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Federico Bertolazzi Università di Roma Tor Vergata

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Academic year: 2021

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(1)

ANIMA
E
PAESAGGIO
IN
ALBERTO
CAEIRO
E
BERNARDO
SOARES
 Federico
Bertolazzi
 Università
di
Roma
“Tor
Vergata”
 
 Do
I
contradict
myself?
Well
I’m
 large
I
contain
multitudes
 Walt
Whitmann
 
 Nella
sua
ammirevole
antologia
della
poesia
portoghese,
il
sommo
Herberto
 Helder,
 oltre
 ad
 aver
 scelto
 un
 titolo
 favoloso,
 Edoi
 Lelia
 Doura,
 ha
 aggiunto
 un
 sottotitolo
 non
 meno
 significativo:
 Antologia
 das
 vozes
 comunicantes
 da
 poesia


moderna
portuguesa1.
A
me
piace
molto
questa
idea
della
poesia
come
frutto
di
una


sorta
di
ambiente
culturale
che
sembra
trascendere
lo
spazio.
Ed
è
da
un’osmosi
 vocale
 di
 questo
 tipo
 che
 oggi
 prendo
 le
 mosse
 per
 parlare
 di
 un
 aspetto
 che
 mi
 interessa
 molto,
 e
 cioè
 fra
 la
 letteratura
 e
 il
 paesaggio,
 fra
 la
 parola
 come
 gesto
 estetico
 e
 il
 paesaggio
 come
 ambiente
 culturale,
 necessariamente
 visto
 e
 interpretato
alla
luce
della
sensibilità
dell’io,
che,
come
misto
di
tratti
innati
e
tratti
 acquisiti,
con
infinita
imprecisione,
chiamo
qui
“anima.”


La
 relazione
 metaletteraria
 che
 mi
 serve
 da
 stimolo
 è
 quella
 stabilita
 da
 Sophia
 de
 Mello
 Breyner
 Andresen
 nella
 poesia
 “Cíclades
 (Evocando
 Fernando
 Pessoa)”
che
si
apre
così:
“A
claridade
frontal
do
lugar
impõe‐me
a
tua
presença/
O
 teu
nome
emerge
como
se
aqui/
O
negativo
que
foste
de
ti
se
revelasse”2.
Io
trovo,


che
 se
 per
 un
 lato
 è
 curioso
 che
 un
 luogo
 sommamente
 chiaro
 evochi
 il
 principe
 della
 maschera
 (persona/pessoa),
 questo
 in
 realtà
 non
 deve
 stupire
 poi
 molto.
 In
 Sophia
il
paesaggio
è
paradigma
dell’espressione
e
il
nucleo
della
sua
parola
aspira
 all’essenzialità
 significante
 delle
 singole
 cose.
 Quando
 Sophia
 racconta
 l’epifania
 del
suo
mondo
poetico
dice
“era
a
própria
presença
do
real
que
eu
descobria”3,
e
si


riferiva
 ad
 un
 mondo
 che,
 riconosciuto
 nella
 sua
 verità
 si
 stagliava
 nitidamente
 come
paesaggio
culturale
e
traeva
dagli
effluvi
atlantici
la
sua
intima
maturazione
 mediterranea.
 Ma
 come
 mai,
 Sophia,
 al
 culmine
 della
 sua
 maturazione
 evoca
 proprio
l’immensità
oceanica
di
Pessoa?
 





 1
Lisboa,
Assírio
e
Alvim,
1985.
 2
Dalla
raccolta
O
nome
das
coisas,
1977,
ora
in
Obra
poética,
LIsboa,
Caminho,
2010,
p.
601.
La
 poesia
si
può
leggere
anche
nella
significativa
antologia
curata
da
Maria
Andresen
Sousa
Tavares
 intitolata
Os
poemas
sobre
Pessoa,
Lisboa,
Caminho,
2012.
 3
“Arte
poética
III”,
1964,
ora
in
Obra
poética,
cit.,
pp.
841
sgg.


(2)

Tanto
per
cominciare
possiamo
rintracciare
un
punto
in
comune
in
Alberto
 Caeiro,
 nella
 cui
 poesia,
 o
 filosofia,
 visto
 che
 le
 due
 cose
 sembrano
 coincidere,
 lo
 sguardo
 di
 questo
 poeta,
 imperturbabilmente
 posato
 sopra
 il
 mondo,
 il
 suo
 sorridere
di
statua
arcaica,
hanno,
in
relazione
al
paesaggio,
un’affinità
sottile
con
 l’atteggiamento
di
Sophia,
e
si
può
anche
arrivare
a
rintracciare
una
certa
influenza
 di
 quella
 che
 mi
 piace
 chiamare
 “metafisica
 statica”
 di
 Alberto
 Caeiro,
 con
 un
 evidente
richiamo
alla
“metafisica
das
sensações”
di
José
Gil4,
nell’osservazione
del
 mondo
così
nobilmente
filtrato
da
Sophia;
leggiamo
uno
dei
Poemas
inconjuntos5:
 
 A
espantosa
realidade
das
coisas
 É
a
minha
descoberta
de
todos
os
dias.
 Cada
coisa
é
o
que
é,
 E
é
difícil
explicar
a
alguém
quanto
isso
me
alegra,
 E
quanto
isso
me
basta.
 
 Basta
existir
para
se
ser
completo.
 
 (...)
 E
acho
que
só
para
ouvir
passar
o
vento
vale
a
pena
ter
nascido.
 
 Il
reale,
la
presenza
delle
cose,
la
loro
intima
trasparenza,
il
non
pensare
le
 cose,
da
un
lato
si
esplicano,
in
Caeiro,
in
limpide,
invidiabili,
tautologie
e,
dall’altro
 lato,
aspirano
a
un’integrità
dello
stesso
tipo
di
quella
identificata
da
Sophia,
e
per
 la
quale
lei
inventa
una
parola
nuova,
cioè
lo
“estar‐ser‐inteiro
inicial
das
coisas”6.

 Questa
che
ho
chiamato
metafisica
statica,
e
si
ricordino
i
versi
:
“Deito‐me
 ao
 comprido
 na
 erva/
 E
 esqueço
 tudo
 quanto
 me
 ensinaram/
 (...)
 O
 que
 me
 apontaram
nunca
estava
ali:
estava
ali
só
o
que
ali
estava”7,
si
oppone,
in
termini


sotrico‐letterari
 a
 quella
 metafisica,
 invece,
 estremamente
 dinamica,
 e
 che
 dominava
 il
 panorama
 letterario
 dei
 primi
 decenni
 del
 Novecento
 sotto
 l’egida
 saudosista
di
Teixeira
de
Pascoaes.
Sono
noti
i
versi
quasi
di
ludibrio,
riconducibili
 a
questo
ambito,
che
aprono
la
poesia
XXVIII
del
Guardador
de
rebanhos8:
 
 





 4
Fernando
Pessoa
ou
a
metafísica
das
sensações,
Lisboa,
Relógio
d’Água,
[sd].
 5
Alberto
Caeiro,
Poesia,
Lisboa,
Assírio
e
Alvim,20042,
p.
104.

 6
“Os
Gregos”,
Dual,
1972,
in
Obra,
cit.,
p.
585.
 7
Poesia,
cit.,
p.
166.
 8
Ibidem,
p.
62.


(3)

Li
hoje
quase
duas
páginas
 Do
livro
de
um
poeta
místico,
 E
ri
como
quem
tem
chorado
muito.
 
 Os
poetas
místicos
são
filósofos
doentes,
 E
os
filósofos
são
homens
doidos.
 
 Porque
os
poetas
místicos
dizem
que
as
flores
sentem
 E
dizem
que
as
pedras
têm
alma
 E
que
os
rios
têm
êxtases
ao
luar.
 
 Mas
as
flores,
se
sentissem,
não
eram
flores,
 Eram
gente;
 E
se
as
pedras
tivessem
alma,
eram
cousas
vivas,
não
eram
pedras;
 E
se
os
rios
tivessem
êxtases
ao
luar,
 Os
rios
seriam
homens
doentes.
 
 É
preciso
não
saber
o
que
são
flores
e
pedras
e
rios
 Para
falar
dos
sentimentos
deles.
 Falar
da
alma
das
pedras,
das
flores,
dos
rios,
 É
falar
de
si
próprio
e
dos
seus
falsos
pensamentos.
 Graças
a
Deus
que
as
pedras
são
só
pedras,
 E
que
os
rios
não
são
senão
rios,
 E
que
as
flores
são
apenas
flores.
 
 Por
mim
escrevo
a
prosa
dos
meus
versos
 E
fico
contente,
 Porque
sei
que
compreendo
a
Natureza
por
fora;
 E
não
a
compreendo
por
dentro
 Porque
a
Natureza
não
tem
dentro;
 Senão
não
era
a
Natureza.

 


In
 Caeiro
 il
 paesaggio
 diventa
 sensazione,
 è
 filtrato,
 assorbito,
 stilizzato,
 condotto
all’osso
della
percezione
e,
se
cede
alla
necessità
di
una
filosofia,
lo
fa
in
 questi
stessi
termini
statici:
poesia
“XXX”9:
 
 Se
quiserem
que
eu
tenha
um
misticismo,
está
bem,
tenho‐o.
 Sou
místico,
mas
só
com

o
corpo.
 A
minha
alma
é
simples
e
não
pensa.
 
 O
meu
misticismo
é
não
saber.
 É
viver
e
não
pensar
nisso.
 
 Não
sei
o
que
é
a
Natureza:
canto‐a.
 Vivo
no
cimo
dum
outeiro
 Numa
casa
caiada
e
sozinha,
 





 9
Ibid.,
p.
65.


(4)

E
essa
é
a
minha
definição.
 


Così
dunque
la
metafisica
di
Caeiro
passa
attraverso
una
trasfigurazione
del
 mondo
operata
non
in
senso
trasformazionale,
ma
piuttosto
nel
senso
opposto
di
 un’affermazione
 dell’evidenza
 caparbiamente
 tautologica
 e
 per
 questo
 autosufficiente,
 il
 sensazionismo
 praticato
 da
 Caeiro
 potremmo
 dire
 che
 è
 la
 sua
 “explicação
 com
 o
 universo”
 (parole
 di
 Sophia10)
 ed
 è
 rilevante
 l’ultima
 quartina


della
 poesia
 appena
 citata
 per
 il
 tema
 che
 voglio
 trattare
 oggi:
 la
 definizione
 del
 poeta
 è
 affidata
 esclusivamente
 al
 paesaggio,
 in
 un
 quadretto,
 lasciatemelo
 dire,
 molto
 al
 modo
 delle
 “care
 cose
 di
 pessimo
 gusto”
 di
 gozzaniana
 memoria.
 Una
 specie
 di
 paesaggino
 di
 maniera
 che
 però
 recupera
 tutta
 la
 sua
 genuina
 primordialità
 grazie
 al
 sontuoso
 verso
 che
 lo
 introduce:
 “Não
 sei
 o
 que
 é
 a
 Natureza,
canto‐a”.

 Sotto
un’altra
prospettiva
anche
il
gregge,
di
cui
si
dice
custode,
appartiene
 a
questo
mondo
delle
sensazioni11:
 
 Sou
um
guardador
de
rebanhos
 O
rebanho
é
os
meus
pensamentos
 E
os
meus
pensamentos
são
todos
sensações.
 
 (...)
 
 Por
isso
quando
num
dia
de
calor
 Me
sinto
triste
de
gozá‐lo
tanto,
 E
me
deito
ao
comprido
na
erva,
 E
fecho
os
olhos
quentes,
 Sinto
todo
o
meu
corpo
deitado
na
realidade,
 Sei
a
verdade
e
sou
feliz.
 
 Il
mondo
interiore
si
vuole
fatto
di
gesti
spontanei,
connaturati
all’uomo
e
 alle
cose,
e
il
mondo
esterno
lo
definisce:
“A
minha
alma
só
pode
ser
definida
por
 termos
 de
 fora/
 Por
 um
 empréstimo
 da
 realidade
 exterior
 do
 Mundo”12.
 Così
 si


spiega
 il
 rapporto
 tra
 anima
 e
 paesaggio,
 come
 influenza
 che
 dall’esterno
 si
 proietta
all’interno
ma
che,
lo
vedremo
ora,
percorrerà
anche
il
cammino
inverso;










10
“Arte
poética
II”,
Obra
poética,
cit.,
p.
839.
 11
Poesia
“IX”,
in
Poesia,
cit.,
p.
42.


(5)

infatti
il
mondo
esteriore
si
fa
anche,
a
suo
modo,
paradigma
espressivo.
Il
poeta,
 per
cui
l’unica
esistenza
possibile
è
quella
“spontanea”
dentro
alle
leggi
di
Natura,
 ha,
 fra
 le
 sue
 necessità,
 l’espressione,
 il
 dire,
 e
 in
 Caeiro,
 questo
 dire
 si
 vuole
 confacente
alla
restante
filosofia,
vediamo
la
poesia
“XIV”
del
Guardador13,
(p.
47):
 
 Não
me
importo
com
as
rimas.
Raras
vezes
 Há
duas
árvores
iguais,
uma
ao
lado
da
outra.
 Penso
e
escrevo
como
as
flores
têm
cor
 Mas
com
menos
perfeição
no
meu
modo
de
exprimir‐me
 Porque
me
falta
a
simplicidade
divina
 De
ser
todo
só
o
meu
exterior.
 
 Olho
e
comovo‐me,
 Comovo‐me
como
a
água
corre
quando
o
chão
é
inclinado
 E
a
minha
poesia
é
natural
como
o
levantar‐se
vento...

 


Il
 risvolto
 metalinguistico
 di
 questa
 adesione
 alla
 naturalezza,
 alla
 spontaneità,
 a
 quella
 specie
 di
 immanenza
 che
 trascende
 tutte
 le
 cose
 e,
 caricandole
di
se
stesse,
le
lascia
profondamente
trasfigurate
in
un
ambiente
che
si
 fa
assoluto
in
ogni
sua
più
piccola
manifestazione,
è
confermato
in
un
breve
brano
 in
prosa
in
cui
lo
stesso
Caeiro
afferma14:

 
 Só
a
prosa
é
que
se
emenda.
O
verso
nunca
se
emenda.
A
prosa
é
artificial.
O
 verso
é
que
é
natural.
Nós
não
falamos
em
prosa.
Falamos
em
verso.
Falamos
em
 verso
sem
rima
nem
ritmo.
Fazemos
pausas
na
conversa
que
na
leitura
da
prosa
se
 não
podem
fazer.
Falamos,
sim,
em
verso,
em
verso
natural
−
isto
é,
em
verso
sem
 rima
nem
ritmo,
com
as
pausas
do
nosso
fôlego
e
sentimento.
 Os
meus
versos
são
naturais
porque
são
feitos
assim...
 O
verso
ritmado
e
rimado
é
bastardo
e
ilegítimo.
 
 Dunque
(con
buona
pace
del
povero
borghese
gentiluomo
di
Moliere),
nel
 mondo
di
questo
eteronimo
l’incontro
fra
anima
e
paesaggio
avviene
in
una
specie
 di
coincidenza
della
spontaneità
di
entrambi
che
si
coagula
nella
parola,
che,
nella
 sua
 più
 profonda
 naturalezza
 si
 configura
 come
 “verso
 naturale”,
 come
 poesia
 la
 cui
spontaneità
riproduce
quella
del
mondo
vegetale,
e
il
luogo
migliore
per
vedere
 questo
processo
è
sicuramente
la
poesia
“XLVIII”
del
Guardador
(p.
85):











13
Ibid.,
p.
47.
 14
Ibid.,
p.
201.


(6)


 Da
mais
alta
janela
da
minha
casa
 Com
um
lenço
branco
digo
adeus
 Aos
meus
versos
que
partem
para
a
humanidade.
 
 E
não
estou
alegre
nem
triste.
 Esse
é
o
destino
dos
versos.
 Escrevi‐os
e
devo
mostrá‐los
a
todos
 Porque
não
posso
fazer
o
contrário
 Como
a
flor
não
pode
esconder
a
cor,
 Nem
o
rio
esconder
que
corre,
 Nem
a
árvore
esconder
que
dá
fruto.
 
 Ei‐los
que
vão
já
longe
como
que
na
diligência
 E
eu
sem
querer
sinto
pena
 Como
uma
dor
no
corpo.
 
 Quem
sabe
quem
os
lerá?
 Quem
sabe
a
que
mãos
irão?
 
 Flor,
colheu‐me
o
destino
para
os
olhos.
 Árvore,
arrancaram‐me
os
frutos
para
as
bocas.
 Rio,
o
destino
da
minha
água
era
não
ficar
em
mim.
 Submeto‐me
e
sinto‐me
quase
alegre,
 Quase
alegre
como
quem
se
cansa
de
estar
triste.
 Ide,
de
mim!
 Passa
a
árvore
e
fica
dispersa
pela
Natureza.
 Murcha
a
flor
e
o
seu
pó
dura
sempre.
 Corre
o
rio
e
entra
no
mar
e
a
sua
água
é
sempre
a
que
foi
sua.
 
 Passo
e
fico,
como
o
Universo.

 
 Vi
ritroviamo
il
paesaggio
visto
prima,
nel
quale
si
esplica
tutta
la
potenza
 esistenziale,
 metafisica
 e
 mistica,
 come
 sopra
 definita,
 ma
 che
 nella
 poesia,
 dopo
 aver
descritto
la
“despedida”
dai
suoi
versi
e
dopo
aver
considerato
la
naturalezza
 della
cosa,
termina
sigillando
il
gesto
di
saluto
(con
tanto
di
sventolio
di
fazzoletto)
 presente
 nell’incipit,
 con
 un
 perentorio
 “passo
 e
 fico,
 como
 o
 Universo”.
 Ecco
 dunque
la
consonanza
di
anima
e
paesaggio
in
cui
l’uomo
sembra
appagato
dal
suo
 stesso
 vibrare
 al
 vento,
 incosciente
 eppure
 pienamente
 senziente.
 In
 questa
 esistenza
che
si
vuole
consustanziale
al
mondo
naturale
la
parola
letteraria
si
nutre
 di
una
linfa
che
la
fa
soggiacere
con
compiacimento
alle
leggi
di
Natura.



(7)

Di
contro,
troviamo
in
Bernardo
Soares
una
sorta
di
contrappunto
a
questa
 filosofia
 che,
 nel
 Livro
 do
 desassossego,
 traccia
 una
 diversa
 relazione
 tra
 questi
 elementi,
 a
 cominciare
 da
 quel
 famoso
 incipit:
 “doem‐me
 a
 cabeça
 e
 o
 universo”,
 nel
quale
troviamo
una
consonanza
molto
più
ampia
tra
mondo
interiore
e
non
più
 mondo
 naturale,
 troppo
 limitato,
 si
 direbbe,
 ma
 con
 il
 tutto.
 In
 questa
 “biografia
 senza
 fatti”
 attribuita
 all’aiutante
 contabile,
 così
 simile
 al
 suo
 creatore
 per
 molti
 aspetti,
 si
 trova
 la
 necessità
 di
 un’espressione
 che
 ha
 parecchio
 a
 che
 fare
 con
 il
 tema
che
sto
affrontando.
Tanto
per
cominciare,
possiamo
riferirci,
a
contrario,
ai
 termini
 metalinguistici
 visti
 prima
 affrontati
 in
 una
 riflessione
 sul
 linguaggio
 chiaramente
 legata
 alla
 precedente
 (quella
 citata
 prima
 e
 che
 eleggeva
 il
 verso
 come
 sola
 espressione
 naturale,
 tanto
 per
 intenderci),
 proprio
 perché
 ad
 essa
 opposta.
Dice
Bernardo
Soares
nel
f.
22715:


Considero
o
verso
como
uma
coisa
intermédia,
uma
passagem
da
música
para
 a
 prosa.
 Como
 a
 música
 o
 verso
 é
 limitado
 por
 leis
 rítmicas,
 que,
 ainda
 que
 não
 sejam
as
leis
rígidas
do
verso
regular,
existem
todavia
como
resguardos,
coacções,
 dispositivos
automáticos
de
opressão
e
castigo.
Na
prosa
falamos
livres.
Podemos
 incluir
 ritmos
 musicais
 e
 contudo
 pensar.
 Podemos
 incluir
 ritmos
 poéticos,
 e
 contudo
 estar
 fora
 deles.
 Um
 ritmo
 ocasional
 de
 verso
 não
 estorva
 a
 prosa;
 um
 ritmo
ocasional
de
prosa
faz
tropeçar
o
verso.


(...)


Creio
bem
que,
em
um
mundo
civilizado
perfeito,
não
haveria
outra
arte
que
 não
 a
 prosa.
 Deixaríamos
 os
 poentes
 aos
 mesmos
 poentes,
 cuidando
 apenas,
 em
 arte,
de
os
compreender
verbalmente,
assim
os
transmitindo
em
música
inteligível
 de
cor.



(...)


Até
 as
 artes
 menores,
 ou
 as
 que
 assim
 se
 podem
 chamar,
 se
 reflectem,
 múrmuras,
na
prosa.
Há
prosa
que
dança,
que
canta,
que
se
declama
a
si
mesma.
 Há
 ritmos
 verbais
 que
 são
 bailados,
 em
 que
 a
 ideia
 se
 desnuda
 sinuosamente,
 numa
 sensualidade
 translúcida
 e
 perfeita.
 E
 há
 também
 na
 prosa
 subtilezas
 convulsas
 em
 que
 um
 grande
 actor,
 o
 Verbo,
 transmuda
 ritmicamente
 em
 sua
 substância
corpórea
o
mistério
impalpável
do
universo.

 
 E
in
un
altro
frammento
di
riflessione
sulla
scrittura
troviamo
(f.
116):
 
 Escrever
é
esquecer.
A
literatura
é
a
maneira
mais
agradável
de
ignorar
a
vida.


 
 





 15
Cito
dall’edizione
a
cura
di
Richard
Zenith,
Assírio
e
Alvim,
20013.


(8)

Siamo,
 decisamente,
 all’opposto
 di
 Alberto
 Caeiro
 ma,
 per
 usare
 un’espressione
 comune,
 siamo
 di
 fronte
 all’altra
 faccia
 della
 stessa
 medaglia.
 Il
 punto
 è
 lo
 stesso,
 siamo,
 costantemente,
 alle
 prese,
 tout
 court,
 con
 l’Universo
 (scritto
 spesso
 maiuscolo,
 così
 come
 “Natureza”).
 Allora
 il
 motto
 sensazionista
 “sentir
 tudo
 de
 todas
 as
 maneiras”
 (f.
 131)
 ci
 ricollega
 alla
 metafisica
 caeiriana,
 anche
 se,
 in
 Soares,
 il
 rapporto
 con
 il
 reale
 si
 configura
 in
 maniera
 piuttosto
 diversa.
In
primo
luogo,
nel
libro
di
Soares
è
un
crogiolo
di
proiezioni
mentali,
di
 pensieri
e
di
ipotesi
dell’irrealtà
che
si
costituisce
come
reale,
come
vero.
Il
reale,
in
 Soares
è
il
dominio
dell’anima.
Eppure,
anche
se
ad
un
certo
punto
si
legge
“não
 acredito
 na
 paisagem”
 (f.
 340),
 è
 proprio
 in
 una
 sorta
 di
 osmosi
 tra
 anima
 e
 paesaggio
 che
 la
 prosa
 di
 questo
 autore
 vibra
 sottilmente.
 Non
 sono
 molto
 numerosi
i
frammenti
riconducibili
a
questo
ambito,
e
chissà
quali
e
quanti
di
essi
 sarebbero
sopravvissuti
a
quella
revisione
del
Livro
che
non
si
è
mai
data,
ma
ne
 citerò
qualcuno
partendo
dal
f.
51:


O
 céu
 negro
 ao
 fundo
 do
 sul
 do
 Tejo
 era
 sinistramente
 negro
 contra
 as
 asas,
 por
 contraste,
 vividamente
 brancas
 das
 gaivotas
 em
 voo
 inquieto.
 O
 dia,
 porém,
 não
estava
tempestuoso
já.
Toda
a
massa
da
ameaça
da
chuva
passara
por
sobre
a
 outra
 margem,
 e
 a
 cidade
 baixa,
 húmida
 ainda
 do
 pouco
 que
 chovera,
 sorria
 do
 chão
 a
 um
 céu
 cujo
 Norte
 se
 azulava
 ainda
 um
 pouco
 brancamente.
 O
 fresco
 da
 Primavera
era
levemente
frio.


Numa
 hora
 como
 esta,
 vazia
 e
 imponderável,
 apraz‐me
 conduzir
 voluntariamente
 o
 pensamento
 para
 uma
 meditação
 que
 nada
 seja,
 mas
 que
 retenha,
na
sua
limpidez
de
nula,
qualquer
coisa
da
frieza
erma
do
dia
esclarecido,
 com
 o
 fundo
 negro
 ao
 longe,
 e
 certas
 intuições,
 como
 gaivotas,
 evocando
 por
 contraste
o
mistério
de
tudo
em
grande
negrume.



Il
brano
è
tessuto
di
una
sintassi
ammirevole
e
meriterebbe
un’analisi
ben
 più
profonda.
Comunque,
serve
appieno
per
mostrare
la
tensione
sottilissima
della
 dizione
 esatta
 che
 conferisce
 alla
 letteratura
 uno
 status
 superiore
 di
 realtà
 assoluta,
così
come
emerge
dalla
nota
polemica
che
Pessoa‐Soares
stabilisce
con
il
 diarista
svizzero
Amiel,
nel
f.
72:
“Disse
Amiel
que
uma
paisagem
é
um
estado
de
 alma,
mas
a
frase
é
uma
felicidade
frouxa
de
sonhador
débil.
Desde
que
a
paisagem
 é
 paisagem,
 deixa
 de
 ser
 um
 estado
 de
 alma.
 (...)
 Mais
 certa
 seria
 dizer
 que
 um
 estado
 da
 alma
 é
 uma
 paisagem;
 haveria
 na
 frase
 a
 vantagem
 de
 não
 conter
 a
 mentira
de
uma
teoria,
mas
tão‐somente
a
verdade
de
uma
metáfora”.


(9)

Ed
è
affacciandosi
su
questa
interiorità
che
l’uomo
contemporaneo
vacilla
e
 trema
davanti
ai
suoi
dubbi:
“Estas
páginas,
em
que
registo
com
uma
clareza
que
 dura
para
elas,
agora
mesmo
as
reli
e
me
interrogo.
Que
é
isto,
e
para
que
é
isto?
 Quem
sou
quando
sinto?
Que
coisa
morro
quando
sou?
(...)
Como
alguém
que,
de
 muito
alto,
tente
distinguir
as
vidas
do
vale,
eu
assim
mesmo
me
contemplo
de
um
 cimo,
e
sou,
com
tudo,
uma
paisagem
indistinta
e
confusa”
(f.
63).
L’introiezione
si
 spazializza
e
prende
la
forma
dell’inquietudine
con
i
colori
del
mondo
naturale
che,
 nella
 metafora,
 inaugurano
 il
 Reale.
 E,
 nel
 momento
 in
 cui
 la
 debolezza
 incalza,
 interviene
 il
 reale
 a
 sostegno
 della
 stessa
 inquietudine:
 “A
 razão
 por
 que
 tantas
 vezes
 interrompo
 um
 pensamento
 com
 um
 trecho
 de
 paisagem,
 que
 de
 algum
 modo
se
integra
no
esquema,
real
ou
suposto,
das
minhas
impressões,
é
que
essa
 paisagem
 é
 uma
 porta
 por
 onde
 fujo
 ao
 conhecimento
 da
 minha
 impotência
 criadora”
 (f.
 152),
 come
 se
 l’impossibilità
 di
 creare
 un
 Reale
 assoluto
 potesse
 essere
parzialmente
risolta
ricorrendo
al
reale
quotidiano
che
si
fa
anche
metafora
 autoreferenziale
di
una
sorta
di
stanchezza
ontologica
insita
nel
pensiero
(f.
43):



Há
 um
 cansaço
 da
 inteligência
 abstracta,
 e
 é
 o
 mais
 horroroso
 dos
 cansaços.
 Não
 pesa
 como
 os
 cansaços
 do
 corpo,
 nem
 inquieta
 como
 o
 cansaço
 do
 conhecimento
 pela
 emoção.
 É
 um
 peso
 da
 consciência
 do
 mundo,
 um
 não
 poder
 respirar
com
a
alma.



Então,
como
se
o
vento
nelas
desse,
e
fossem
nuvens,
todas
as
ideias
em
que
 temos
 sentido
 a
 vida,
 todas
 as
 ambições
 e
 desígnios
 em
 que
 temos
 fundado
 a
 esperança
na
continuação
dela,
se
rasgam,
se
abrem,
se
afastam
tornadas
cinzas
de
 nevoeiros,
farrapos
do
que
não
foi
nem
poderia
ser.
E
por
detrás
da
derrota
surge
 pura
a
solidão
negra
e
implacável
do
céu
deserto
e
estrelado.


Il
 paesaggio,
 dunque,
 è
 in
 costante
 relazione
 con
 il
 mondo
 interiore,
 proiettandovisi
come
abisso
o
risucchiandolo
come
ineffabilità:



Tudo
vem
de
fora
e
a
mesma
alma
humana
não
é
porventura
mais
que
o
raio
 de
sol
que
brilha
e
isola
do
chão
onde
jaz
o
monte
de
estrume
que
é
o
corpo.



(...)
 Assim
 sou.
 Quando
 quero
 pensar,
 vejo.
 Quando
 quero
 descer
 na
 minha
 alma,
fico
de
repente
parado,
esquecido,
no
começo
do
espiral,
vendo
pela
janela
 do
 andar
 alto
 o
 sol
 que
 molha
 de
 despedida
 fulva
 o
 aglomerado
 difuso
 dos
 telhados.


Allora
 pensare
 è
 la
 creazione
 suprema
 e
 l’esistenza
 tutta
 si
 gioca
 sul
 filo
 della
possibilità
e
l’uomo
si
staglia
sullo
sfondo
del
paesaggio
in
una
geografia
che


(10)

si
fa
teatro
dell’inquietudine
—
“absurdemos
a
vida
de
leste
a
oeste”,
si
legge
nel
f.
 372
 —
 e,
 come
 è
 noto,
 lo
 stesso
 Soares
 inserisce
 fra
 queste
 coordinate
 una
 metafora
spaziale
in
cui
la
geografia
è
figlia
della
dizione:
“Minha
pátria
é
a
língua
 portuguesa”.


Così
capiamo
che
cosa
voglia
significare
quando
dice
(f.
228):

 


Tudo
 se
 penetra.
 A
 leitura
 dos
 clássicos,
 que
 não
 falam
 de
 poentes,
 tem‐me
 tornado
inteligíveis
muitos
poentes,
em
todas
as
suas
cores.
Há
uma
relação
entre
 a
 competência
 sintáctica,
 pela
 qual
 se
 distingue
 a
 valia
 dos
 seres,
 dos
 sons
 e
 das
 formas,
e
a
capacidade
de
compreender
quando
o
azul
do
céu
é
realmente
verde,
e
 que
parte
de
amarelo
existe
no
verde
azul
do
céu.


No
 fundo
 é
 a
 mesma
 coisa
 —
 a
 capacidade
 de
 distinguir
 e
 de
 subtilizar.
 Sem
 sintaxe
não
há
emoção
duradoura.
A
imortalidade
é
uma
função
dos
gramáticos.

 


Torniamo
 allora
 con
 la
 mente
 a
 quei
 passi
 citati
 prima
 in
 cui
 una
 sintassi
 fulgida
 serve
 la
 precisione
 della
 conoscenza
 che,
 seppure
 collocata
 nel
 “rovescio
 della
 vita”
 (parole
 di
 Sophia
 de
 Mello
 Breyner
 Andresen16),
 si
 fa
 paradigma
 di


un’esistenza
 piena
 condotta
 sul
 filo
 della
 parola,
 unico
 strumento
 capace
 di
 restituire
davvero
la
complessità
dell’universo
e
di
porre
l’uomo
in
uno
status
di
 creatore
 assoluto.
 Dunque,
 per
 recuperare
 la
 metafora
 fotografica
 di
 Sophia
 de
 Mello,
 Caeiro
 e
 Soares
 si
 accompagnano
 come
 il
 negativo
 e
 il
 positivo
 di
 un’immagine
in
cui
anima
e
pasaggio
si
proiettano
alternatamente
l’una
nell’altro.











16
“Tre
poeti
portoghesi
del
nostro
tempo:
scrittura
e
vita”,
a
cura
di
B.
De
Cusatis
«Annali
della


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