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“Campi di energia utopica” nel Rinascimento Italiano Vita Fortunati

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Academic year: 2023

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“Campi di energia utopica” nel Rinascimento Italiano

Vita Fortunati

Università di Bologna

Riassunto

Riprendendo una espressione di Italo Calvino nei suoi scritti sull‟utopia cercherò di dimostrare che in Italia più che una tradizione di utopie letterarie si trovino “campi di energia utopica” che vanno identificati accostando l‟invenzione del paradigma utopico con altri agenti di mutamento nel mondo sociale e politico e altre forme di strutturazione dell‟immaginario sociale. In tale prospettiva è fecondo studiare le frontiere mobili dell‟utopia, i processi di ibridazione tra le componenti del paradigma utopico e l‟utopismo, così come l‟interazione e l‟osmosi tra diverse forme dell‟immaginario sociale. In questo senso per il campo utopico italiano appare riduttivo limitare il termine utopia entro confini troppo stretti che si limitino all‟utopia come genere letterario.

Tenterò innanzitutto di analizzare le ipotesi che gli studiosi di Utopia hanno formulato per spiegare perché in Italia, dopo la fioritura delle utopie della Controriforma, l‟utopia taccia per quasi due secoli , per poi ricomparire nella seconda metà dell‟Ottocento e con le distopie del Novecento.

L‟Italia, come la Spagna, ha rappresentato per gli studiosi dell‟utopia un caso particolare rispetto ad altre tradizioni europee, specie quella anglosassone, dove si osserva una molto più precisa canonizzazione ed una maggiore continuità temporale dell‟utopia come genere letterario.

Come modello per illustrare il concetto di “campi di energia utopica” mi focalizzerò sul Rinascimento, un periodo storico nel quale queste energie innovative sono particolarmente evidenti e partirò da una analisi del Principe di Machiavelli. Come già aveva sottolineato lo storico delle utopie confrontare il Principe di Machiavelli con Utopia di T. More significa individuare tensioni utopiche nel testo del fiorentino (nonostante le sue affermazioni contro le progettazioni utopiche nel capitolo XV) e ravvisare elementi di politica disincantata in quello dell‟inglese. Tale raffronto mette in luce come il dibattito umanistico- rinascimentale si muova fondamentalmente proprio tra l‟Utopia di T. More e la scienza politica di Machiavelli, in uno scenario di straordinaria fortuna di Utopia nella tradizione delle teorie del pensiero politico europeo.

Il successivo dibattito in Italia sulla città ideale tra Quattrocento, Cinquecento e prima metà del Seicento evidenzia una reciproca contaminazione tra il pensiero utopico e le riflessioni metodologiche e progettuali architettoniche. Gli scritti teorici degli architetti che hanno studiato la città come campo di creazione e luogo di creatività e le utopie che propongono un „contro-spazio‟, base e supporto per una „contro-società‟, rivelano un duplice movimento, una duplice tensione: da una parte l‟immaginazione utopica cerca di appropriarsi del linguaggio dell‟urbanistica e dell‟architettura, dall‟altra l‟urbanistica si coniuga con e tende verso l‟utopia. Nel periodo rinascimentale la costruzione delle città ideali è intimamente connessa alle istituzioni socio-culturali e intercorre un dialogo vivace tra i trattati architettonici urbani e le utopie coeve. Questi due aspetti sono interrelati: da un lato infatti le città utopiche rimandano a caratteristiche presenti in città di diverse regioni italiane, mentre dall‟altro i trattati teorici presuppongono una chiara tensione utopica verso l‟eliminazione delle imperfezioni e delle disfunzioni presenti nelle città reali.

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Parole chiave

Utopia rinascimentale, teoria politica, Machiavelli, Thomas More, città ideale,

Vita Fortunati è Professore di Lingua e Letteratura inglese ed è stata direttore del Centro Interdipartimentale di Ricerca sull‟Utopia dell‟Università di Bologna e di Forme dell’Utopia, una collana di testi primari e critici pubblicata dalla casa editrice Longo di Ravenna. Le sue principali aree di ricerca sono: L‟utopia e l‟utopismo, i Gender‟s Studies, il romanzo modernista, la memoria culturale, la scrittura di guerra e il rapporto tra letteratura e pittura. Tra le sue opere più importanti si ricordano: La letteratura utopica inglese. Morfologia e grammatica di un genere letterario (Ravenna, Longo, 1979); curatrice di Viaggi in utopia (Ravenna, Longo, 1996, ) del Dictionary of Literary Utopias Paris, Champion, 2000 (con R. Trousson); di Dall’utopia all’utopismo. Percorsi tematici, a cura di Vita Fortunati, Raymond Trousson, Adriana Corrado (Napoli, CUEN, 2003); di Perfezione e Finitudine. La concezione della morte in utopia in età moderna e contemporanea (con Marina Sozzi e Paola Spinozzi, Torino, Lindau, 2004). Histoire transnationale de l’utopie littéraire et de l’utopisme, coordonnée par V.Fortunati et R.Trousson, avec la collaboration de Paola Spinozzi, Paris Champion, 2008. Recentemente ha pubblicato nell‟ambito degli studi utopici i seguenti articoli: Vita Fortunati and Claudio Franceschi, “The Quest for Longevity and The End of Utopia”, in Discourses and Narrations in the Biosciences, P. Spinozzi and B. Hurwitz (eds) in Interfacing Science, Literature and the Humanities/ACUME2 Vol. 8,V&R unipress, Goettingen, 2011, pp, 183-197; Vita Fortunati and Claudio Franceschi, “Zerbi, Cornaro e Bacone : una rivisitazione delle concettualizzazioni sulla vecchiaia/longevità nel rinascimento” in Dialoge swischen Wissenschaft, Kunst und Literatur in der Renaissance, Herausgegeben von Klaus Bergdolt und Manfred Pfister, Harrassowitz Verlag, Wiesbaden, 2011 in Kommision, pp. 117-134; Vita Fortunati, “La controversia Butler e Darwin: un letterato e uno scienziato a confronto” in Darwin nel Tempo. Modernità letteraria e Immaginario scientifico, a cura di C.Pagetti, Editore Cisalpino, Milano, 2011. “Ecologia e Pacifismo nell‟opera di A. Huxley” in Per un manifesto della nuova Utopia a cura di C. Quarta, Mimesis Edizioni, 2013. “Afterwords: Time for Meta-Utopia? In The Good Place:Comparative perspectives on Utopia” Mussgnug.F.,Reza, M.(eds). Peter Lang, 2014.

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“Campos de energia utópica” no Renascimento Italiano

Vita Fortunati

Università di Bologna

Resumo

Retomando uma expressão de Italo Calvino em seus escritos sobre a utopia, buscarei demonstrar que, na Itália, mais do que uma tradição de utopias literárias, encontram-se “campos de energia utópica, que podem ser identificados aproximando a invenção do paradigma utópico a outros agentes de transformação no mundo social e político e outras formas de estruturação do imaginário social. Em tal perspectiva, é propício estudar as fronteiras móveis da utopia, os processos de hibridização entre as componentes do paradigma utópico e o utopismo, assim como a interação e a osmose entre diversas formas do imaginário social. Neste sentido, para o campo utópico italiano parece redutor limitar o termo utopia dentro de confins muito estreitos que se limitam à utopia como gênero literário.

Tentarei, antes de tudo, analizar as hipóteses que os estudiosos da utopia formularam para explicar porque na Itália, depois do florescimento das utopias da Contrarreforma, a utopia se cala por quase dois séculos, para depois reaparecer na segunda metade do Oitocentos e com as distopias do Novecentos. A Itália, como a Espanha, representou para os estudiosos da utopia, um caso particular em relação a outras tradições europeias, especialmente a anglo-saxã, em que se observas uma canonização muito mais precisa e uma maior continuidade temporal da utopia como gênero literário.

Como modelo, para ilustrar o conceito de “campos de energia utópica”, meu foco será o Renascimento, um período histórico no qual estas energias inovadoras são particularmente evidentes, e partirei de uma análise do Príncipe, de Maquiavel. Como já havia assinalado o historiador das utopias Bronislaw Baczko, comparar o Príncipe de Maquiavel com a Utopia de T.

More significa particularizar tensões utópicas no texto do florentino (não obstante as suas afirmações contra as projeções utópicas, no capítulo XV) e perceber elementos de política desencantada no do inglês. Tal cotejo põe em luz como o debate humanista-renascentista se move fundamentalmente entre a Utopia de T. More e a ciência política de Maquiavel, em um cenário de extraordinária fortuna da Utopia na tradição das teorias do pensamento político europeu.

O debate posterior, na Itália, sobre a cidade ideal entre o Quatrocentos, Quinhentos e primeira metade do Seiscentos, evidencia uma recíproca contaminação entre o pensamento utópico e as reflexões metodológicas e projetuais arquitetônicas. Os escritos teóricos dos arquitetos que estudaram a cidade como campo de criação e lugar de criatividade e as utopias que propõem um

“contra-espaço”, base e suporte para uma “contrassociedade”, revelam um duplo movimento, uma dupla tensão: de uma parte, a imaginação utópica busca apropriar-se da linguagem da urbanística e da arquitetura, de outra, a urbanística se conjuga com, e tende à, utopia. No período do Renascimento, a construção das cidades ideais é intimamente vinculada às instituições socioculturais e intercorre um vivo diálogo entre os tratados arquitetônicos urbanos e as utopias coevas. Estes dois aspectos estão interrelacionados: por um lado, de fato, as cidades utópicas evocam características presentes em cidades de diversas regiões italianas, enquanto, por outro, os

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tratados teóricos pressupõem uma clara tensão utópica à eliminação das imperfeições e dos problemas presentes nas cidades reais.

Palavras-chave

Utopia renascentista, teoria política, Maquiavel, Thomas More, cidade ideal

Vita Fortunati é professora de língua e literatura inglesa e foi diretora do Centro Interdipartimentale di Ricerca sull‟Utopia da Università di Bologna, e de Forme dell’Utopia, uma coleção de textos primários e críticos publicada pela editora Longo di Ravenna. Suas principais áreas de estudo são: a utopia e o utopismo, os Gender’s Studies, o romance modernista, a memória cultural, a escritura de guerra e a relação entre literatura e pintura. Entre suas obras mais importantes, destacam-se: La letteratura utopica inglese. Morfologia e grammatica di un genere letterario (Ravenna, Longo, 1979); organizadora de Viaggi in utopia (Ravenna, Longo, 1996); do Dictionary of Literary Utopias (Paris, Champion, 2000; com R. Trousson); de Dall’utopia all’utopismo. Percorsi tematici, com Raymond Trousson e Adriana Corrado (Napoli, CUEN, 2003); de Perfezione e Finitudine. La concezione della morte in utopia in età moderna e contemporanea, com Marina Sozzi e Paola Spinozzi (Torino, Lindau, 2004); Histoire transnationale de l’utopie littéraire et de l’utopisme, coordenada com R.Trousson, com a colaboração de Paola Spinozzi (Paris Champion, 2008).

Recentemente publicou, no âmbito dos estudos utópicos, os seguintes artigos: Vita Fortunati and Claudio Franceschi, “The Quest for Longevity and The End of Utopia”, in Discourses and Narrations in the Biosciences, P. Spinozzi and B. Hurwitz (eds) in Interfacing Science, Literature and the Humanities/ACUME2 Vol. 8,V&R unipress, Goettingen, 2011, pp. 183-197; Vita Fortunati and Claudio Franceschi, “Zerbi, Cornaro e Bacone : una rivisitazione delle concettualizzazioni sulla vecchiaia/longevità nel rinascimento” in Dialoge swischen Wissenschaft, Kunst und Literatur in der Renaissance, Herausgegeben von Klaus Bergdolt und Manfred Pfister, Harrassowitz Verlag, Wiesbaden, 2011 in Kommision, pp. 117-134; Vita Fortunati, “La controversia Butler e Darwin: un letterato e uno scienziato a confronto” in Darwin nel Tempo. Modernità letteraria e Immaginario scientifico, a cura di C.Pagetti, Editore Cisalpino, Milano, 2011; “Ecologia e Pacifismo nell‟opera di A. Huxley” in Per un manifesto della nuova Utopia a cura di C. Quarta, Mimesis Edizioni, 2013;

“Afterwords: Time for Meta-Utopia? In The Good Place:Comparative perspectives on Utopia”

Mussgnug.F.,Reza, M.(eds). Peter Lang, 2014.

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. Quando sono stata invitata a partecipare a questo Convegno dal titolo emblematico, L’utopia italiana: particolarità, problemi, possibilità, mi sono venute in mente le vivaci discussioni che facevamo al Centro dell‟Utopia a Bologna con gli studiosi utopici. Ci si domandava infatti quali fossero le ragioni per cui, dopo la fioritura delle utopie della Controriforma (Doni, Agostini e Patrizi) (Firpo,1964; Rota Ghibaudi,1986; Saccà,1987) l‟utopia in Italia tacesse per quasi due secoli per poi ricomparire nella seconda metà dell‟Ottocento e nel Novecento con le distopie. L‟Italia, come la Spagna, ha rappresentato per gli studiosi dell‟utopia un caso particolare rispetto ad altre tradizioni europee, specie quella anglosassone, dove si osserva una maggiore continuità temporale dell‟utopia come genere letterario ed una precisa canonizzazione.

Per spiegare questa specificità varie sono le ipotesi degli studiosi: Lyman Sargent ed anche altri hanno ipotizzato che forse è stata la presenza di un potere ecclesiastico forte ad impedire la fioritura di un genere che si pone come critica e satira della società in cui lo scrittore utopico vive (Trousson,1979; Sargent,1992). Altri invece hanno sostenuto l‟ipotesi che l‟Italia, proprio perché si è costituita molto tardi come nazione e perché la sua identità nazionale ha stentato a formarsi non ha avuto una continuità di utopie. Altri ancora hanno parlato di una “immaginazione utopica” tipica dei paesi anglosassoni che favorirebbe la scrittura delle utopie (Gerber,1955). Una studiosa dell‟utopia italiana, Laura Schram Pighi (Pighi, 2003) spiegava il tardivo riconoscimento dell‟utopia italiana nell‟atteggiamento della critica ufficiale italiana che per molto tempo ha emarginato e trascurato questo genere letterario. Ma questo, a mio avviso, non spiega la specificità del caso italiano, perché la marginalizzazione di questo genere è avvenuta anche in altri paesi: in Inghilterra, per esempio, la critica anglosassone per molto tempo ha trascurato questo genere non formalizzando il suo statuto letterario ibrido. Solo a partire dagli “anni ottanta” del secolo scorso molti studiosi ed anch‟io nelle mie ricerche hanno studiato e cercato di dimostrare che l‟utopia ha un suo specifico paradigma con alcune costanti e varianti (Elliott,1970; Fortunati,1979). Non si tratta di riproporre oggi l‟annosa questione della differenza tra utopismo inteso come atteggiamento mentale che prospetta possibilità di mondi altri, alternativi e utopia come genere letterario con un suo specifico statuto che si è ibridato attraverso i secoli con altri generi, quanto piuttosto se si voglia ristringere o allargare le maglie del concetto di utopia e di “campo di energie utopiche”

(Baczko, 1981, p. 877) Se è vero che l‟utopia si è evoluta nel tempo e che in ogni secolo ci sono state maggiori o minori affinità con altri generi, è anche vero però che nella tradizione occidentale fino al Novecento l’utopia letteraria ha al suo centro la descrizione finzionale di un progetto politico sociale alternativo. Prima di concludere questa prima parte del mio intervento vorrei

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rilevare due aspetti: il primo che in Italia esistono molti “campi di energia utopica”: la città, il tema della felicità, della lingua perfetta, il tema del viaggio immaginario, per elencarne solo alcuni. Il secondo è un quesito: esiste una specificità della narrativa di utopia italiana? Si tratta di questioni complesse, di non facile soluzione che oggi non ho tempo di analizzare, ma certamente il Convegno è una buona occasione per riaprire il dibattito e per offrire materiale per ampliare e approfondire questi interrogativi. Proprio per questi motivi credo che, da un punto di vista metodologico, più che insistere, come dicevo all‟inizio, in una distinzione troppo rigida tra “utopismo e “utopia come genere letterario” sia più utile per indagare il caso italiano usare lo spunto di Italo Calvino che nei suoi scritti sull‟Utopia parla di “campi di energia utopica” (Calvino, 1973, 1984, 1999). Cercherò di dimostrare che in Italia più che una tradizione di utopie letterarie si trovino “campi di energia utopica” che vanno identificati accostando l‟invenzione del paradigma utopico con altri agenti di mutamento nel mondo sociale e politico e altre forme di strutturazione dell‟immaginario sociale. In tale prospettiva è fecondo studiare le frontiere mobili dell‟utopia, i processi di ibridazione tra le componenti del paradigma utopico e l‟utopismo, così come l’interazione e l’osmosi tra diverse forme dell‟immaginario sociale. In questo senso per il campo utopico italiano appare riduttivo limitare il termine utopia entro confini troppo stretti che si limitino all‟utopia come genere letterario.

Dopo queste premesse, ho scelto per illustrare il concetto di “campi di energia utopica” in Italia due case-studies. Mi focalizzerò sul Rinascimento italiano e inglese, un periodo storico nel quale queste energie innovative sono particolarmente evidenti. Come primo esempio partirò da una analisi comparata del Principe di Machiavelli e Utopia di Thomas More, e come secondo il dibattito in Italia sulla città ideale tra Quattrocento e prima metà del Seicento, dibattito che evidenzia una reciproca contaminazione tra il pensiero utopico e le riflessioni metodologiche e progettuali architettoniche.

2. Lo spunto per il primo case-study mi è venuto dallo storico delle utopie Bronislaw Baczko che nella voce Utopia dell‟enciclopedia Einaudi accosta il Principe di Machiavelli con l‟

Utopia di Thomas More (Baczko, 1981) per dimostrare come il paradigma utopico non sia che una delle forme dell‟immaginario sociale e come esso non funzioni in modo isolato rispetto a queste. La mia ipotesi di lavoro è dunque quella di individuare tensioni utopiche nel testo di Machiavelli (nonostante le sue affermazioni, come vedremo, contro le progettazioni utopiche nel capitolo XVI del Principe) e ravvisare elementi di realismo e politica disincantata in Thomas More. Tale raffronto mette in luce come il dibattito umanistico-rinascimentale si muova fondamentalmente proprio tra l‟Utopia di Thomas More e la scienza politica di Machiavelli, in uno scenario di

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straordinaria fortuna di Utopia nella tradizione delle teorie del pensiero politico europeo (Sberlati, 2008).

Sia More che Machiavelli sono consapevoli che il periodo che stanno vivendo sia segnato da un profonda crisi politico-istituzionale e di valori. Il loro modello, la loro proposta parte da una lucida e oggettiva analisi e critica delle condizioni del loro paese e si configura come un tentativo per superarla. A questo riguardo è fondamentale nel pensiero di Machiavelli il concetto di “realtà (verità) fattuale” che si evidenzia non solo nella sua intensa lucidità di osservazione, ma anche nell‟estremo interesse per la natura profonda delle cose. In questo senso come afferma Maria Sapegno il Principe è debitore alla scienza del suo tempo e del naturalismo, perché Machiavelli si serve per la sua trattazione della vista, dell‟osservazione e del metodo induttivo: “Lo Stato non é diverso dal corpo umano, diviene parte della natura e del suo ciclo biologico di nascita, crescita, corruzione e morte… lo Stato è anche forma data alla materia” (Sapegno,1984, p.977).

In un passo del capitolo XV Machiavelli sottolinea l‟importanza di non confondere l’essere con il dover essere, che diventa per lui un principio essenziale per interpretare correttamente la realtà:

Ma sendo l‟intenzione mia stata scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare dreto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere. Perché gli è tanto discosto [da] come si vive <a>

come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa, per quello che si doverebbe fare, impara più presto la ruina che la perservazione sua [...]

(Machiavelli, 2014, Capitolo XV, pp. 147-148) .

È ben noto che questo passo del Principe è stato letto come una esplicita affermazione del Machiavelli contro le utopie e le repubbliche immaginarie. La nostra ipotesi di lavoro è che nonostante questa sua affermazione si possano, raffrontando i due testi, trovare molte affinità e soprattutto cogliere nei testi del Segretario fiorentino, ma anche in altri testi, tensioni utopiche di rinnovamento e nuove proposte che definirei utopiche. Giuliano Procacci nella introduzione al Principe (Procacci, 1960) metteva in luce la capacità di concentrazione intellettuale di Machiavelli che gli permetteva di cogliere l‟aspetto essenziale e determinante di un dato fenomeno, di internarsi e di “trasferirsi tutto in esso”, di istituire con le cose quel rapporto diretto intessuto di lucidità e di passione cui egli non sapeva e non poteva rinunciare. Nei suoi scritti politici un processo di analisi di un determinato fenomeno è ridotto ai suoi tratti essenziali e trova la sua conclusione in un immagine di un‟evidenza plastica ed immediata. Molto è stato scritto sulla retorica persuasiva del Machiavelli, ma qui vorrei sottolineare come lo stile asciutto delle sue pagine si arricchisce, per

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rendere più incisivo il suo assunto, di metafore attinte dal mito o dal mondo animale come quelle del “principe-centauro”, della “volpe” e del “lione” (Raimondi, 1998).

Anche More parte da una acuta analisi dei mali del suo tempo e dalla consapevolezza che la sua società era in una profonda fase di trasformazione: l‟economia feudale che si reggeva sull‟agricoltura stava per essere soppiantata dal capitalismo commerciale e dall‟economia mercantile che trovava il suo centro nella città. Così la proposta di More del comunismo dei beni non è semplicemente un metodo di distribuzione delle ricchezze, ma costituisce il fondamento dell‟uguaglianza e impegna l‟etica degli Utopiani. A differenza della Repubblica ideale di Platone, Utopia non ha la rigidità ieratica di un archetipo (Fortunati, 2008) ed in questo senso il realismo dell’altrove di More si può affiancare a quello che informa Il Principe (1516) e anche altri trattati del tempo sulle forme di governo, sull‟educazione e sui ruoli dei governanti.

Come esempio di “lucido disincanto” e di “realismo” vorrei citare la politica che gli utopiani hanno nei confronti della guerra. Gli utopiani dell‟isola “detestano la guerra come una cosa estremamente brutale” e “ritengono che non ci sia nulla di più inglorioso che quella gloria che si guadagna con la guerra”. La società di Utopia si pone quindi in antitesi con lo stato di conflitto politico e civile che More viveva al suo tempo in Inghilterra (Battisti, 2003). Ma se è vero che More esalta la pace e sottolinea che gli Utopiani sono contrari alla violenza e allo spargimento di sangue, è anche vero però che nella politica estera non disdegnano di adottare mezzi quali la diplomazia, l‟astuzia e addirittura la corruzione. Più che schierarsi apertamente in battaglia, essi:

Therefore immediately after that war is once solemnly denounced, they procure many proclamations signed with their own common seal to be set up privily at one time in their enemy‟s land in places most frequented. In these proclamations they promise great reward to him that will kill their enemy‟s prince, and somewhat less gifts, but them very great also, for every head of them whose names be in the said proclamations contained ( More, 1996, p.99).

Se questi mezzi si rivelano inefficaci, gli Utopiani ingaggiano la guerra, riconoscendo così il principio del bellum iustum, che dissimulano sottraendosi essi stessi all‟uso delle armi e impiegando soldati mercenari, gli Zapoletes (More, 1996, p.101).

Machiavelli e More sono dunque due intellettuali che si inseriscono nel Rinascimento e umanesimo europeo che hanno caratteristiche comuni: la passione e la rilettura dei classici in funzione del presente, la passione politica e civile. Due intellettuali che partecipano attivamente alla vita politica del loro tempo e che affrontano problemi “caldi/scottanti” che sentono l‟esigenza di conoscere per cambiare. Ma ci sono anche differenze: l‟umanesimo e il rinascimento di Machiavelli

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si adatta e si modula in funzione della realtà politica dell‟Italia del suo tempo, una realtà violenta, percorsa da lotte intestine, da un rapporto travagliato con il papato, con i Medici e il Valentino;

More invece va inquadrato nella cerchia degli intellettuali di cui facevano parte Erasmo da Rotterdam e Colet. Una cerchia di intellettuali che apertamente criticava la corruzione del clero e auspicava una chiesa riformata, contro il potere temporale, la vendita delle reliquie e l‟aspetto parassitario del clero. Intellettuali raffinati, colti che nelle loro opere mettono in evidenza la loro chiarezza mentale nell‟affrontare e discutere i problemi del loro tempo, ma esprimono anche giudizi autonomi e propugnano un mondo nuovo rigenerato. Sono antidogmatici, tolleranti, sono la punta di diamante dell‟Europa e perseguono una verità critica, funzionale, laica ed umana. Per questi motivi sia il Principe che Utopia sono due opere che nascono da una profonda esigenza di dare delle risposte innovative a questioni urgenti che minacciavano la pace e la stabilità politico-sociale dei loro paesi.

Per indagare le affinità e le differenze tra il Principe di Machiavelli e Utopia di Thomas More occorre partire dall‟analisi lucida e critica che ambedue gli intellettuali fanno della situazione politico-sociale dell‟Europa e nello specifico dell‟Italia e dell‟Inghilterra. Tale analisi dei motivi e delle cause della crisi profonda Machiavelli la compie nel corso della sua trattazione ed in particolare nel capitolo XXVI del Principe, mentre More nel libro primo dell‟Utopia. L‟Europa è attraversata da guerre religiose violente e dalla corruzione del Clero e nel caso dell‟Inghilterra da una monarchia tirannica. Nel libro primo Rapahel Hythloday inizia un‟aspra requisitoria dapprima contro il sistema penale, in seguito contro quello socio- economico e contro la monarchia tirannica.

Non si risolvono i mali sociali con la pena e la semplice punizione, per quanto rigida possa essere, occorre individuare le cause che spingono gli uomini a compiere tali delitti. La causa primaria risiede nella classe dei nobili, una classe ricca, oziosa e parassita che ha tolto ai contadini laboriosi le loro terre, ha distrutto le loro case, per trasformarle in pascoli per allevare le pecore per la produzione della lana. Hythloday analizza con acuta precisione la politica delle recinzioni (enclosures) che ha costretto i contadini ad inurbarsi e al vagabondaggio pronunciando la celebre frase:

“Forsooth, my lord,” quoth I, “Your sheep that were wont to be so meek and tame and so small eaters, now, as I hear say, has become so great devourers and so wild, that they eat up and swallow down the very men themselves. They consume, destroy, and devour whole fields, houses and cities to be so meek and eat so little;

Now, they are becoming so greedy and wild that they devour men themselves, as I hear” ( More, 1996, pp.21-22).

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La crisi economica e sociale comporta inevitabilmente la degradazione dei costumi: punire con la morte il furto è immorale, perché Dio solo può avere il diritto sulla vita umana.

Anche Machiavelli analizza la crisi della decadenza italiana e tenta di individuare nuove forme di vita associata che possano risanare il tessuto sociale. Per questo Machiavelli è il primo dei pensatori politici dell‟età moderna, è l‟osservatore politico che si sforza di comprendere le ragioni riposte di ogni fenomeno indicando ai Medici la possibilità di un innovativo rapporto fra “buone leggi” e “buone armi”. Così Machiavelli dipinge la disastrosa situazione politico-sociale dell‟Italia:

così al presente volendo conoscere la virtù di uno spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi ne‟ termini presenti, e che la fussi più stiava che li Ebrei, più serva che e‟ Persi, più dispersa che gli Ateniesi: sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, et avessi sopportato d‟ogni sorta ruina”

(Machiavelli, 2014, pp.219-220).

Entrambi quindi partendo da un‟analisi critica della società a loro contemporanea propongono una soluzione radicale, nuova. Più volte Machiavelli sottolinea che il Principe deve essere “nuovo” come pure il Principato. Il problema italiano è quello di una rottura definitiva con le forme e i modi della vita politica del passato e del presente, è quello della instaurazione di un principato nuovo, di un ordine politico radicalmente diverso e di una nuova disciplina (Procacci, 1960):

Onde è da notare che, nel pigliare uno stato, debbe lo occupatore di esso discorrere tutte quelle offese che gli è necessario fare, e tutte farle a un tratto, per non averle a rinnovare ogni di‟, e potere, non le innovando, assicurare gli uomini e guadagnarseli con beneficarli. [...] Per che le iniurie si debbono fare tutte insieme, acciò che, assaporandosi meno, offendino meno: e‟ benefizii si debbono fare a poco a poco, acciò si assaporino meglio (Machiavelli, 2014, pp. 107-108).

Il problema del principato nuovo viene discusso nel Principe nei capitoli VI, VII e la novità del Principato comporta infatti la necessità di cancellare le tracce della dominazione precedente e di ricorrere a questo fine con mezzi straordinari. La necessità di assumere atteggiamenti radicali e anche una precisa presa di posizione “contro le vie del mezzo” viene sottolineata anche nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: “Ma gli uomini pigliono certe vie del mezzo che sono dannosissime; perché non sanno essere né tutti cattivi né tutti buoni: come nel seguente capitolo si mosterrà” (Machiavelli, 1960, p.194).

Allo stesso modo Hythloday nella descrizione della Repubblica e nella perorazione finale è per una posizione radicale, non per le mezze vie, né per le mediazioni che More gli propone.

Raphael è per un cambiamento radicale e soprattutto esprime fino in fondo chiaramente il suo

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doubtless, Master More (to speak truly as my mind giveth me), where possessions be private, where money beareth all the stroke, it is hard and almost impossible that there the weal–public may justly be governed and prosperously florish” (More, 1996, p.44). Le istituzioni degli Utopiani si basano appunto sull‟eliminazione della proprietà privata e del denaro. Di fronte ai dubbi degli astanti circa la convenienza di questa proposta da parte di Raphael Hythloday, il filosofo-viaggiatore ribadisce che a loro fa difetto l’immaginazione, la capacità di vedere la realtà da una differente prospettiva, noi diremmo da una visione utopica:

„I marvel not‟, quoth he,‟ that you be of this opinion. For you conceive in your mind either none at all, or else a very false image and similitude of this thing. But if you had been with me in Utopia and had presently seen their fashions and laws, as I did which lived there five years or more, and would never have come thence but only to make that new land known here, then doubtless you would grant that you never saw people well ordered but only there” (More, 1996, p.46).

Il capitolo finale del Principe, cap. XXVI, che si intitola Exhortatio Ad Capessendam Italiam In Libertatemque A Barbaris Vindicandam (Esortazione a prendere l’Italia e liberarla dal dominio straniero) è pervaso da una forte passione, da una tensione utopica, dall‟auspicio di un rinnovamento e di una rinascita. Il nuovo Principe è chiamato Redentore, e l‟intero capitolo è permeato da una forte speranza di rigenerazione politica: “Non si debba adunque lasciare passare questa occasione, acciò che l‟Italia, vegga dopo tanto tempo apparire un suo redentore”

(Machivelli, 2014, p.225). Vi è una appassionata fiducia nella realizzabilità del programma politico da lui tracciato: la situazione italiana è matura per l‟avvento di un Principe nuovo “[...] che io non so qual mai tempo fussi più atto a questo” (Machiavelli, 2014, p.219).

E mi piace terminare questa seconda parte del mio contributo immaginando una sorta di dialogo immaginario tra More e Machiavelli in cui i due interlocutori si confrontano sulla loro proposta. D‟altra parte il dialogo socratico, maieutico è la forma che nell‟Utopia di More è prevalente come pure nella struttura del Principe dove egli si può configurare come interlocutore fittizio (dedica ed esortazione) mentre i Medici sono gli interlocutori reali (Sapegno, 1984, p. 977).

Machiavelli vuole offrire una soluzione allo stato ruinoso dell‟Italia contemporanea e a questo fine propone un programma che vuole mordere “la realtà effettuale”. La sua proposta politica parte non solo da un‟analisi della realtà politica, ma anche e soprattutto dall‟osservazione di quelle che sono le caratteristiche specifiche del genere umano. Il presupposto è che l‟uomo è naturalmente e fondamentalmente “triste” (malvagio). E‟ questo un dato costitutivo che vale per gli uomini di oggi

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(dell‟oggi di Machiavelli), ma anche per quelli del passato e per quelli del futuro, ed è questa la base teorica che dà forza e sostiene il suo programma politico. L‟indagine disincantata da parte di Machiavelli sull‟uomo nel suo agire politico e la sua consapevolezza della ineliminabile ferinità ancestrale non può che convalidare l‟ipotesi sostenuta da più parti di “un pessimismo antropologico” (Anselmi, 1992, p.6). I rimandi e gli esempi che Machiavelli di volta in volta cita a sostegno delle sue tesi ed affermazioni sono presi dalla storia dei Greci e dei Romani di cui era un profondo conoscitore. La sua scienza politica tratta non solo di come ottenere il potere, ma anche di come mantenerlo. Sulla “tristizia” degli uomini Machiavelli così si esprime:

[...] e li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere: perché l‟amore è tenuto da uno vinculo di obbligo, il quale, per essere gli uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che non ti abbandona mai” (Machiavelli, 2014, p.158) Dovete adunque sapere come e‟sono dua generazioni di combattere: l‟uno con le leggi; l‟altro con la forza. Quel primo è proprio dello uomo, quel secondo, delle bestie. Ma ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo:pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo.

[...] Sendo dunque necessitato uno principe sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe et il lione; perché el lione non si difende da‟ lacci, la golpe non si difende da‟ lupi;bisogna adunque essere golpe a conoscere e‟ lacci, e lione a sbigottire e‟ lupi. [...] E, se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché e‟ sono tristi e non la osserverebbono a te, tu etiam non l‟hai da osservare a loro [...] (Machiavelli, 2014, pp. 163-164).

La caratteristica che accumuna gli uomini è dunque, come dice Machiavelli (2014, p. 99) che “[...] gli uomini offendono o per paura o per odio“ e il Principe deve quindi evitare di essere odiato.

Anche More ha come scopo di porre rimedio alla crisi politico-sociale del suo paese e a quella dei valori. More pur partendo dal presupposto religioso che la natura dell‟uomo è corrotta (“la caduta” ed il “peccato originale”) propone di rifondare l‟umanità attraverso la creazione di una nuova civiltà. A questo proposito l‟atto di fondazione in Utopia acquista un profondo significato simbolico: il taglio che Utopo compie per costituire la Repubblica di Utopia formata da uomini nuovi. Vi è implicita l‟idea che attraverso l‟istituzione di una nuova società con leggi nuove si possa vivere in armonia senza discordie e lotte di tipo politico e religioso. A questo proposito ci sembra di poter sottolineare che in questo “atto di fondazione” rimanga opaca e non esplicitata la questione della capacità dell‟uomo di compiere il male ed il crimine. Si tratta di una ambiguità che si ritroverà puntualmente in pressoché tutte le Utopie successive dove spesso il male ed il crimine

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così come tutti i più ripugnanti ed i meno attraenti aspetti dell‟umanità ed in particolare quelli più materialistici (defecare, fare sesso, invecchiare) sono spesso omessi o non trattati, o comunque evitati e mai affrontati in tutta la loro durezza antropologica e storica, come invece fa Machiavelli.

Per Moro la bestialità e la rapacità degli uomini si può attenuare se si crea per loro un contenitore con leggi e istituzioni che le diminuiscano. More, come Machiavelli, afferma che gli uomini possono vivere in pace e in armonia se vengono eliminate le cause che inducono gli uomini a offendere cioè la paura e l‟odio. More per bocca di Hythloday dichiara che l‟eliminazione delle ricchezze, della proprietà privata come pure del regime politico tirannico possono eliminare o per lo meno minimizzare le ragioni della paura e dell‟odio. La sua proposta si fonda sulla possibile educabilità degli uomini, pur nella cornice altamente radicale dell‟abolizione della proprietà privata.

Machiavelli non arriva ad una concettualizzazione così esplicita anche se è consapevole del ruolo primario della proprietà e della ricchezza quando afferma che il peggiore errore che il Principe può fare è toccare la roba dei suoi sudditi: “Debbe non dimanco el principe farsi temere in modo, che, se non acquista lo amore, che fugga l‟odio: perché e‟ può molto bene stare insieme esser temuto e non odiato. Il che farà sempre, quando si astenga da la roba de‟ sua cittadini e de‟ sua sudditi, e da le donne loro” (Machiavelli, 2014, p.158). Per quanto riguarda Machiavelli la natura umana ha dei constraints, gli uomini cioè sono per natura “tristi”, la bontà non è la norma, ma il risultato di una necessità: “[...] perchè gl‟ uomini sempre ti riusciranno tristi, se da una necessità non sono fatti buoni” ( Machiavelli, 2014, p.209). Il Principe quindi non solo deve sapere come ottenere il potere, ma anche come mantenerlo. Abbiamo visto come il capitolo XXVI sia pervaso da tensioni utopiche di rinnovamento e dalla volontà di fare delle proposte alternative alla realtà presente: una tensione che rimane presente in Machiavelli fino all‟ultimo, nonostante le disillusioni e le amarezze che egli ebbe durante il suo impegno politico e civico. Francesco Bausi in un interessante saggio che analizza le tensioni utopiche nel pensiero del rinascimento italiano (Bausi, 2008) riscontra questa tensione utopica non solo nel Principe ma anche nella proposta che si trova in uno dei più importanti scritti dell‟ultimo Machiavelli, il Discursus Florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices (composto fra il 1520 e l‟inizio del 1521). In questo scritto viene teorizzata la sua “utopia politica”, come forma di governo migliore e più adatta alla situazione fiorentina del momento, il cosiddetto “governo misto”, caratterizzato dall‟equilibrio dei tre poteri, il monarchico, il repubblicano e il popolare, ognuno con una propria rappresentanza politica. Questo governo misto che Machiavelli riprende da Polibio (VI libro delle Storie) gli sembra l‟unica forma di governo in grado di assicurare le ambizione politiche delle diverse classi sociali e la volontà di potere dei Medici. In una situazione di grave crisi politico-istituzionale, Machiavelli prospetta

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questa utopia dello stato misto capace finalmente di superare la congenita imperfezione di tutti i regimi che si sono succeduti a Firenze negli ultimi cento anni e di assicurare la stabilità e il benessere della città anche dopo l‟eventuale estinzione della casa Medici. Ed è proprio nel Discursus che contrariamente a quanto accadeva nel Principe Machiavelli rivaluta il ruolo dei puri teorici dello Stato:

E è stata stimata tanto questa gloria dagli uomini che non hanno mai atteso ad altro ch‟a gloria, che non avendo possuto fare una republica in atto, l‟hanno fatta in scritto, come Aristotile, Platone e molt‟altri: e‟ quali hanno voluto mostrare al mondo che se, come Solone e Ligurgo, non hanno potuto fundare un vivere civile, non è mancato dalla ignoranza loro, ma dalla impotenza di metterlo in atto.

31- Il dibattito in Italia sulla città ideale tra Quattrocento, Cinquecento e prima metà del Seicento evidenzia una reciproca contaminazione tra il pensiero utopico e le riflessioni metodologiche e progettuali architettoniche. Gli scritti teorici degli architetti che hanno studiato la città come campo di creazione e luogo di creatività e le utopie che propongono un “contro-spazio”, base e supporto per una “contro-società”, rivelano un duplice movimento, una duplice tensione: da una parte l‟immaginazione utopica cerca di appropriarsi del linguaggio dell‟urbanistica e dell‟architettura, dall‟altra l‟urbanistica si coniuga con e tende verso l‟utopia (Fortunati, 2004). Nel periodo rinascimentale la costruzione delle città ideali è intimamente connessa alle istituzioni socio- culturali e intercorre un dialogo vivace tra i trattati architettonici urbani e le utopie coeve. Questi due aspetti sono interrelati: da un lato infatti le città utopiche rimandano a caratteristiche presenti in città di diverse regioni italiane, mentre dall‟altro i trattati teorici presuppongono una chiara tensione utopica verso l‟eliminazione delle imperfezioni e delle disfunzioni presenti nelle città reali.

Se nelle città ideali immaginate e descritte nelle utopie la struttura politico-sociale ha un‟importanza fondamentale a scapito dell‟assetto urbano, che talvolta rimane in secondo piano, nelle città ideali descritte nei trattati architettonici si verifica la situazione contraria (Eaton, 2000, pp. 119-131). In molti casi il progetto della città ideale diventa lo strumento attraverso il quale il Principe esercita la sua egemonia, la sua pianificazione risponde all‟esigenza di razionalizzare e dare lustro al potere dei Signori a capo della città.

Progetti per la costruzione di palazzi ed altri edifici urbani furono studiati attentamente da Anton Francesco Doni (Il mondo savio e pazzo, 1552), Francesco Patrizi da Cherso (La città felice ,

1 Questa parte del saggio, sul rapporto tra le città utopiche del Cinquecento e le coeve progettazioni architettoniche é stata in parte presa e aggiornata dal mio precedente saggio: “Progetti utopici e architettonici: la città ideale nell‟Italia

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1553), Ludovico Agostini (La Repubblica immaginaria,1585-90), interessati alla costruzione e all‟abbellimento delle strade cittadine per cortei e processioni. Scrive Agostini:

Ordineremo che le case siano tutte dal pubblico edificate e con tale architettura poste e distinte, che ogni casa almeno da due parti resti aperta perché senta il sole e li venti che la purghino, e perché gli abitatori possano ristorarsi di tempo in tempo così per l‟estremità dei caldi come dei freddi […]. Nel compartimento della città si affileranno le strade di maniera che tra l‟una e l‟altra vi nascerà un vano proporzionato alle corti ed ai giardini di ciascuna casa; e chi vorrà maggiore degli altri averla, ciò potrà egli fare pel lungo e non pel largo del suo sito; e volendo uscire dai termini degli altri potrà fare la sua camminata dall‟una strada all‟altra e sopra le due strade, due facciate avere” (Agostini, 1941, pp.167-168).

Doni pubblicò Il mondo savio e pazzo nel 1552 soltanto pochi anni dopo la traduzione di Utopia di More a cura di Lando e un anno prima della Città felice di Patrizi. L‟interpretazione che Doni dà della situazione politica nell‟Italia rinascimentale si discosta dal profondo pessimismo metafisico che emerge dal trattato di Patrizi (Firpo, 1964, pp. 179-183; Rota Ghibaudi, p. 1986).

Come molte utopie del Rinascimento, Il mondo savio e pazzo è fondato su un dialogo: il savio descrive al pazzo una città onirica a forma circolare, circondata da mura, con al centro un enorme tempio, sei volte più grande della cattedrale di Firenze, Santa Maria Novella. Il tempio ha cento porte che corrispondono alle cento porte della città, di conseguenza, chiunque stia al centro del tempio e si guardi attorno può dominare con un solo sguardo l‟intera città. Le vie sono distinte secondo le professioni, e la distribuzione delle coltivazioni corrisponde a una precisa distribuzione del lavoro agricolo nella campagna.

Lo schema politico-sociale di Doni presenta significative somiglianze con quello comunista egalitario di More; per questa ragione alla fine del 1500 il suo pensiero fu considerato eretico e rivoluzionario. Il suo atteggiamento audace e polemico contro i costumi del suo tempo fu condannato e i suoi scritti censurati. L‟opera del Doni fu scritta durante una fase di delicata trasformazione storica, quando la grande civiltà del Rinascimento, giunta al suo apice, cominciava a declinare, e si stava delineando un cambiamento epocale segnato dal Concilio di Trento e dalla Controriforma.

Ne La città felice, pubblicato nel 1553, Patrizi dedica molto spazio ai riti pubblici legati alle festività, in quanto esse consolidano l‟unità della città e il senso di fratellanza. Nella sua repubblica ideale ci sono quindi grandi piazze e palazzi, dove i cittadini si possono radunare per celebrare le festività ed esternare il loro fervore patriottico:

“Doverà, adunque, la nostra città non d‟infinita moltitudine di genti esser ripiena, ma di tanta, in somma, che tra loro possano tutti facilmente conoscersi […]. Ed

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acciocché questa radice del reciproco amore cresca e venga a perfezion tale, che faccia frutto perfetto, voglio che ne i conviti publichi si nustrisca; i quali del publico, e nel publico, si celebrino ogni mese almeno una fiata, secondo l‟antico costume di Italo re d‟Italia, che primo di tutti mise in piedi questa usanza. Nel publico, adunque, sieno statuite publiche stanze, dove questi conviti si abbiano a celebrare” (Patrizi,1941,p.129).

Ne La città felice la scelta del luogo dove edificare la città, la simmetria perfetta della pianificazione urbana, dove gli spazi e gli edifici sono simmetrici, rappresentano la realizzazione della città ideale di Vitruvio, “per questo si loda a‟ tempi nostri [...] ed a‟ passati Atene” (Patrizi, 1941, p.127). Tale citazione ricorda che Patrizi stava seguendo il modello delle iniziative urbanistiche del suo tempo, dove la città perfetta vuole riprodurre la città divina sulla terra. La città ideale si può interpretare come un racconto edificante di una esistenza felice in una città celeste, dove l‟intero corpo sociale esprime le sue potenzialità obbedendo a una divisione gerarchica del lavoro e dei ruoli, in cui ogni singolo uomo e donna occupano un luogo e un mestiere ben definito, adatto alle specifiche capacità:

Alla costituzione di una città beata, sei maniere d‟uomini si ricerchino. E prima i contadini, i quali ci vadino inanzi spianando ed acconciando la via […]. I secondi sono gli artefici, che ci fabricano e cocchi e carette; che ci governano cavalli e mule, sopra a‟ quali, con molto meno fatica nostra, ci conduciamo […]. I terzi sono i mercatanti, che con l‟industria loro ci alleviano il camino, e con l‟opre loro spesso ne‟ bisogni ci aiutano. Appresso a questi sono i guerrieri, che nei pericoli, con la vita propria, guardano la vita di tutti gli altri. E doppo loro sono i magistrati ed i guidatori di così numerosa moltitudine […]. Nel sesto luogo sono i sacerdoti, i quali con le loro orazioni adoperano, che col favore e con la grazia divina esca questo popolo della solitudine e del deserto, e pervenga alla terra, piena di quell‟acque, che sono, più assai che ‟l latte e che ‟l melle, saporite e soavi (Patrizi, 1941, p.134).

La descrizione del sito di Patrizi allude a possibili corrispondenze con la realtà geografica italiana: il luogo prescelto richiama il paesaggio dove sorge la Repubblica di Venezia. La realtà diventa così un modello per l‟utopia di Patrizi. Quando egli parla del governo di questa repubblica felice, dei suoi reggenti, del suo esercito nazionale e dei suoi commerci, sembra alludere a Venezia, la „Serenissima‟, un appellativo intimamente connesso all‟idea di felicità e di fortuna.

Anche ne La repubblica immaginaria di Ludovico Agostini (1580) la specificazione dei particolari geografici e topografici è fondamentale per la sua città ideale. Per Agostini le strategie politiche e sociali devono promuovere i nuovi progetti urbani: “L‟architetto della città sarà quegli che, al pubblico e al privato servendo, con istruttura proporzionata eseguirà sinceramente il

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tutto” (Agostini, 1941, p.168). Oltre ad una politica che mira ad abbellire la città da un punto di vista architettonico, egli attribuisce molta importanza alle acquisizioni territoriali che possono assicurare l‟edificazione della città in luoghi salubri ed ameni. Perciò la città ideale per Agostini deve collocarsi in un luogo con un clima né eccessivamente caldo né eccessivamente freddo, protetto dai venti, molto vicino ad un fiume, che possa fornire acqua alla città, non molto lontano dal mare, così da facilitare i commerci e la difesa dai nemici: “Laonde, a maggior commodità de‟

nostri mercatanti, porremo la nostra città sulla marina; dentro la quale saranno disposti, in parte opportuna, i luoghi de‟ mercatanti, come sono piazze, mercati, banchi, fondachi e botteghe. Le quali cose non solamente sono necessarie, ma porgono ancora molto d‟ornamento alla città” (Agostini, 1941, pp.133-134).

Dalla descrizione dell‟architettura della città emergono le specificità dei tre grandi utopisti italiani del Rinascimento. Le città utopiche di Doni, Agostini e Patrizi sono geometriche e razionali, la cui planimetria deriva dai trattati architettonici italiani. La città ideale italiana, come è rappresentata nei trattati rinascimentali – dal De Re Aedificatoria (1443-1452) di Leon Battista Alberti al Trattato di architettura (1460-1464) di Antonio Averlino, conosciuto come Filarete, dal Trattato di Architettura, ingegneria e arte militare (1479-1480) di Francesco di Giorgio Martino agli scritti e ai disegni di Leonardo da Vinci (1494-1499) – è profondamente intrisa di storia in quanto ha origine, come notava Luigi Firpo, da una minuziosa analisi e critica delle città medievali (Luigi Firpo, 1975). Mentre, infatti, queste ultime erano solite crescere in maniera disordinata, senza una precisa progettazione urbana, le nuove città ideali erano concepite attraverso forme armoniche e volumetriche che nascevano e si evolvevano rispondendo ad un preciso progetto urbanistico (Muratore, 1975). La città rinascimentale si fonda su una nuova idea di spazio, che si espande orizzontalmente, piuttosto che verticalmente, come invece accadeva nelle città medievali, generalmente costruite in cima ad una collina, e implica anche l‟idea di un centro, solitamente rappresentato da un quadrato o da uno spazio aperto da cui la luce si irradia in ogni direzione. Così, mentre la città medievale si configurava come un‟intricata rete di stradine e vicoli scuri, la città rinascimentale è ariosa, armoniosa e piena di luce .

Il dialogo fecondo tra utopia e progettazione architettonica iniziato nel Rinascimento è continuato attraverso i secoli (Klein,1975) , tanto che Gregotti ha parlato di “una reciproca contaminazione tra pensiero utopico e riflessioni metodologiche e progettuali di ogni tempo” (Gregotti, 2000, p.42). Un dialogo e un confronto quindi che non sono mai venuti meno e che continuano fino ai nostri giorni. La lezione più stimolante che la progettazione architettonica può ancora attingere dalla tradizione del pensiero utopico non è tanto la sua capacità o meno di

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prevedere il futuro, quanto piuttosto la sua capacità, attraverso l‟immaginazione creativa, di spezzare i legami dell‟ ordine esistente e di prospettare spazi urbani alternativi:

«È evidente che non esiste progettazione autenticamente creativa senza che un frammento di utopia, proprio in quanto tensione verso un dover essere alternativo, ne illumini la direzione di ricerca, senza che si costituisca una distanza tra l‟esistente e la nuova situazione proposta dalla presenza concreta e diretta dell‟opera e, forse più lontano, dalle condizioni diverse, di nuove possibilità che l‟opera immagina» (Gregotti, 2000,p.49).

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