ANIMA E PAESAGGIO IN ALBERTO CAEIRO E BERNARDO SOARES Federico Bertolazzi Università di Roma “Tor Vergata” Do I contradict myself? Well I’m large I contain multitudes Walt Whitmann Nella sua ammirevole antologia della poesia portoghese, il sommo Herberto Helder, oltre ad aver scelto un titolo favoloso, Edoi Lelia Doura, ha aggiunto un sottotitolo non meno significativo: Antologia das vozes comunicantes da poesia
moderna portuguesa1. A me piace molto questa idea della poesia come frutto di una
sorta di ambiente culturale che sembra trascendere lo spazio. Ed è da un’osmosi vocale di questo tipo che oggi prendo le mosse per parlare di un aspetto che mi interessa molto, e cioè fra la letteratura e il paesaggio, fra la parola come gesto estetico e il paesaggio come ambiente culturale, necessariamente visto e interpretato alla luce della sensibilità dell’io, che, come misto di tratti innati e tratti acquisiti, con infinita imprecisione, chiamo qui “anima.”
La relazione metaletteraria che mi serve da stimolo è quella stabilita da Sophia de Mello Breyner Andresen nella poesia “Cíclades (Evocando Fernando Pessoa)” che si apre così: “A claridade frontal do lugar impõe‐me a tua presença/ O teu nome emerge como se aqui/ O negativo que foste de ti se revelasse”2. Io trovo,
che se per un lato è curioso che un luogo sommamente chiaro evochi il principe della maschera (persona/pessoa), questo in realtà non deve stupire poi molto. In Sophia il paesaggio è paradigma dell’espressione e il nucleo della sua parola aspira all’essenzialità significante delle singole cose. Quando Sophia racconta l’epifania del suo mondo poetico dice “era a própria presença do real que eu descobria”3, e si
riferiva ad un mondo che, riconosciuto nella sua verità si stagliava nitidamente come paesaggio culturale e traeva dagli effluvi atlantici la sua intima maturazione mediterranea. Ma come mai, Sophia, al culmine della sua maturazione evoca proprio l’immensità oceanica di Pessoa? 1 Lisboa, Assírio e Alvim, 1985. 2 Dalla raccolta O nome das coisas, 1977, ora in Obra poética, LIsboa, Caminho, 2010, p. 601. La poesia si può leggere anche nella significativa antologia curata da Maria Andresen Sousa Tavares intitolata Os poemas sobre Pessoa, Lisboa, Caminho, 2012. 3 “Arte poética III”, 1964, ora in Obra poética, cit., pp. 841 sgg.
Tanto per cominciare possiamo rintracciare un punto in comune in Alberto Caeiro, nella cui poesia, o filosofia, visto che le due cose sembrano coincidere, lo sguardo di questo poeta, imperturbabilmente posato sopra il mondo, il suo sorridere di statua arcaica, hanno, in relazione al paesaggio, un’affinità sottile con l’atteggiamento di Sophia, e si può anche arrivare a rintracciare una certa influenza di quella che mi piace chiamare “metafisica statica” di Alberto Caeiro, con un evidente richiamo alla “metafisica das sensações” di José Gil4, nell’osservazione del mondo così nobilmente filtrato da Sophia; leggiamo uno dei Poemas inconjuntos5: A espantosa realidade das coisas É a minha descoberta de todos os dias. Cada coisa é o que é, E é difícil explicar a alguém quanto isso me alegra, E quanto isso me basta. Basta existir para se ser completo. (...) E acho que só para ouvir passar o vento vale a pena ter nascido. Il reale, la presenza delle cose, la loro intima trasparenza, il non pensare le cose, da un lato si esplicano, in Caeiro, in limpide, invidiabili, tautologie e, dall’altro lato, aspirano a un’integrità dello stesso tipo di quella identificata da Sophia, e per la quale lei inventa una parola nuova, cioè lo “estar‐ser‐inteiro inicial das coisas”6. Questa che ho chiamato metafisica statica, e si ricordino i versi : “Deito‐me ao comprido na erva/ E esqueço tudo quanto me ensinaram/ (...) O que me apontaram nunca estava ali: estava ali só o que ali estava”7, si oppone, in termini
sotrico‐letterari a quella metafisica, invece, estremamente dinamica, e che dominava il panorama letterario dei primi decenni del Novecento sotto l’egida saudosista di Teixeira de Pascoaes. Sono noti i versi quasi di ludibrio, riconducibili a questo ambito, che aprono la poesia XXVIII del Guardador de rebanhos8: 4 Fernando Pessoa ou a metafísica das sensações, Lisboa, Relógio d’Água, [sd]. 5 Alberto Caeiro, Poesia, Lisboa, Assírio e Alvim,20042, p. 104. 6 “Os Gregos”, Dual, 1972, in Obra, cit., p. 585. 7 Poesia, cit., p. 166. 8 Ibidem, p. 62.
Li hoje quase duas páginas Do livro de um poeta místico, E ri como quem tem chorado muito. Os poetas místicos são filósofos doentes, E os filósofos são homens doidos. Porque os poetas místicos dizem que as flores sentem E dizem que as pedras têm alma E que os rios têm êxtases ao luar. Mas as flores, se sentissem, não eram flores, Eram gente; E se as pedras tivessem alma, eram cousas vivas, não eram pedras; E se os rios tivessem êxtases ao luar, Os rios seriam homens doentes. É preciso não saber o que são flores e pedras e rios Para falar dos sentimentos deles. Falar da alma das pedras, das flores, dos rios, É falar de si próprio e dos seus falsos pensamentos. Graças a Deus que as pedras são só pedras, E que os rios não são senão rios, E que as flores são apenas flores. Por mim escrevo a prosa dos meus versos E fico contente, Porque sei que compreendo a Natureza por fora; E não a compreendo por dentro Porque a Natureza não tem dentro; Senão não era a Natureza.
In Caeiro il paesaggio diventa sensazione, è filtrato, assorbito, stilizzato, condotto all’osso della percezione e, se cede alla necessità di una filosofia, lo fa in questi stessi termini statici: poesia “XXX”9: Se quiserem que eu tenha um misticismo, está bem, tenho‐o. Sou místico, mas só com o corpo. A minha alma é simples e não pensa. O meu misticismo é não saber. É viver e não pensar nisso. Não sei o que é a Natureza: canto‐a. Vivo no cimo dum outeiro Numa casa caiada e sozinha, 9 Ibid., p. 65.
E essa é a minha definição.
Così dunque la metafisica di Caeiro passa attraverso una trasfigurazione del mondo operata non in senso trasformazionale, ma piuttosto nel senso opposto di un’affermazione dell’evidenza caparbiamente tautologica e per questo autosufficiente, il sensazionismo praticato da Caeiro potremmo dire che è la sua “explicação com o universo” (parole di Sophia10) ed è rilevante l’ultima quartina
della poesia appena citata per il tema che voglio trattare oggi: la definizione del poeta è affidata esclusivamente al paesaggio, in un quadretto, lasciatemelo dire, molto al modo delle “care cose di pessimo gusto” di gozzaniana memoria. Una specie di paesaggino di maniera che però recupera tutta la sua genuina primordialità grazie al sontuoso verso che lo introduce: “Não sei o que é a Natureza, canto‐a”. Sotto un’altra prospettiva anche il gregge, di cui si dice custode, appartiene a questo mondo delle sensazioni11: Sou um guardador de rebanhos O rebanho é os meus pensamentos E os meus pensamentos são todos sensações. (...) Por isso quando num dia de calor Me sinto triste de gozá‐lo tanto, E me deito ao comprido na erva, E fecho os olhos quentes, Sinto todo o meu corpo deitado na realidade, Sei a verdade e sou feliz. Il mondo interiore si vuole fatto di gesti spontanei, connaturati all’uomo e alle cose, e il mondo esterno lo definisce: “A minha alma só pode ser definida por termos de fora/ Por um empréstimo da realidade exterior do Mundo”12. Così si
spiega il rapporto tra anima e paesaggio, come influenza che dall’esterno si proietta all’interno ma che, lo vedremo ora, percorrerà anche il cammino inverso;
10 “Arte poética II”, Obra poética, cit., p. 839. 11 Poesia “IX”, in Poesia, cit., p. 42.
infatti il mondo esteriore si fa anche, a suo modo, paradigma espressivo. Il poeta, per cui l’unica esistenza possibile è quella “spontanea” dentro alle leggi di Natura, ha, fra le sue necessità, l’espressione, il dire, e in Caeiro, questo dire si vuole confacente alla restante filosofia, vediamo la poesia “XIV” del Guardador13, (p. 47): Não me importo com as rimas. Raras vezes Há duas árvores iguais, uma ao lado da outra. Penso e escrevo como as flores têm cor Mas com menos perfeição no meu modo de exprimir‐me Porque me falta a simplicidade divina De ser todo só o meu exterior. Olho e comovo‐me, Comovo‐me como a água corre quando o chão é inclinado E a minha poesia é natural como o levantar‐se vento...
Il risvolto metalinguistico di questa adesione alla naturalezza, alla spontaneità, a quella specie di immanenza che trascende tutte le cose e, caricandole di se stesse, le lascia profondamente trasfigurate in un ambiente che si fa assoluto in ogni sua più piccola manifestazione, è confermato in un breve brano in prosa in cui lo stesso Caeiro afferma14: Só a prosa é que se emenda. O verso nunca se emenda. A prosa é artificial. O verso é que é natural. Nós não falamos em prosa. Falamos em verso. Falamos em verso sem rima nem ritmo. Fazemos pausas na conversa que na leitura da prosa se não podem fazer. Falamos, sim, em verso, em verso natural − isto é, em verso sem rima nem ritmo, com as pausas do nosso fôlego e sentimento. Os meus versos são naturais porque são feitos assim... O verso ritmado e rimado é bastardo e ilegítimo. Dunque (con buona pace del povero borghese gentiluomo di Moliere), nel mondo di questo eteronimo l’incontro fra anima e paesaggio avviene in una specie di coincidenza della spontaneità di entrambi che si coagula nella parola, che, nella sua più profonda naturalezza si configura come “verso naturale”, come poesia la cui spontaneità riproduce quella del mondo vegetale, e il luogo migliore per vedere questo processo è sicuramente la poesia “XLVIII” del Guardador (p. 85):
13 Ibid., p. 47. 14 Ibid., p. 201.
Da mais alta janela da minha casa Com um lenço branco digo adeus Aos meus versos que partem para a humanidade. E não estou alegre nem triste. Esse é o destino dos versos. Escrevi‐os e devo mostrá‐los a todos Porque não posso fazer o contrário Como a flor não pode esconder a cor, Nem o rio esconder que corre, Nem a árvore esconder que dá fruto. Ei‐los que vão já longe como que na diligência E eu sem querer sinto pena Como uma dor no corpo. Quem sabe quem os lerá? Quem sabe a que mãos irão? Flor, colheu‐me o destino para os olhos. Árvore, arrancaram‐me os frutos para as bocas. Rio, o destino da minha água era não ficar em mim. Submeto‐me e sinto‐me quase alegre, Quase alegre como quem se cansa de estar triste. Ide, de mim! Passa a árvore e fica dispersa pela Natureza. Murcha a flor e o seu pó dura sempre. Corre o rio e entra no mar e a sua água é sempre a que foi sua. Passo e fico, como o Universo. Vi ritroviamo il paesaggio visto prima, nel quale si esplica tutta la potenza esistenziale, metafisica e mistica, come sopra definita, ma che nella poesia, dopo aver descritto la “despedida” dai suoi versi e dopo aver considerato la naturalezza della cosa, termina sigillando il gesto di saluto (con tanto di sventolio di fazzoletto) presente nell’incipit, con un perentorio “passo e fico, como o Universo”. Ecco dunque la consonanza di anima e paesaggio in cui l’uomo sembra appagato dal suo stesso vibrare al vento, incosciente eppure pienamente senziente. In questa esistenza che si vuole consustanziale al mondo naturale la parola letteraria si nutre di una linfa che la fa soggiacere con compiacimento alle leggi di Natura.
Di contro, troviamo in Bernardo Soares una sorta di contrappunto a questa filosofia che, nel Livro do desassossego, traccia una diversa relazione tra questi elementi, a cominciare da quel famoso incipit: “doem‐me a cabeça e o universo”, nel quale troviamo una consonanza molto più ampia tra mondo interiore e non più mondo naturale, troppo limitato, si direbbe, ma con il tutto. In questa “biografia senza fatti” attribuita all’aiutante contabile, così simile al suo creatore per molti aspetti, si trova la necessità di un’espressione che ha parecchio a che fare con il tema che sto affrontando. Tanto per cominciare, possiamo riferirci, a contrario, ai termini metalinguistici visti prima affrontati in una riflessione sul linguaggio chiaramente legata alla precedente (quella citata prima e che eleggeva il verso come sola espressione naturale, tanto per intenderci), proprio perché ad essa opposta. Dice Bernardo Soares nel f. 22715:
Considero o verso como uma coisa intermédia, uma passagem da música para a prosa. Como a música o verso é limitado por leis rítmicas, que, ainda que não sejam as leis rígidas do verso regular, existem todavia como resguardos, coacções, dispositivos automáticos de opressão e castigo. Na prosa falamos livres. Podemos incluir ritmos musicais e contudo pensar. Podemos incluir ritmos poéticos, e contudo estar fora deles. Um ritmo ocasional de verso não estorva a prosa; um ritmo ocasional de prosa faz tropeçar o verso.
(...)
Creio bem que, em um mundo civilizado perfeito, não haveria outra arte que não a prosa. Deixaríamos os poentes aos mesmos poentes, cuidando apenas, em arte, de os compreender verbalmente, assim os transmitindo em música inteligível de cor.
(...)
Até as artes menores, ou as que assim se podem chamar, se reflectem, múrmuras, na prosa. Há prosa que dança, que canta, que se declama a si mesma. Há ritmos verbais que são bailados, em que a ideia se desnuda sinuosamente, numa sensualidade translúcida e perfeita. E há também na prosa subtilezas convulsas em que um grande actor, o Verbo, transmuda ritmicamente em sua substância corpórea o mistério impalpável do universo. E in un altro frammento di riflessione sulla scrittura troviamo (f. 116): Escrever é esquecer. A literatura é a maneira mais agradável de ignorar a vida. 15 Cito dall’edizione a cura di Richard Zenith, Assírio e Alvim, 20013.
Siamo, decisamente, all’opposto di Alberto Caeiro ma, per usare un’espressione comune, siamo di fronte all’altra faccia della stessa medaglia. Il punto è lo stesso, siamo, costantemente, alle prese, tout court, con l’Universo (scritto spesso maiuscolo, così come “Natureza”). Allora il motto sensazionista “sentir tudo de todas as maneiras” (f. 131) ci ricollega alla metafisica caeiriana, anche se, in Soares, il rapporto con il reale si configura in maniera piuttosto diversa. In primo luogo, nel libro di Soares è un crogiolo di proiezioni mentali, di pensieri e di ipotesi dell’irrealtà che si costituisce come reale, come vero. Il reale, in Soares è il dominio dell’anima. Eppure, anche se ad un certo punto si legge “não acredito na paisagem” (f. 340), è proprio in una sorta di osmosi tra anima e paesaggio che la prosa di questo autore vibra sottilmente. Non sono molto numerosi i frammenti riconducibili a questo ambito, e chissà quali e quanti di essi sarebbero sopravvissuti a quella revisione del Livro che non si è mai data, ma ne citerò qualcuno partendo dal f. 51:
O céu negro ao fundo do sul do Tejo era sinistramente negro contra as asas, por contraste, vividamente brancas das gaivotas em voo inquieto. O dia, porém, não estava tempestuoso já. Toda a massa da ameaça da chuva passara por sobre a outra margem, e a cidade baixa, húmida ainda do pouco que chovera, sorria do chão a um céu cujo Norte se azulava ainda um pouco brancamente. O fresco da Primavera era levemente frio.
Numa hora como esta, vazia e imponderável, apraz‐me conduzir voluntariamente o pensamento para uma meditação que nada seja, mas que retenha, na sua limpidez de nula, qualquer coisa da frieza erma do dia esclarecido, com o fundo negro ao longe, e certas intuições, como gaivotas, evocando por contraste o mistério de tudo em grande negrume.
Il brano è tessuto di una sintassi ammirevole e meriterebbe un’analisi ben più profonda. Comunque, serve appieno per mostrare la tensione sottilissima della dizione esatta che conferisce alla letteratura uno status superiore di realtà assoluta, così come emerge dalla nota polemica che Pessoa‐Soares stabilisce con il diarista svizzero Amiel, nel f. 72: “Disse Amiel que uma paisagem é um estado de alma, mas a frase é uma felicidade frouxa de sonhador débil. Desde que a paisagem é paisagem, deixa de ser um estado de alma. (...) Mais certa seria dizer que um estado da alma é uma paisagem; haveria na frase a vantagem de não conter a mentira de uma teoria, mas tão‐somente a verdade de uma metáfora”.
Ed è affacciandosi su questa interiorità che l’uomo contemporaneo vacilla e trema davanti ai suoi dubbi: “Estas páginas, em que registo com uma clareza que dura para elas, agora mesmo as reli e me interrogo. Que é isto, e para que é isto? Quem sou quando sinto? Que coisa morro quando sou? (...) Como alguém que, de muito alto, tente distinguir as vidas do vale, eu assim mesmo me contemplo de um cimo, e sou, com tudo, uma paisagem indistinta e confusa” (f. 63). L’introiezione si spazializza e prende la forma dell’inquietudine con i colori del mondo naturale che, nella metafora, inaugurano il Reale. E, nel momento in cui la debolezza incalza, interviene il reale a sostegno della stessa inquietudine: “A razão por que tantas vezes interrompo um pensamento com um trecho de paisagem, que de algum modo se integra no esquema, real ou suposto, das minhas impressões, é que essa paisagem é uma porta por onde fujo ao conhecimento da minha impotência criadora” (f. 152), come se l’impossibilità di creare un Reale assoluto potesse essere parzialmente risolta ricorrendo al reale quotidiano che si fa anche metafora autoreferenziale di una sorta di stanchezza ontologica insita nel pensiero (f. 43):
Há um cansaço da inteligência abstracta, e é o mais horroroso dos cansaços. Não pesa como os cansaços do corpo, nem inquieta como o cansaço do conhecimento pela emoção. É um peso da consciência do mundo, um não poder respirar com a alma.
Então, como se o vento nelas desse, e fossem nuvens, todas as ideias em que temos sentido a vida, todas as ambições e desígnios em que temos fundado a esperança na continuação dela, se rasgam, se abrem, se afastam tornadas cinzas de nevoeiros, farrapos do que não foi nem poderia ser. E por detrás da derrota surge pura a solidão negra e implacável do céu deserto e estrelado.
Il paesaggio, dunque, è in costante relazione con il mondo interiore, proiettandovisi come abisso o risucchiandolo come ineffabilità:
Tudo vem de fora e a mesma alma humana não é porventura mais que o raio de sol que brilha e isola do chão onde jaz o monte de estrume que é o corpo.
(...) Assim sou. Quando quero pensar, vejo. Quando quero descer na minha alma, fico de repente parado, esquecido, no começo do espiral, vendo pela janela do andar alto o sol que molha de despedida fulva o aglomerado difuso dos telhados.
Allora pensare è la creazione suprema e l’esistenza tutta si gioca sul filo della possibilità e l’uomo si staglia sullo sfondo del paesaggio in una geografia che
si fa teatro dell’inquietudine — “absurdemos a vida de leste a oeste”, si legge nel f. 372 — e, come è noto, lo stesso Soares inserisce fra queste coordinate una metafora spaziale in cui la geografia è figlia della dizione: “Minha pátria é a língua portuguesa”.
Così capiamo che cosa voglia significare quando dice (f. 228):
Tudo se penetra. A leitura dos clássicos, que não falam de poentes, tem‐me tornado inteligíveis muitos poentes, em todas as suas cores. Há uma relação entre a competência sintáctica, pela qual se distingue a valia dos seres, dos sons e das formas, e a capacidade de compreender quando o azul do céu é realmente verde, e que parte de amarelo existe no verde azul do céu.
No fundo é a mesma coisa — a capacidade de distinguir e de subtilizar. Sem sintaxe não há emoção duradoura. A imortalidade é uma função dos gramáticos.
Torniamo allora con la mente a quei passi citati prima in cui una sintassi fulgida serve la precisione della conoscenza che, seppure collocata nel “rovescio della vita” (parole di Sophia de Mello Breyner Andresen16), si fa paradigma di
un’esistenza piena condotta sul filo della parola, unico strumento capace di restituire davvero la complessità dell’universo e di porre l’uomo in uno status di creatore assoluto. Dunque, per recuperare la metafora fotografica di Sophia de Mello, Caeiro e Soares si accompagnano come il negativo e il positivo di un’immagine in cui anima e pasaggio si proiettano alternatamente l’una nell’altro.
16 “Tre poeti portoghesi del nostro tempo: scrittura e vita”, a cura di B. De Cusatis «Annali della