretesto. Non c’era dietro qualcosa di più? Non ci poteva essere, dal punto di vista psicologico, quel crescente imbarazzo su chi doveva essere il capo missione tra Paolo e Barnaba? Barnaba era l’uomo di grande autorità, che fin dai tempi di Gerusalemme era noto a tutta la Chiesa. Come poteva lasciare il posto a un uomo nuovo, che ancora molti non conoscevano, che a Gerusalemme era inviso, e per questo avrebbe magari screditato la figura della missione? Oppure motivi psicologici più profondi: Barnaba era a disagio nell’avere da una parte la responsabilità e accorgersi, d’altra parte, che in fondo era Paolo a prendere le decisioni. Paolo dal canto suo aveva l’imbarazzo opposto. Non possiamo sapere quanto questi elementi abbiano giocato nella decisione finale. C’è un altro fatto: Paolo stava tirando la corda per la rottura con i giudaizzanti e Barnaba invece era l’uomo delle grandi amicizie con la Chiesa giudeo-cristiana e vedeva più opportuno non tirare troppo la corda, perché le conseguenze sarebbero state gravi. Barnaba già intravedeva la spaccatura con la Chiesa giudeocristiana, che poi è avvenuta, e avrebbe voluto a tutti i costi evitarla. Anche Paolo diceva a parole di volerla evitare, ma in realtà agiva in maniera da irritare ed esasperare gli avversari. Pensiamo ancora al fatto di Pietro ad Antiochia: Paolo scriverà che Barnaba si è lasciato attirare dalla ipocrisia dei Giudei (cf. Gal 2, 11-14). Ci è impossibile storicamente determinare cosa sia stato. Tuttavia, dobbiamo concludere che quella lacerazione è stata molto dolorosa e

drammatica per entrambi.

Con quali conseguenze?

Una conseguenza paradossale, dal punto di vista dell’incontro tra le persone. Paolo che aveva goduto della fiducia di Barnaba e, grazie a questa fiducia, si era salvato ed era stato rimesso in circolazione, non riesce a dare fiducia a Barnaba per Marco. La sofferenza di Barnaba è assai dolorosa: si sente respinto forse anche come amico, non per una volontà cattiva di Paolo, ma come conseguenza delle cose che stavano accadendo. Barnaba, dopo questo episodio, scompare. Un gigante della Chiesa primitiva, ad un certo punto, non lascia quasi più traccia di sé. Lo ricorda ancora Paolo come una persona che si conosceva e che aveva buona reputazione (cf. 1 Cor 9,6), e un’altra volta, in modo indiretto che sembra riparatorio: “Vi salutano Aristarco, mio compagno di carcere, e Marco, il cugino di Barnaba, riguardo al quale avete ricevuto istruzioni; se verrà da voi, fategli buona accoglienza” (Col 4, 10). Paolo si è riconciliato con Marco e, menzionandolo come cugino di Barnaba, pare voler dire: “quello che io non avevo accolto un tempo”. Al di fuori di questi brevissimi ricordi, di Barnaba sappiamo solo quel poco che ci dice la tradizione. Rinchiusosi a Cipro, non ha più fatto grandi viaggi missionari, ma, ritornato in patria, vi è rimasto. Tutta la sua enorme capacità si è ridotta entro un limite ristretto.

Chi aveva ragione? Il tempo ha dato ragione a Barnaba; tuttavia gli eventi si sono svolti così e, da un certo punto, ciascuno ha dovuto adattarsi alla nuova situazione.

Come Paolo ha vissuto la rottura

Paolo ha vissuto questa rottura certamente con sofferenza, sentendo il peso della solitudine. E anche questo evento gli ha fatto approfondire sempre meglio l’intuizione fondamentale della prima visione di Damasco. Il Signore è il solo amico perfetto, di sempre, il solo fedele, il solo che capisce fino in fondo, che non ci abbandona mai. Comprendendo l’animo affettuoso e vulcanico di Paolo, possiamo intuire come si sia chiarito in lui quell’amore personale per Cristo, amato fino in fondo, in maniera tenerissima, ardente,

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che lo caratterizzerà sempre più. Ancora oggi leggiamo con stupore le frasi meravigliose delle sue lettere che non possono essere nate se non da un travaglio di sofferenza, dall’aver capito che il Signore è davvero  tutto.  Lui ci ha fatto e ci conosce fino in fondo; le amicizie umane, per belle e grandi che siano, impallidiscono di fronte alla forza della “conoscenza di Cristo nostro Signore” . “Per me vivere è Cristo” (Fil 1, 21). Cristo è divenuto l’inseparabile e per questo potrà scrivere nella lettera ai Romani: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?” (Rm 8, 35). Di fronte a qualunque possibile infedeltà egli mi amerà ancora e mi chiamerà a sé.

Paolo ha capito che l’essenziale per lui è Cristo: tutto il resto che egli fa, opera, predica con tutto l’entusiasmo di cui è capace non è se non Cristo che vive in lui. La sua inseparabilità da Cristo è la radice di tutto. Egli è colui nel quale ogni altra amicizia acquista senso, significato, bellezza. L’Apostolo ritornerà spesso sul tema dell’amicizia con i suoi, con la comunità, con i collaboratori, perché certamente sapeva anche collaborare, pur avendo momenti così difficili. Ma ritroverà sempre meglio questa bontà profonda a partire dall’esperienza che non delude: l’amicizia piena col Cristo che è la sua vita.

Chiediamo anche noi che, attraverso le vicende del cammino apostolico, la nostra esperienza pastorale ci si chiarisca sempre più come dipendente dall’amicizia con Cristo nostra vita.

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L’ALLAMANO

NELLE TESTIMONIANZE

P. Francesco Pavese, IMC

TESTIMONIANZE

“PROPAGANDA” PER LE VOCAZIONI

Oggi parliamo di “animazione missionaria” e “animazione vocazionale”, mentre al tempo del Fondatore e anche dopo, si usava comunemente il termine “propaganda”. La sostanza, però, non cambia, perché, ieri come oggi, l’Istituto sente di doversi impegnare per risvegliare nei cristiani la coscienza missionaria e proporre ai giovani la possibilità di lasciarsi coinvolgere personalmente. Ciò che cerco di proporre in questo breve scritto è il pensiero del Fondatore, cioè come lui immaginava e voleva che si facesse la “propaganda” (la promozione) per le vocazioni .

Questo non è il nostro spirito. Non c’è bisogno

di ricordare qui ciò che ripeteva convinto il Fondatore, cioè che il bene bisognarla farlo “senza rumore”. Questo principio, applicato alla così detta “propaganda” diventa esigente. Attraverso le testimonianze siamo facilitati a conoscere il vero pensiero del Fondatore. Sr. Michelina Abbà, missionaria per tanti anni in Kenya, con una parentesi in Somalia, tramandò un simpatico aneddoto del 1916: «Ricordo la visita del Cardinal Cagliero (Salesiano) che era da poco giunto dalle Missioni d’America. Egli si intrattenne con la Comunità in salone e fra l’altro ci spronava

a fare un po’ di propaganda presso le nostre amiche e conoscenze affinché si decidessero ad entrare nell’Istituto perché le Missioni avevano bisogno di Apostole… e così dicendo ci insegnava anche il modo e il discorsetto da fare… Noi eravamo tutte raggianti e piene di

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entusiasmo a tali incitamenti… ma tosto il nostro entusiasmo si calmò… perché il Padre, un po’ scostato indietro dal Cardinale ci faceva segno con il dito e col capo in senso negativo, e le sue labbra sussurravano piano un “no, no, no”. In conferenza poi ci disse “Ogni spirito…” ma questo non è il nostro spirito”».

Non entusiasmare poeticamente i giovani.

Nella mente del Fondatore risulta sempre prevalente il realismo e la prudenza nella promozione vocazionale e nell’accettazione dei candidati alle missioni. Mirava alla qualità e temeva che una propaganda chiassosa impedisse un buon discernimento e non permettesse di conoscere esattamente le tendenze e le qualità dei giovani. Il P. Lorenzo Sales, nella deposizione al processo canonico per la beatificazione, riferì di una lettera del 22 aprile 1921, che il Fondatore gli aveva scritto mentre era nel seminario di Bologna per l’animazione missionaria e vocazionale. Il brano che interessa è il seguente: «Siccome so che costì alcuni desiderano schiarimenti sul nostro Istituto […], con prudenza ed approvazione dei Superiori puoi parlarne. Sta però attento a non entusiasmarli poeticamente». Questo indirizzo è particolarmente significativo se pensiamo che in quel periodo la missione era circondata da un alone piuttosto poetico, collegato con l’attrattiva esercitata dai grandi viaggi e dalle scoperte di popoli lontani.

Spiegare bene lo spirito dell’Istituto. Nella

stessa lettera al p. Sales l’Allamano fa questa raccomandazione: «Dì loro la vera natura dell’Istituto, la disciplina e lo spirito che lo regge». Anche questa preoccupazione è saggia. La troviamo in piena sintonia con quanto il Fondatore pensava e affermava sull’importanza di seguire il “suo spirito”. Realisticamente voleva che quanti erano contattati da p. L. Sales sapessero che egli aveva ricevuto dallo Spirito un carisma che egli trasmetteva all’Istituto e che era un valore irrinunciabile.

Non scoraggiare con notizie imprudenti.

Se l’Allamano esigeva che si fosse chiari nel prospettare lo spirito e lo stile di vita missionaria dell’Istituto, nello stesso tempo intendeva rispettare i ritmi di crescita dei giovani e non voleva spaventarli oltre la loro capacità di sopportazione.

Al riguardo c’è una lettera del Can. G. Camisassa, che parla a nome del Fondatore, a P. L. Sales, con la quale cerca di spiegare questo aspetto. Oggi, il problema qui prospettato non c’è, ma la necessità di essere attenti e rispettosi verso il cammino di crescita dei giovani rimane. Mentre era in Kenya, il p. L. Sales componeva articoli che inviava a Torino per essere pubblicati sul bollettino “La Consolata”. In data 1 dicembre 1918, il Camisassa gli scrisse: «Coll’ultimo plico postale ricevetti i tuoi scritti sulla guerra e i neri, le locuste e i pericoli dei missionari in viaggio. Grazie, grazie di cuore per tutti, sebbene l’ultimo il Sig. Rettore non me lo lascerà pubblicare (come non volle si pubblicasse quello sulle delazioni e disagi della vita missionaria) perché egli teme che queste cose, come i pericoli nei viaggi, possano spaventare e impedire vocazioni, massime di Suore. Cosa vuoi la vita di missione, o meglio la vocazione missionaria, non è come per il matrimonio. […]. Insomma se non si presenta nel suo bello, induce scoraggiamento colla conseguenza di ritrarne certi soggetti che qui se ne spaventerebbero, invece poi portati in quell’ambiente faranno perfino dei miracoli. È questo il segreto per cui gli scritti di Monsignore [F. Perlo] piacciono alla folla e veniamo

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spesso a scoprire che furono essi l’incitamento a molte vocazioni. Eppure egli non dice bugie; ma il brutto o lo sorvola o lo presenta nel suo lato bello, per cui anche le difficoltà finiscono per attrarre le anime generose. […]. Termino col finire della carta ripetendoti che la prima tua “missione” è scrivere, scrivere, scrivere».

Privilegiare la qualità sulla quantità. Non

c’è dubbio che l’Allamano si avvicinava ai giovani mirando alla loro qualità, più che al numero. E questo suo modo di agire lo dichiarava esplicitamente e, all’occorrenza, lo insegnava come metodo di promozione e accompagnamento vocazionale. Sono famose le parole riferite da p. L. Sales al processo canonico: «Ad un Vescovo, già suo discepolo, che gli aveva scritto per l’accettazione di un chierico, l’Allamano rispondeva: “Se ti rincresce perderlo, mandalo; altrimenti tienilo”».

Un esempio indiretto viene dalla direttiva data, con la lettera del 24 settembre 1916, dal Fondatore a p. L. Sales, in Kenya, riguardo al piccolo seminario locale. Avendo saputo da p. Costanzo Cagnolo che vi erano state alcune defezioni di giovani, l’Allamano invitò a non scoraggiarsi, confidando: «Io sono

solito dire che, ad ogni partenza, recito il “Te Deum”. Ricordatevi sempre: essere meglio pochi, ma buoni». È un criterio che vale per l’accompagnamento dei giovani durante la loro ricerca vocazionale.

È curiosa, ma significativa, l’osservazione fatta dal Fondatore alle suore nella conversazione del 23 dicembre 1921, rispondendo agli auguri di Natale. Dopo avere dato notizie sulle missioni, disse: «E poi l’Iringa è nostra... Voi dovreste essere 500 almeno. Voi mi avete detto che non guardo il numero ma la santità; ma più grosso è il numero dei santi e meglio è...».

Un profumo fino fino si spande dappertutto.

Come conclusione di queste riflessioni riporto le parole dirette del Fondatore nella conferenza del 17 settembre 1916, che confermano la testimonianza di Sr. Michelina Abbà riportata

all’inizio. Parlando dell’attaccamento

all’Istituto, ad un certo punto precisò: «Dobbiamo far propaganda con i nostri esempi, sia l’odore di santità che attiri gli altri».

Nella conferenza della domenica successiva, pur trattando di un altro tema (parlava della “Madonna della Mercede”), il Fondatore, verso la fine del suo discorso, sentì il bisogno di tornare sullo stesso argomento: «Aggiungo ancora una parola riguardo a quanto disse il Card. Cagliero nella sua visita. […]. Dirò

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qualche cosa ancora riguardo a quel suo benedetto fare, fare. S. Vincenzo de’ Paolí proibì alle sue suore di far propaganda. La propaganda si fa coll’esempio: io voglio che la gente corra dietro all’odore delle vostre virtù. Se siete sciolte, svelte, state sicure che attirerete delle giovani a farsi suore. Se invece vi si vede solo così così, le persone dicono: “Ma io non voglio andare nelle suore che sono sgnacà [impacciate]”. […]. Lo scopo vostro non è di chiamare di qua e di là,[...]; no, noi non andiamo a cercare le postulanti per Torino, ma le vocazioni le otterremo anzitutto colla preghiera e poi col buon esempio».

Detto questo, il Fondatore manifestò la magnanimità del suo spirito, pronunciando parole che sicuramente le suore non si

attendevano: «Concludiamo: io non voglio che crediate ed andiate a dire che solo qui, in questo Istituto, si può salvarsi. Quando sentite che qualcuna vuole andare, per esempio, nelle Suore di Carità, ditele: Bene, brava, va’ pur là; senza aggiungere: Vieni qui. Non bisogna essere esclusivisti. Va bene aver stima del nostro Istituto, ma poi che crediamo di essere solo noi!!! E se venisse qualcuna a domandare sulla scelta della congregazione ove entrare, fatele vedere, non solo il nostro Istituto, ma pure altri posti, come le Carmelitane, le Cappuccine, le Giuseppine, ecc. […]. Facciamo il nostro dovere bene, bene, e poi non abbiamo bisogno di girare Torino. Un profumo fino fino si spande dappertutto...».

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ATTIVITÀ DELLA DIREZIONE GENERALE

PRESENTAZIONE DEGLI ATTI DEL

XIII CAPITOLO GENERALE

Roma, 25 luglio 2017, San Giacomo, apostolo!

Datevi con tutto il cuore e con tutte le forze all’opera dell'evangelizzazione. È per questo speciale fine che per farvi santi sceglieste la via delle missioni, preferendo il nostro Istituto a tante altre congregazioni che attendono altri ministeri. (Giuseppe Allamano, Lettera ai

missionari del Kenya, 2 ottobre 1910.

Carissimi Missionari, Superiori di Circoscrizione e Capitolari;

La pace e l’amore del Signore siano sempre con voi!

Ecco, gli “Atti Capitolari” del nostro XIII

Capitolo Generale!

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Colgo l’occasione per ringraziare, prima di tutto il Signore e la Consolata per questo documento, ma anche ognuno di voi, che avete contribuito al buon esito dell’Assemblea Capitolare.

Come sempre dal Capitolo ci si aspetta qualcosa di nuovo e magari, confrontandoci con il testo nasce la consapevolezza che si sarebbe potuto fare meglio e di più, e quindi nasce anche un po' di frustrazione. Davanti a un documento rimane sempre un po' di amaro in bocca. Eppure questa 'imperfezione' è una grande lezione ed è il cammino stesso dell'incarnazione. Accettare il limite è la condizione prima per fare passi avanti. Noi non possiamo dominare la storia. Non siamo neanche condannati a subirla. Possiamo invece starci dentro disposti a servirla.

Chiedo a tutti e a ognuno la disponibilità a fare la verità. La verità si raggiunge insieme facendola, e facendola la si incontra. Questo vuol dire che quanto presentato deve essere accompagnato dal desiderio profondo di sperimentarlo, di farlo diventare vita, altrimenti non sarebbe che puro esercizio letterario. 

Gli Atti Capitolari  sono destinati a tutti i Missionari e sono affidati ai Superiori di ogni Circoscrizione affinché si rendano responsabili che ognuno ne abbia una copia. 

Il Progetto Missionario Continentale

Il Capitolo ha studiato e approvato i Progetti Missionari Continentali, norma e guida per la nostra missione in ogni Continente. I testi finali e ufficiali dei Progetti saranno pubblicati dopo che sarà fatta l'ultima verifica da parte dei Consigli Continentali.

Assemblee Continentali Post-Capitolo

Ai Consigli Continentali spetta il compito di organizzare l'Assemblea Continentale Post-Capitolo. Ricordo, a proposito, quanto è stato deciso in sede Capitolare e cioè che, le diverse Conferenze di Circoscrizione, devono essere precedute dall'Assemblea Continentale Post-Capitolo, affinché le conclusioni e le indicazioni del Capitolo siano applicate, a livello generale, prima nel Continente e in seguito, a livello particolare, diventino guida per le scelte e le opzioni delle singole Circoscrizioni.

Sulle orme dei nostri protettori annuali: Barnaba e Paolo, ricordando l'incontro storico con il Papa, sospinti dall'esempio missionario della Beata Irene, facendo memoria delle diverse celebrazioni e incontri avvenuti, ricordando lo spirito di famiglia che ha caratterizzato lo svolgimento del Capitolo, impegniamoci affinché gli orientamenti e le decisioni capitolari diventino nostra vita e nostra missione.

San Paolo dice: sia Apollo, sia io, siamo tutti ministri di Gesù, ognuno nel suo modo, ma è Dio che fa crescere. (cfr. 1Cor 3,5-6) Questa parola vale anche oggi per tutti noi. Tutti siamo umili ministri di Gesù. Serviamo il Vangelo per quanto possiamo, secondo i nostri doni, e preghiamo Dio perché faccia Lui crescere oggi il suo Vangelo, la sua Chiesa, il nostro Istituto. Grazie, un abbraccio fraterno a tutti e a ognuno, coraggio e avanti in Domino!

P. Stefano Camerlengo,

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I CARE: LA GIOIA DI ESSERE RESPONSABILE!

Introduzione

La parola ispiratrice per il nostro Capitolo vorrei che fosse: I CARE, “mi sta a cuore, m’interessa!”, non sono indifferente agli altri, in un certo senso mi sento responsabile della vita degli altri, mi sento parte e responsabile della nostra famiglia missionaria.

E’ quanto ha espresso bene John Kennedy agli americani:” Non chiedetevi cosa può fare il vostro paese per voi. Chiedetevi che cosa potete fare voi per il vostro paese!”. E noi, possiamo dirci lo stesso verso il nostro Istituto: “Questo

non è il tempo di chiedere che cosa fa l’Istituto per me. Ma è tempo per chiedersi che cosa posso fare io per l’Istituto!”. È questa la responsabilità, che ci fa

essere in comunione con gli altri e che fa sentire sulla nostra pelle gli stessi desideri di giustizia e rispetto fraterno che tutti in ogni parte del mondo ogni giorno sperano di vivere. Perché a chi ha trovato Gesù, è vietato di essere felice da solo. 

Questa è la strada della felicità, questa è la missione, questa è l’essenza della nostra vocazione di consacrati per la missione: la nostra vita ha senso solo nel donarsi, nel contribuire a dare gioia e dignità alle persone che ne sono spogliate. C’è più gioia nel dare che nel ricevere, e la vita si ottiene dando, non prendendo. La vera gioia della vita nasce solo quando si è capito che quello che si dà è quello che veramente costruisce la persona, perché quello che si trattiene per sé non si possiede, ma rende la persona, un’infelice. 

Fondamentalmente questo significa avere fede in Gesù, essere prima discepoli e poi apostoli, cercare di fare come Lui, il Maestro, che in tutta la sua esistenza ha pensato prima agli altri che a se stesso: I CARE!!!

Non è facile sintetizzare o far emergere alcuni tratti di sei anni del servizio di governo e di accompagnamento dei missionari e della missione dell’Istituto che mi sono stati affidati. Per questo, senza pretese, vorrei qui mostrare alcuni aspetti che mi sembrano più importanti. Inizio dicendo che pur non essendone degno, ritengo che questo servizio è un dono, una grandissima grazia che Dio mi ha fatto e della quale non saprò mai ricambiare abbastanza. Avere la possibilità d’incontrare tutti i missionari della Consolata in tutte le comunità e paesi dove esercitiamo la nostra missione e anche in più occasioni, questo è il dono più grande che caratterizza principalmente questo servizio, e di questo ringrazio profondamente Dio e l’Istituto.

DALLA RELAZIONE DEL SUPERIORE GENERALE AL XIII CAPITOLO GENERALE

Roma 22 maggio-20 giugno 2017

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PROSPETTIVE FUTURE

Personalmente credo che l’attuale momento è uno dei periodi più incerti dell’Istituto, anche per la situazione del mondo che non ci aiuta a fare chiarezza certamente. Non sappiamo più che cos’è la missione, le relazioni che viviamo tra noi sono abbastanza fragili: ciascuno preferisce fare da sé, senza avere bisogno dell’altro. Gli anziani hanno dimenticato di trasmettere i valori ai giovani. I giovani vivono un enorme vuoto, senza un orientamento che né l’Istituto, né la Chiesa e neppure la società sono in grado di offrire. Eppure, il futuro dell’Istituto è dei giovani: a voi tocca far rinascere il mondo!

L’Istituto ha bisogno di nascere di nuovo. Per questa rinascita, per questa “risurrezione”, sono importanti, fondamentali, tre-quattro cose, forse cinque, che oso mettere qui di seguito sotto il segno delle prospettive future.

Ebbene, come evangelizzare oggi avendo come “costante orizzonte” la missione ad gentes? Che cosa comporta assumere quest’ultima come il “paradigma per eccellenza” dell’azione della Chiesa e del nostro Istituto che ne fa parte? E in definitiva, che cosa richiede uno stile missionario? Mi faccio queste domande perché l’aggettivo missionario evoca ancora nell’immaginario popolare imprese straordinarie, eroiche e riservate a pochi specialisti, come poteva essere la missione ad gentes cinquant’anni fa, invece di rimandare, come dovrebbe essere, alla maniera originale di annunciare l’evangelo, così come ci insegnano gli Atti degli Apostoli e ci indicano i documenti del Concilio Vaticano II.

Un proverbio africano dice: “Quando hai smarrito la strada, ritorna al punto di partenza”. L’Istituto dovrà ritornare a essere missionario come le prime comunità cristiane, se vuole trovare nuova ispirazione, non per niente abbiamo scelto come indicatori della via Paolo e Barnaba per questo Capitolo.

Rimettere al centro Gesù di Nazareth!

Bisogna rimettere al centro Gesù Cristo, la sua parola, il suo esempio. Questa è la via maestra. Alla luce della vita di Gesù di Nazareth, del suo

messaggio, della sua vita, della sua morte in croce e della sua risurrezione: “La Chiesa burocratizzata e dogmatica, tenuta in vita artificiosamente, appare senza futuro” (in A.M. Valli, Hans Küng, ribelle per amore. Intervista, La Meridiana, Molfetta 2010, p. 72.)

Rimettere al centro Gesù Cristo vuol dire per noi lasciar cadere modelli di missionario ormai inefficaci, ritrovando la sua credibilità con una riforma che non è mai conclusa (ecclesia semper reformanda, Instituto semper reformando).

Il teologo domenicano Jean Marie Tillard scrive: “Siamo gli ultimi cristiani? Siamo certamente gli ultimi di tutto uno stile di cristianesimo. Non siamo gli ultimi cristiani.” (Siamo gli ultimi cristiani? Lettera ai cristiani del Duemila, Queriniana, Brescia 1999, p. 33.)

Noi possiamo chiederci: Siamo gli ultimi Consolata? Se non vogliamo essere davvero gli ultimi Consolata, dobbiamo riscoprire la buona notizia che è Gesù di Nazareth, rimettendolo al centro dei nostri interessi, di quelli della Chiesa e dell’Istituto.

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Alle volte mi chiedo se Gesù Cristo non sia “marginale” negli interessi della nostra vita, delle nostre scelte. Sembriamo, infatti, più preoccupati di noi stessi, dell’istituzione, relegando Gesù Cristo e l’Istituto in secondo piano, riducendolo alla marginalità. Che cosa saremmo in grado di rispondere a una domanda-provocazione del genere: come missionario della Consolata voglio più bene a me stesso o a Gesù Cristo?

Già Papa Benedetto XVI, in un pronunciamento fatto nel 1994, da cardinale diceva: “Mi sembra innegabile che esiste un po’ troppa auto-occupazione della Chiesa con se stessa. Essa parla troppo di sé, mentre dovrebbe di più e meglio occuparsi del comune problema: trovare Dio e trovando Dio trovare l’uomo […]. Mi sembra tuttora innegabile che oggi si dia un’inflazione di parole, una produzione eccessiva di documenti” (Il Regno-attualità 4/1994).

Mi sembrano illuminanti a questo riguardo anche le parole di papa Francesco: “Confessare. Noi possiamo camminare quanto vogliamo, noi possiamo edificare tante cose, ma se non confessiamo Gesù Cristo, la cosa non va. Diventeremo una ONG assistenziale, ma non la Chiesa, sposa del Signore. Quando non si cammina, ci si ferma. Quando non si edifica sulle pietre cosa succede? Succede quello

che succede ai bambini sulla spiaggia quando fanno dei palazzi di sabbia, tutto viene giù, è senza consistenza. Quando non si confessa Gesù Cristo, mi sovviene la frase di Léon Bloy:’Chi non prega il Signore, prega il diavolo’. Quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del diavolo, la mondanità del demonio” (Omelia ai cardinali nella Cappella Sistina, 14 marzo 2013).

Riscoprire la necessità di evangelizzare!

La missione ad gentes è il motore che tiene viva nella Chiesa la spinta missionaria impressale da Gesù Cristo. Le fa riprendere l’impegno della testimonianza e della parresia apostolica, perché l’una e l’altra sono il frutto di quella Caritas Christi, per cui la Chiesa ormai sente che non può più vivere per se stessa, ma per Chi è morto e risorto per lei, così come la sentiva l’apostolo Paolo: “Guai a me se non predicassi il Vangelo!” (1 Cor 9,16).

“Non so su che base si è potuto sostenere che parlare sia facoltativo quando si è cristiani. In un ambiente non credente diventa necessario evangelizzare. Non si può scegliere tra farlo e non farlo e non si può neppure scegliere di che cosa si parlerà […]. Annunciare il Vangelo con il linguaggio delle persone con cui si parla, non è sufficiente. Occorre annunciare il Vangelo con il linguaggio di Gesù

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Cristo. Il linguaggio di Gesù Cristo è sempre costantemente accompagnato dalle parole della bontà di Gesù Cristo”. (Madeleine Delbrêl)

Possiamo dire onestamente che questo “guai” di Paolo brucia dentro il nostro cuore oggi o se invece il nostro cuore si è addormentato al punto che potrebbe giungere perfino a bisbigliare: “Guai a me se predicassi il vangelo, perché me ne verrebbero molti guai!”. Annunciare davvero il Vangelo di Gesù di Nazareth comporta delle conseguenze che potrebbero creare dei problemi alla prassi ecclesiale, al governo delle sue strutture, al rapporto con il potere.

Le nostre radici si sono seccate, bisogna ripiantare l’albero, affinché il Vangelo metta nuove radici nelle nostre coscienze. Forse, Evangelizzare, non è mai stato così urgente come oggi. L’Istituto come la Chiesa deve prendere coscienza di questo e diventare tutto più “missionario”, anche nella sua struttura.

Riscoprire la comunità!

Rimettere al centro Gesù Cristo e il suo Vangelo significa riscoprire immediatamente, direi automaticamente, la necessità della comunità, la vocazione comunitaria dell’essere cristiano. Per

noi la missione è alla base della vita consacrata e comunitaria, in cui l’essenziale non è una vita condivisa, ma una missione assunta in comune. Possiamo affermare che questo punto è discriminante tra una semplice “convivenza” e una vera “comunità” di fratelli. Ecco, allora, che anche la comunità avviene nella missione. Essa non viene prima della missione come qualcosa di prestabilito: è costituita dalla missione, nella sua esperienza spirituale e nei suoi aspetti concreti e istituzionali. Purtroppo non è questo ciò che avviene. La frattura tra la vita comunitaria e la missione è una delle principali ragioni della profonda crisi in cui ci troviamo ora. Senza dubbio, anche la missione si qualifica, in maniera decisa, quando avviene in comunità. Il mondo richiede, oggi, una testimonianza di comunione, di fraternità e di dialogo (Vc. 51), non solo come autentico servizio evangelico, ma anche come segno. Perciò, comprendere la missione come progetto comune non è solo una strategia per un’efficacia pastorale, ma è principalmente fedeltà all’imitazione del Maestro, che ha voluto la missione in comunità, inviando i suoi discepoli a due a due (Mt 10,1-4). In essa si esprime l’impegno fondamentale contro ogni forma di dominio sull’altro, e la pratica assidua della fraternità, come manifestazione

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di una nuova logica di convivenza universale. La comunione e la condivisione annunciano l’effondersi dell’amore di Dio-Trinità nelle nostre vite, come un modo nuovo di ripensare le relazioni con le persone, di là da tutte le frontiere, per trasformare il mondo in una sola famiglia. In questo modo, il compito da compiere consiste nello sviluppare a nuovi modelli di fraternità, dalla missione;(?) nell’articolare non “Progetti comunitari di vita” ma “Progetti comunitari di missione”: nell’adeguare (X) le nostre strutture e relazioni, gli stili di vita, di spiritualità, i mezzi e i progetti agli orizzonti missionari assunti secondo il nostro carisma.

Senza dimenticare i poveri. Andare incontro all’altro ovvero l’opzione preferenziale dei poveri. Rimettere al centro Gesù di Nazareth significa anche seguirlo nelle sue attitudini d’incontro all’altro e nella sua opzione preferenziale per i poveri.

“Una cosa, scrive un grande biblista, mi colpisce sempre e realmente mi fa credere che Gesù è

veramente Dio e uomo: è che se Dio avesse chiesto consiglio per la sua incarnazione su come rendere servizio agli uomini, gli si sarebbe consigliato di nascere figlio dell’imperatore per avere così mezzi colossali per mantenere la pace in tutto il bacino mediterraneo. Ma Dio ha scelto il mezzo paradossale del fallimento totale e deludente, dell’abbandono assoluto nella morte, e questo indica che è Dio. Bisogna essere Dio per vedere così chiaro” (D. Barthélemy, Il povero scelto come Signore, Qiqajon, Comunità di Bose 2010, p. 46). Nel nuovo alfabeto ecclesiale, cui ci sta abituando papa Francesco, entrano anche i poveri: “Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri”, ha detto ai giornalisti che seguivano le sue prime giornate romane. Segno di una volontà di conversione della Chiesa al suo unico Signore, Gesù Cristo. I poveri sono l’unica via di salvezza per la chiesa: extra pauperes nulla salus!

Raccogliere e cogliere la memoria preziosa

dei testimoni del passato!

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dovrà leggere il libro dei propri martiri e testimoni. Ben venga allora, il recupero della memoria storica e l’allargamento delle categorie di martirio (alla difesa dei diritti dei più poveri, all’affermazione della dignità d’ogni persona anche se debole, alla condivisione e solidarietà con chi è vittima dell’ingiusta violenza). Sarà difficile, infatti, se non impossibile, disporsi alla conversione, mettendo tra parentesi o, peggio ancora, nascondendo la memoria preziosa dei martiri e dei testimoni del passato del nostro Istituto. Non si tratta di ricomporre pietosamente i morti, ma di rimettere in circolazione la “memoria pericolosa” di Gesù Cristo e ridare speranza alle nuove generazioni di missionari della Consolata.

“Quando camminiamo senza la Croce, ha affermato papa Francesco, quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo senza Croce, non siamo discepoli del Signore: siamo mondani, siamo Vescovi, Preti, Cardinali, Papi, ma non discepoli del Signore” (Omelia ai cardinali nella Cappella Sistina, 14 marzo 2013).

CONCLUSIONE

Questi alcuni commenti e suggerimenti personali che parlano della necessità di uno sforzo maggiore nel cammino di fedeltà

alla nostra vocazione di consacrati per la missione. A volte la sequela e la missione sono tradite dai nostri atteggiamenti e dalle nostre trascuratezze umane e spirituali. Conosciamo

e sperimentiamo ombre, resistenze, disunioni, mancanza di comunicazione, fragilità, infedeltà…presenti nella nostra realtà esistenziale, portiamo tesori in vasi di creta, ma con questo Capitolo vogliamo continuare a sognare e a sperare. Vogliamo continuare a dire che noi tutti, come Missionari della Consolata, quelli di ieri e quelli di oggi, anziani e giovani, abbiamo ancora la capacità di donazione, di adorazione, di accoglienza e di creatività, di compassione, di solidarietà, di servizio amorevole, di consolazione, costantemente in cammino verso una maggiore pienezza.

“Se tu conoscessi il dono grande che Dio ti ha fatto chiamandoti in questo Istituto missionario! A questo dono seguirà un crescendo di altre grazie, che Gesù dal tabernacolo vi farà, se saprete apprezzare la vocazione e corrispondervi”. Giuseppe Allamano

Da ultimo, esprimo il mio stato d’animo davanti a questo Capitolo e al futuro della mia vita nell’Istituto. Faccio mio un pensiero del Fondatore che esprime, bene quanto sento e penso:

“E’ un poco che non ci vediamo più, perché ho avuto un malessere che mi ha costretto a star chiuso in camera, eppure il mondo è andato avanti senza di me, l’Istituto è andato bene senza di me. In questi casi, si medita, ed io ho meditato come non v’è nessun necessario: quando un’opera è di Dio, egli la fa procedere senza bisogno di alcuno.” Beato Giuseppe Allamano

Perdono a tutti e ad ognuno, grazie a tutti e ad ognuno e…confesso che ci ho provato e ce l’ho messa tutta!

Grazie, che la Consolata benedica l’Istituto, che il Beato Allamano e la Beata Irene illuminino questo Capitolo e tutti noi! Dio benedica l’Istituto e tutti voi!

A tutti e a ognuno: coraggio e avanti in Domino!

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CASA GENERALIZIA

P. Renzo Marcolongo, IMC

AGOSTO 2017

Ormai il tempo del Capitolo Generale con la presenza di tanti missionari qui in casa generalizia, è ormai un dolce ricordo. Poco alla volta i capitolari sono tornati alle loro missioni portando nel cuore la bellezza e profondità dell’esperienza del capitolo. È stato un continuo susseguirsi di viaggi all’aeroporto, ma l’atmosfera che si percepiva era sicuramente di fraternità, allegria e desiderio di tornare a casa e iniziare a vivere quello che il Capitolo ci ha offerto.

La casa è tornata alla normalità estiva, cioè senza tanti eventi straordinari. Tuttavia ci sono stati momenti importanti per noi e per i nostri missionari. Il padre Ariel Tosoni si è laureato in comunicazioni presso l’università Salesiana con una tesi interessante che ha ricevuto gli elogi non solo del relatore ma anche di altri accademici, oltre ad essere valutata con il massimo dei voti. Felicitazioni Ariel! Il quale adesso sta godendosi di meritate vacanze in patria prima di tornare in Costa d’Avorio. Poi ci sono stati i padri Cesar Balayulu e Tekele Lafamo che hanno ricevuto il diploma dall’università Gregoriana dopo aver terminato con successo i due anni di corso che li ha preparati al lavoro di formazione. La teoria adesso c’è, quello che manca è la pratica che ambedue inizieranno tra poco, Tekele in Etiopia e Cesar in Congo.

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ha visto passare diversi ospiti: il Card. John Njue dal Kenya, Mons. Giovanni Crippa dal Brasile e Mons. Anthony Mukobo dal Kenya. Poi molti padri: Antonio Magnante, Francesco Bernardi, Luciano Scaccia, Adolfo De Col, Matteo Pettinari accompagnato dal papà e la mamma, Paco Lopez e ultimo p. Orazio Anselmi venuto a Roma con una famiglia e un giovane diversamente abile che assieme a sua mamma, è stato ricevuto dal Papa.

Abbiamo salutato i consiglieri del “vecchio consiglio generale” partiti per le loro vacanze in attesa di destinazione futura. P. Salvador Medina è tornato in Colombia, p. Pendawazima in Tanzania, p. Ugo Pozzoli in Italia e p. Marco Marini ritornato in Etiopia. A tutti questi un grazie per il servizio che hanno fatto con amore all’Istituto e per la loro presenza fraterna qui in Casa Generalizia. Buona fortuna e auguri per il vostro futuro. I nuovi Consiglieri generali saranno in arrivo agli inizi di settembre e già da adesso diamo loro il benvenuto tra di noi. Abbiamo anche salutato il padre Paul Maina che torna in Kenya avendo terminato il suo servizio come formatore nel seminario di Bravetta. Paul se ne va e arriva p. José Martìn dalla Spagna come nuovo formatore del seminario di Bravetta. Benvenuto al padre Renzo Meneghini che viene da un lungo servizio in Etiopia e adesso destinato al gruppo di casa generalizia con sede alla comunità della Nomentana dove già risiedono i padri Giacomo Mazzotti e Vincenzo Salemi. Buona permanenza ai due nuovi arrivati.

L’estate a Roma è stata particolarmente afosa. Abbiamo avuto punte di oltre 40° e l’ultima pioggia che è scesa è stata del 24 maggio scorso. Nessuna sorpresa se la sindaco Raggi ha avuto in mente di razionare l’acqua a Roma, cosa che non è poi successa.

Tra poco i padri che studiano qui inizieranno il loro nuovo anno accademico e con questo comincerà anche la normalità di orario e servizi vari qui in casa generalizia. Tra poco l’estate sarà un ricordo.

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Foi numa capela repleta de familiares, vizinhos e amigos que, a 19 de agosto, no Azinhal (Cardigos), Pedro Louro, missionário da Consolata, celebrou os seus 25 anos de vocação e missão sacerdotal. Marcaram também presença na cerimónia sete missionários e três missionárias da Consolata. Pegando nas famosas palavras que resumem a vida e missão do primeiro cardeal sul-coreano, Estevão Kim, Pedro Louro usou o «Kamsa Hamnida» (Obrigado) e «Mian Hamnida» (Desculpem) para falar da sua vida como cristão e missionário. Agradeceu, em primeiro lugar a Deus, aos pais e restantes familiares. De Deus destacou a Sua fidelidade e consolação, dos familiares a sua presença e amor, sinais das maravilhas que Deus fez e faz na sua vida, juntamente com tantos amigos e irmãos missionários, bem como experiências que marcaram a sua vida.

Agradeceu também pelas vezes em que soube dizer «Sim», como Maria, nossa Mãe Consolata. Quanto ao «Desculpem», referiu as vezes em que não respondeu «Sim» aos convites de Deus a dar o melhor de si, nem por ser sempre presença de Deus que é esperança e consolação.

Foi uma cerimónia familiar, simples e sentida, cheia de emoção e amizade que se sentiam bem fortes, também durante o almoço convívio que se seguiu. Após 16 anos de intensa atividade missionária na Coreia do Sul, Pedro Louro trabalha há um ano em Roma (Itália), junto da direção geral do Instituto Missionário da Consolata, como secretário da mesma. Desejamos-lhe as maiores felicidades e que viva sempre a missão com a garra e paixão que lhe são característicos.

P. Álvaro Pacheco, IMC

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VITA NELLE CIRCOSCRIZIONI

It

al

ia

A pochi giorni dalla conclusione del Capitolo Generale riporto ciò che leggeremo nelle prime righe degli Atti Capitolari e che vogliono dare il tono ed il senso del cammino dell’Istituto per i prossimi sei anni.

“Il cuore della rivitalizzazione sta nel rinnovamento umano e spirituale di ogni missionario. Non si può realizzare la rivitalizzazione dell’Istituto se, alla base, non c’è lo sforzo di cambiare le cose dal di dentro. La rivitalizzazione ci trasforma in missionari entusiasti di evangelizzare chi ancora non conosce Cristo e testimoniarlo con la santità di vita”. (XIII Capitolo Generale).

Avremo tempo per approfondire e trovare i mezzi affinché questa rivitalizzazione segni la nostra vita e quella dell’Istituto. Il Signore ci trovi di cuore aperto e in atteggiamento di disponibilità nel lasciarci trasformare, convertire e santificare dal suo Spirito e dalla Missione per la quale un giorno ci siamo innamorati come lo è stato per tanti missionari ed in particolare per la Beata Irene Stefani.

La nostra vita personale e di comunità fatta di gioie e dolori non deve arrendersi, ma anzi fare in modo che di giorno in giorno si rinnovi con la luce che ci viene dalla Parola del Signore e con la forza che ci viene comunicata dall’Eucarestia. Da essa viene il dono della comunione che dobbiamo ricercare e costruire continuamente instaurando

P. Michelangelo Piovano, IMC

COMUNICAZIONE N. 10 – 2017

rapporti nuovi e veri in spirito di umiltà, di accoglienza, di ascolto e di corresponsabilità. Con questo spirito accogliamo anche la nuova Direzione Generale che guiderà l’Istituto nel prossimo sessennio e la ringraziamo per la disponibilità in questo servizio.

Formazione di base: Seminario di Bravetta

Viene costituita la nuova equipe Formativa del Seminario di Bravetta con la nomina del rettore da parte della Direzione Generale e la destinazione alla RI di P. Victor Kota. Questa l’equipe al completo con i nuovi destinati: P. Martín Ruiz José, Rettore del Seminario, P. Victor Kota Mukpekpe, P. Osorio Afonso Citora, P. Vincenzo Salemi e P. Gaetano Mazzoleni. Nell’anno 2017/2018 la comunità sarà composta di 18 professi e 5 missionari.

Ringraziamo padre Paul Maina per il servizio svolto in questi anni nel Seminario come rettore con tanta dedicazione e gli auguriamo ogni bene nella sua nuova destinazione al Kenya.

Costituzione Comunità Apostolica

Formativa

La Direzione Generale ha approvato la richiesta dell’apertura di una Comunità Apostolica Formativa (CAF) nella regione. Nell’attesa che

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Italia

la comunità venga ufficialmente istituita, si provvede a costituire l’equipe formativa il cui superiore sarà P. George Kibeu Wakhungu. Faranno anche parte dell’equipe: P. Gianfranco Testa, P. Bruno Bordin e Fr. Angelo Bruno. La comunità di Alpignano CAM, da settembre e in questo primo anno, accoglierà tutti i professi destinati alla Regione, sia per la CAF che per il Seminario di Bravetta, e che dovranno dedicarsi allo studio della lingua e all’inserimento nella realtà e cultura del paese.

ASI (Anno di Servizio all’Istituto)

I due professi che faranno l’anno di servizio nella Regione Italia sono stati destinati rispettivamente in queste comunità: Noé Joao Moreno alla comunità di Nervesa, Ditrick Julius Sanga alla comunità di Kielpin in Polonia.

Attività della Direzione -

formazione permanente

Aggiornamento sul XIII Capitolo

Generale e presentazione nelle comunità

Nel Consiglio Continentale dell’Europa si sono date alcune indicazioni sul modo come trasmettere i contenuti, gli insegnamenti e le linee operative del XIII Capitolo Generale. In incontri regionali, zonali e continentali dei prossimi mesi e di inizio anno 2018 fino alla Conferenza Regionale sarà fatta la riflessione e programmazione a partire dagli Atti del Capitolo e dal Progetto Missionario Continentale.

LA DIREZIONE GENERALE, HA NOMINATO P. NICHOLAS MUTHOKA

NYAMASYO, CONSIGLIERE DELLA REGIONE ITALIA.

A LUI I NOSTRI MIGLIORI AUGURI PER QUESTO ULTERIORE SERVIZIO

ALLA REGIONE INSIEME AL RINGRAZIAMENTO PER LA SUA

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Italia

Evangelizzazione/Animazione M. -

Promozione V. – Laicato missionario

Il tema di formazione per la pastorale giovanile per il prossimo anno sarà: Giovani – Fede- Discernimento vocazionale. Si ritiene importante rilanciare nuovamente le attività della Certosa ed utilizzare anche la casa del Cafasso a Castelnuovo per incontri e ritiri con i giovani. Valorizzare anche la presenza dei professi che saranno ad Alpignano inserendoli in alcune di queste attività.

Per il coordinamento della Pastorale Giovanile nella regione viene nominato P. Nicholas Muthoka Nyamasio.

Nella Regione Lazio si sta costituendo il gruppo del SUAM per l’animazione missionaria: è importante che anche da parte nostra possiamo essere presenti a partire dal seminario di Bravetta. La comunità di Bevera sta avviando un progetto per l’accoglienza di un nuovo gruppo di migranti nei locali dove sta già funzionando da alcuni anni uno SPRAR in collaborazione con una cooperativa che lavora in questo settore.

Milaico Nervesa: continua la preparazione del progetto di accoglienza di alcuni migranti in collaborazione con le parrocchie della zona e la famiglia Colombo da realizzarsi in una casa/ famiglia apposita per questo progetto.

Ringraziamo P. Antonio Rovelli per il suo prezioso servizio nel Consiglio e in varie attività della RI. Gli auguriamo un proficuo ed illuminato lavoro nella Direzione Generale e a servizio di tutto l’Istituto.

P. Michael Miano ha difeso in questi giorni la sua tesi presso la Pontificia Università Salesiana di Torino ed il 12 luglio parte per la Costa d’Avorio dove è stato destinato. Lo ringraziamo per la sua presenza e servizio in Casa Madre, in particola nel CAM, e chiediamo che la Consolata lo accompagni nella sua nuova destinazione e missione.

La nostra preghiera ed auguri anche al Diac.

Ricardo Layton Diaz che sarà ordinato sacerdote il 29 luglio 2017 in Colombia.

Anche il Diacono Gregory Nzau Musyoka ha difeso la sua tesi a Madrid e in breve partirà per il Kenya per l’ordinazione sacerdotale.

Nei prossimi mesi, sempre in Kenya, sarà anche ordinato il Diacono Antony Malila Malwe. Li affidiamo alla Consolata e chiediamo per loro la grazia di vivere sempre nella pienezza la vita sacerdotale e missionaria.

Dopo il Capitolo vari missionari hanno visitato le nostre comunità portando la loro testimonianza e condivisione sul loro lavoro e circoscrizioni da cui provengono.

L’estate, oltre ad essere un tempo di riposo, è anche tempo di incontri e campi in missione: per tutte queste attività animate dai nostri giovani missionari chiediamo la protezione del Fondatore e della Consolata.

Referências

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