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Le utopie di Thomas Morus e Ortensio Lando

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Academic year: 2023

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Le utopie di Thomas Morus e Ortensio Lando

Ana Cláudia Romano Ribeiro

Universidade Federal de São Paulo/revista Morus – Utopia e Renascimento

Riassunto

Il presente testo ha come oggetto il confronto tra il testo latino dell’Utopia e la sua prima versione italiana, attribuita a Ortensio Lando. Tale traduzione in vernacolo, apparsa a Venezia nel 1548, dai torchi del Doni e rimasta unica fino al Novecento, consentiva all’opera dell'umanista inglese di varcare i confini dei ristretti circoli di umanisti, per raggiungere un pubblico assai più ampio, godendo pertanto di una più capillare diffusione. Alla luce di queste premesse, ci si prefigge un’analisi mediante il raffronto tra traduzione italiana e testo latino: si profilerà un percorso teso a mettere in luce le particolarità espressive acquisite dal testo d'arrivo, nonché alcuni cambiamenti di forma e di senso rispetto al testo d’origine.

Parole chiave

Thomas Morus, Utopia, traduzione

Ana Cláudia Romano Ribeiro insegna letteratura francese presso il Dipartimento di Lettere dell'Universidade Federal de São Paulo. I suoi interessi di ricerca vertono soprattutto sul tema dell'utopia e dei viaggi immaginari nella letteratura moderna. È autrice di contributi pubblicati su periodici scientifici, in particolare sulla rivista Morus - Utopia e Renascimento, di cui è co- direttrice. Ha offerto al pubblico di lingua portoghese la traduzione dell'utopia di Gabriel di Foigny, corredata di note e di un'ampia introduzione (A terra austral conhecida, Campinas, Editora da Unicamp, 2011). Attualmente prepara la traduzione dell'Utopia di Thomas Morus.

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As utopias de Thomas Morus e Ortensio Lando

Ana Cláudia Romano Ribeiro

Universidade Federal de São Paulo/revista Morus – Utopia e Renascimento

Resumo

O presente texto tem como objeto a comparação entre o texto latino da Utopia e a sua primeira versão italiana, atribuída a Ortensio Lando. Tal tradução em vernáculo, publicada em Veneza, em 1548, por Donni, permancendo única até o século XX, permitia à obra do humanista inglês de atravessar os limites dos restritos círculos de humanistas, para alcançar um público muito mais amplo, gozando, portanto, de uma difusão mais capilar. À luz de tais premissas, propõe-se uma análise mediante a comparação entre tradução italiana e texto latino: se perfilará um percurso com o objetivo de pôr em luz as particularidades expressivas adquiridas pelo texto de chegada, além de certas mudanças de forma e de sentido em relação ao texto original.

Palavras-chave

Thomas Morus, Utopia, tradução

Ana Cláudia Romano Ribeiro é professora de literatura francesa junto ao Departamento de Letras da Universidade Federal de São Paulo. Seus interesses de pesquisa vinculam-se ao tema da utopia e das viagens imaginárias na literatura moderna. É autora de artigos publicados em periódicos científicos, em particular na revista Morus - Utopia e Renascimento, da qual é coeditora. Publicou a tradução em língua portuguesa da utopia de Gabriel di Foigny, com notas e uma ampla introdução (A terra austral conhecida, Campinas, Editora da Unicamp, 2011). Atualmente, prepara a tradução da Utopia de Thomas Morus.

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rima di passare alla nostra analisi, ci sembra opportuno fornire qualche notizia riguardo il contesto storico ed editoriale in cui la versione italiana dell'Utopia prese forma.

L'opera vide la luce a Venezia, nel 1548, sotto il titolo La Republica nuouamente ritrouata, del gouerno dell'isola Eutopia, nella qual si vede nuoui modi di gouernare Stati, reggier popoli, dar leggi à i senatori, con molta profondità di sapienza, storia non meno vtile che necessaria. Opera di Thomaso Moro cittadino di Londra; dal frontespizio del volume si ricava la marca editoriale di Anton Francesco Doni, il quale, pur firmando la dedica dell'opera, rivolta a Girolamo Fava, manteneva ignota l'identità del traduttore. Sarà il poligrafo veneziano Francesco Sansovino ad attribuire la paternità di tale versione ad Ortensio Lando, nel suo Del governo dei regni e delle repubbliche così antiche come moderne del 1561. La traduzione del Lando si colloca nel solco delle prime versioni vernacolari dell’Utopia.

Infatti, prima dell'intervento dell'umanista italiano, l'opera del Morus era già andata incontro a due traduzioni in vernacolo. La storia delle traduzioni dell’Utopia prese avvio in Spagna con una traduzione anonima mai pubblicata e tuttora scarsamente nota, ovvero il manoscritto Gondomar (cf.

Estrada, 1992), che risale ai primi anni del regno di Carlo V, quando la potenza iberica viveva un periodo prospero e partecipava attivamente all'umanesimo cristiano europeo.1 Le prime parole del titolo del manoscritto sono La republica Utopia [...], mentre nella lista delle opere del conte di Gondomar, citata da Carmen Porto (apud Cave, 2012, p. 112), si legge República Eutopía.

Purtroppo la critica non riuscì a rilevare nulla in merito alle motivazioni che stanno alla base di questa traduzione, tra l'altro, priva di dedica e di indicazioni paratestuali.

Successivamente, l'opera di Morus venne tradotta in lingua tedesca e pubblicata a Basilea nel 1524, limitata però al solo libro II. L'artefice della traduzione fu Claudio Cantiuncula (Claude Chansonette), uno dei principali giuristi del Rinascimento. Erasmo darà dimostrazione dell'ammirazione nei confronti di Cantiuncula, nonché dello stesso Morus, nel suo Dialogus ciceronianus nel 1528 (2013, p. 171; 174-175). Cantiuncula dedicò la sua traduzione ai consulenti della città di Basilea, aspettandosi che, in quanto governanti, essi apprezzassero la forma di governo dimostrata nell'Utopia; ciò si evince da quanto scritto da lui stesso: “tra le più famose entità politiche, non ho incontrato nessuna con la quale valga più compararsi oltre la società degli utopiani” (“Nur aber in der zal aller hochberümptester policy/ find ich keine die der Utopianern

1 Emblematica di questo periodo di tolleranza religiosa pretridentina, segnato anche dalla presenza di Erasmo, appare la Biblia políglota complutense (o Biblia sacra polyglota).

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langhargebruchtem gemeinen wesen verglychen mög”; apud Cave, 2012, p. 154). Esortando i consulenti di Basilea a considerare l’esempio degli utopiani, Cantiuncula mantiene il gioco paradossale tra finzione e realtà che contrassegna l'utopia moreana2: questa – tanto finzionale quanto i numeri immaginari, empiricamente inesistenti –, può comunque, in qualche misura, incidere sul reale – così come i numeri immaginari che, usati per calcolare situazioni ipotetiche, possono essere applicati al mondo reale3.

Lo stesso gioco tra realtà e finzione è ripreso anche da Francesco Sansovino nel suo Del governo dei regni e delle repubbliche così antiche come moderne, all'interno del quale venne inserita la traduzione dell’Utopia. Il trattato sansoviniano si configura come un manuale di diritto costituzionale comparato, in cui l'autore presenta diciotto modi di governare. In quest'opera il poligrafo veneziano prende in esame l'ordinamento politico di diversi Stati, tra cui quello della Chiesa; otto monarchie a lui contemporanee, vale a dire Francia, Principati germanici, Inghilterra, Spagna, Imperio Ottomano, Persia, Tunisia e Marocco; otto repubbliche tra cui tre antiche, Roma, Sparta, Atene, e cinque a lui coeve, Svizzera, Ragusa, Genova, Lucca, Venezia. In ultima istanza l'autore presenta il “governo della republica d’Utopia di Tomaso Moro da Londra”.

Come avvenne nella traduzione tedesca di Cantiuncula, anche il Sansovino pubblica soltanto il secondo libro dell’Utopia, dichiarando di aver migliorato “quelle cose che mi son venute alle mani già fatte volgari da altre persone”. Dichara ancora: “le ho messe come elle stanno, fuor solamente che io le ho racconciate alquanto” (apud Firpo, 1977, p. 49). L'intervento del Sansovino era probabilmente teso ad attenuare i lombardismi impiegati dal Lando; inoltre egli trascura sia il primo libro dell'Utopia che la lettera che Morus aveva indirizzato a Gillis, entrambi presenti nell’edizione del Doni; preme ricordare che nella versione del Sansovino l'opera è preceduta invece da una dedica a Girolamo Fava.

L'edizione su cui intendo concentrarmi in questa sede è quella pubblicata dal Doni nel 1548.

Non mi soffermerò sui problemi relativi all’attribuzione della traduzione al Lando, argomenti già trattati da Scrivano (1980) e Menchi (1996), i quali la danno per certa, anche se basandosi su ipotesi. Appare tuttavia evidente come tanto per il Lando quanto per il Doni, l’Utopia abbia rappresentato più di un’ispirazione letteraria, “un tratto d’identità”, nelle parole di Menchi (1996, p.

2 Cf. Logan e Adams in More, 2009; Prévost, 1971; Imbroscio, 1986; Benrekassa, 1980.

3 Questo raggionamento fu tratto da un brano del romanzo Ararat, di Frank Westerman, che mi è stato gentilmente segnalato dal prof. Carlos Berriel: “Il numero immaginario i semplicemente non poteva esistere, ma l’idea di fondo era:

d’accordo, non è possibile, ma immaginiamo che lo sia. E quando lo si immaginava, saltava fuori che era possibile servirsi di i per calcolare un’infinità di cose, e la cosa più straordinaria di tutte era che i risultati di quei calcoli potevano essere a loro volta applicati al mondo reale./ Per me tutto questo rasentava il divino. A quanto pareva, la matematica permetteva di creare mondi inesistenti che avevano comunque un effetto sulla realtà. E non era questa la prova del fatto che esisteva qualcosa di più della realtà commensurabile?” (2008, p. 116). Le informazioni sui numeri immaginari mi sono state riferite da Luis Guilherme Pereira, a cui ringrazio.

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98): il Doni, oltre ad aver pubblicato l’Utopia in vernacolo, scrisse una propria versione della città ideale, ovvero Mondo savio e pazzo, e il Lando, nell’arco di vent’anni (dal 1535 al 1555), firmò ben sei dei suoi scritti come “Philalethe Polytopiensi cive”, “Pilalethis ex Utopia civis”, “Filalete cittadino di utopia”, “Anonymo di Utopia”, “Anonimo di Utopia” e “Anonimo Utopiense”4.

La ricezione dell’Utopia di Morus in terra d'Italia, e più latamente in seno agli ambienti culturali della Serenissima, si inserisce in quel nuovo contesto di letterati che, come il Lando stesso, scrivevano libri e piccoli testi sui più svariati argomenti, nonostante si trovassero fuori da contesti aristocratici o più specificamente cortigiani. Grendler (1969) fornisce un ritratto socio-economico dettagliato di questi poligrafi che in genere avevano un’origine modesta, viaggiavano spesso e si trovavano ai margini della cultura ufficiale. Un altro tratto comune di questo gruppo è il suo dichiarato anticiceronianismo, che aveva visto in Erasmo il suo principale sostenitore. Nel Dialogo ciceroniano, l'erudito olandese combatte un gruppo di umanisti italiani, tra i quali Poggio Bracciolini, Pietro Bembo e Jacopo Sadoleto. Questo anticiceronianismo, già presente in Morus, dava proseguimento alla battaglia sorta agli inizi del Cinquecento contro gli studi greci e comportava, come ha rilevato Eric Nelson, un rifiuto dei valori civici romani. Tra i valori rifiutati risultano quelli compresi in una teoria della giustizia (che giustificava la proprietà privata) e la ricerca di onore e gloria come finalità della vita civica5. Lando aveva partecipato a questo dibattito col suo Cicero relegatus et reuocatus (1529) e con altre opere: tali scritti consentono allo studioso moderno di inserire il Lando nella cerchia degli erasmiani più radicali. Grendler e Scrivano vedono in lui un evangelismo diffuso, e Menchi, andando ancora più oltre, vede un’“eresia teologicamente agguerrita, venata di motivi radicali e antitrinitari, che non poteva non avere una ricaduta nella prassi” (1996, p. 116). È in questo contesto che si introduce la prima traduzione dell’Utopia in volgare italiano, che ora confronterò con l’edizione pubblicata a Basilea nel 1518. Per tale analisi mi servirò di cinque brani tratti dal frontespizio e dal libro I.

Dal confronto dei due frontespizi emerge come “noua insula Utopia” è stata resa in un semplice “isola Eutopia”, il che scioglie, da subito, l’ambiguità del senso della parola coniata da Morus, e ne annulla la polisemia. “Eutopia” suggerisce che il posto immaginario descritto da Morus

4 Lando non fu l’unico a fare ricorso a pseudonimi che alludono all’Utopia. Su altri letterati che fecero la medesima scelta, si vedano Menchi, 1996, p. 98, n. 10 e Céard, 1996, p. 55. Per Nelson, “it is therefore far from mysterious that Lando […] should have become so immediately devoted to More and his Utopia.” (2006, p. 1045).

5 Secondo Erasmo, “the fetish for Cicero amounted to a wholesale endorsement of the Roman scale of values to which he [Erasmus] so gravely objected; it smacked, in his account, of the sort of paganism which assimilated Jesus himself to the mold of a Roman hero who faces death in the service of his respublica for the sake of honor, glory, and a bronze statue in the forum.” (Nelson, 2006, p. 1042-1043). Sull’opposizione tra filosofia morale e politica romana e greca, cf.

Nelson, 2006.

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sia un “luogo felice”6, dotato più di una potenziale concretezza rispetto a un “non-luogo” (ou- topia), che non porta in sé un giudizio di valore. Firpo (1977, p. 48) suggerisce che tale scelta, presente anche nel sommario dell’edizione italiana, sia un errore di traduzione del titolo, tenendo conto del fatto che nel restante dell’opera si mantiene la grafia “utopia”.

Nel sottotitolo latino si legge che il libellus aureus è “nec minus salutaris quam festiuus”

[“non meno salutare che divertente”], parole che si riferiscono a una lunga tradizione letteraria che affonda le sue radici nel celebre precetto oraziano dell'“essere utile oppure dilettevole” (prodesse aut delectare, cf. Orazio, Ars poet., 333). Il delectare implicito in festiuus sparisce del titolo italiano – “storia non meno vtile che necessaria” – e riappare nella dedica a Girolamo Fava, in modo rafforzato e senza qualsiasi menzione all’utilità del testo: “ne haurete sommo diletto, & non picciol contento: che più, leggendo il libretto intenderete cose belissime”.

L’uso della lingua del libro I dell’Utopia è stato oggetto di scarsa attenzione da parte dei traduttori in generale, ma non è per questo meno importante (considerando l'impossibilità di separare la forma dal significato, la “lettera” dallo “spirito”): mi riferisco ai brani in cui figurano giochi di parole, molto ricorrenti lungo tutta l'Utopia, ma di rado mantenuti nella lingua d'arrivo.

Erasmo dà prova di averli percepiti dichiarando nel suo Dialogo ciceroniano che Morus “si è dedicato per molto tempo a scrivere poesia”, per questo “nella sua prosa riconoscerai il poeta”

(2013, p. 175).

Nella lettera di Morus a Gillis, che funge da prefazione a quasi tutte le edizioni dell’Utopia, si legge che la narrazione di Hythlodaeus è dotata di una “scurata semplicità” (neglecta simplicitas); ciò può indurre il lettore (e il traduttore) a trascurare inconsapevolmente l’aspetto

“poetico” della prosa moreana. Secondo il Morus, questa “semplicità” si deve al fatto che il marinaio portoghese conosce il greco meglio del latino (“deinde hominis, ut scis, non perinde Latine docti quam Graece”). Quindi, nel riprodurre lo stile di Hythlodaeus, Morus afferma che sarebbe stato fedele a quanto gli era stato narrato, avvicinandosi dunque alla precisione e alla verità (“mea oratio quanto accederet propius ad illius negrectam simplicitatem, tanto futura sit propior ueritati, cui hac in re soli curam et debeo et habeo”). Nella medesima epistola, ancora un’informazione induce il lettore ad aspettarsi un testo “semplice”: Morus riconosce di non avere

6 L’Utopia è detta una Eutopia nella sestina “del poeta laureato Anemolio” (componimento peraltro scarsamente pubblicato nelle edizioni vernacolari del Cinquecento), in cui Utopia, personficata, parla in prima persona: Vtopia priscis dicta, ob infrequentiam,/ Nunc ciuitatis aemula Platonicae,/ Fortasse uictrix (nam quod illa literis/ Deliniauit, hoc ego una praestiti,/ Viris & opibus, optimisque legibus)/ Eutopia merito sum uocanda nomine. (“Gli antichi mi chiamarono Utopia per il mio isolamento; adesso sono emula della repubblica di Platone, e forse la supero (infatti ciò che quella a parole ha tratteggiato, io sola lo attuo con le persone, i beni, le ottime leggi), sicché a buon diritto merito di esser chiamata Eutopia” [Traduzione di Luigi Firpo, in More, 1990, p. 65]. AN traduce ob infrequentiam in portoghese in “em razão do isolamento”; nelle CW, si legge “because of my isolation”] (Poema latino reprodotto in Morus, 2006, p.

135).

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né tempo, né talento per scrivere con ingegno, per questo si limiterà a scrivere con semplicità, quello che gli è stato riferito (simpliciter scriberentur audita)7. Una lettura del libro I, che è costituito principalmente da lunghe repliche di Hythlodaeus, smentisce tuttavia questa argomentazione. Secondo Erasmo, la prosa di Morus “si inclina piuttosto alla struttura isocratica e alla sottigliezza dialettica che a quella scorrevolezza dello stile ciceroniano, anche se non inferiore a Marco Tullio in eleganza.” (2013, p. 175). Appare opportuno ricordare che, nel 1523, l'umanista spagnolo Juan Luis Vives consigliava la lettura dell’Utopia tanto per l’uso della lingua quanto per i temi in essa trattati8.

Uno degli aspetti rilevanti della prosa moreana, ovvero i giochi sonoro-semantici, prova quanto aveva ragione Erasmo9. Ne vedremo cinque nella traduzione di Ortensio Lando (abbreviato OL), confrontando la sua versione con quelle di Tommaso Fiori (TF), Luigi Firpo (LF) e Andrea Balduzzi (AB). Non intendo fornire un confronto esauriente, ma mi limiterò a segnalare soltanto la presenza o meno di giochi sonoro-semantici.10

Il brano 1 è parte della risposta di Hythlodaeus a Pieter che, dopo aver sentito il discorso di Raphael riguardo i modi di vivere e le istituzioni dei diversi popoli che aveva conosciuto lungo i suoi viaggi attraverso il mondo, suggerisce che tanta esperienza poteva rivelarsi utile a un re, che trarrebbe vantaggio dai suoi consigli, il che avrebbe come conseguenza il miglioramento delle condizioni di vita di Hythlodaeus e dei suoi parenti. Raphael risponde che la sua famiglia non dovrebbe aspettare di migliorare di vita al prezzo che egli divenisse servo di un re, poiché egli già aveva condiviso i suoi beni con i propri parenti:

1 – [Hitlodeu:] [...] quos debere puto hac mea esse benignitate contentos, neque id exigere atque

expectare praeterea, ut memet eorum causa regibus in seruitium dedam. [Pieter:] Bona uerba inquit Petrus, mihi uisum est non ut seruias regibus, sed inseruias. [Hitlodeu:] Hoc est inquit ille, una syllaba plusquam seruias. (CW 54/27-2817)

7 Abbiamo qui il topos della confessio humilitatis che si presta al gioco della verosimiglianza.

8 Questa informazione è riportata da Surtz: “Already in October 1523, in response to Catherine of Aragon’s request for a program of study for Princess Mary, Vives was recommending the Utopia for both style and content: ‘Auctores in quibus versabitur, ii erunt qui pariter et linguam et mores excolant, atque instituant; quique non modo bene scire doceant, sed bene vivere; hujusmodi sunt Cicero, Seneca, Plutarchi opera…, aliquot Platonis opera, praesertim qui ad rempublicam gubernandam spectant, … Erasmi institutio principis, … Thomas Mori Utopia.’” (apud Surtz, 1967, p.

109, n. 8).

9 Una prima analisi dei brani che prenderò in esame in questa sede è stata da me svolta nel mio intervento, “Traduzindo os recursos sonoros do livro I da Utopia para o português do Brasil”, presentato al 62th Annual Meeting of the Renaissance Society of America, presso la Humboldt Universtät, in Berlino, dal 26 al 28 marzo 2015.

10 Il numero che segue il brano citato si riferisce alla pagina dell’edizione consultata.

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OL: [...] penso che debbano starsi contenti di questa mia benignita, senza aspettare che per loro causa io mi faccia seruo dei Re. Io disse Pietro non chiamo questa seruitu, má giudico questa uia essere acconcia non solamente di giouare à gli altri in publico e priuatamente, má etiandio à fare lo stato tuo piu felice. (11)

TF: Credo perciò che della mia bontà debbano essere contenti e non pretendere o aspettare che, per loro, io mi faccia servo di re.

- Piano! piano! – esclamò Pietro. – Io voglio parlare di servigio, non di servitù.

- Si tratta di una sola sillaba di differenza! – replicò l’altro. (17)

LF: [...] i quali ritengo che debbano dirsi paghi di questa mia generosità e non possano pretendere o aspettarsi che mi vada ad asservire ad un re per loro tornaconto.

- Sagge parole! – disse Pieter – ma io non avevo parlato di “asservire”, bensì solo di “servire” un re.

- Si tratta appena di uma sillaba in più – replicò l’altro. (109)

AB: “Penso che amici e familiari debbano essere soddisfatti di ciò che ho fatto e non chiedermi di diventare servo di un re a vantaggio loro.”

“Piano, piano! – esclamò Peter -. Io sto parlando di servizio e non di servitù.”

Raffaele replicò: “Poche lettere non fanno la differenza.”

Il gioco con le parole seruitium (“servitù”11), seruias (“serva”12), che appare due volte, e inseruias (“serva agli interessi di”13) mette a confronto tre vocaboli con la stessa radice, perciò simili nel suono, tuttavia diversi nel significato. Tali aspetti vengono rinforzati dalla replica di Pieter e dalla controreplica di Hythlodaeus.

OL ha ridotto le ripetizioni alla metà, sopprimendo il sintagma bona uerba, omettendo così il giudizio di valore di Hythlodaeus rigardo le parole di Pieter (mantenuto invece nella traduzione di LF); OL ha trasposto la proposizione avversativa sed inseruias mediante la traduzione letterale della congiunzione "sed" in "ma", mentre traduce liberamente il verbo inseruias, attraverso lo sviluppo di una breve considerazione riguardo il concetto insito nel verbo stesso. Inoltre elimina la controreplica che fa luce sul gioco paronomastico.

11 Cf. voce servitium: 1 The condition of being a slave or servant, slavery, bondage. (OLD).

12 Cf. voce servio: 1 To serve (a master) in the capacity of slave, wait on, to be servant of; 2 To be politically subject; 3 To put one’s self at the service of, labour for; 4 To act in subservience, subordinate one’s actions; 5 To be at the service of, be employed (for), to serve (for), to duty (as). (OLD).

13 Cf. voce inservio: 1 To serve the interests of; devote or attach oneself to. (OLD).

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TF, LF e AB hanno mantenuto i giochi di parole, ma hanno soppresso la ripetizione enfatica di seruias nella controreplica. LF avrebbe potuto mantenerla, dato che, nonostante non abbia conservato nella sua traduzione la flessione verbale, è riuscito a mantenere la differenza di una sillaba delle parole latine seruias e inseruias con due infinitivi (“asservire” e “servire”). Il testo latino della controreplica recita: “Lì non vi è altro – disse lui – che una sillaba in più rispetto a seruias [“serva”].”

Il secondo brano è stato tratto da una delle repliche di Hythlodaeus, in cui egli riproduce il dialogo tenutosi tra lui, un avvocato e il cardinale Morton. Tale passo è preceduto dall'analisi, fatta da Hythlodaeus, pertinente i motivi che spingono le persone a rubare, tra cui spicca in primis l’allevamento di pecore: esse diventano devoratrici di uomini (l’immagine delle pecore che divorano gli uomini, in CW 64/31-33-66/1, è forse la più celebre del libro I). I proprietari terrieri, non più soddisfatti dei propri guadagni, trasformano tutte le loro terre in pascolo per le pecore, abbandonando la coltivazione della terra e scacciando i contadini. Sono questi proprietari i soggetti dei verbi riportati nel brano 2.

2 – [Hitlodeu:] […] nihil in publicum prosint, nisi etiam obsint, […] (66/6)

OL: [...] senza giouare à la republ. anzi noiandola, [...] (14)

TF: [...] senz’essere di alcun vantaggio al pubblico, quando non siano di danno, [...] (24)

LF: [...] disutili alla comunità, quando non sono addirittura nocivi, [...] (118)

AB: [...] del tutto inutili alla società, [...] (204)

Ecco nel testo latino due parallelismi. In primo luogo, prosint14/obsint15. I prefissi pro- e ob- creano sensi opposti (“essere benefico” / “essere pregiudiziale”) in due verbi formati dallo stesso radicale (sum, del verbo esse). Si può notare che nessuna delle traduzioni mantiene la risorsa sonoro-poetica della paronomasia che, dalla ripetizione della forma, enfatizza l’antonimia.

14 Cf. voce prosum: 2 (of concr. or abstr. things) To be helpful, advantageous, beneficial, etc. (OLD).

15 Cf. voce obsum: To be a hindrance, nuisance, or disadvantage (to), to be prejudicial to the interests of, do harm.

(OLD).

(10)

In secondo luogo, il parallelismo si trova anche nella ripetizione della prima sillaba in nihil/nisi, due litoti che accentuano l’idea di negazione. L’unica traduzione in cui qualche elemento di questa seconda iterazione è stata mantenuta è quella di OL, in “senza”/”anzi”.

Oltre al brano appena citato, all'interno della replica proferita da Hythlodaeus figurano anche i brani 3, 4 e 5. In tale replica vengono affrontati gli aspetti finanziari dei disordini economici risultanti dall’allevamento estensivo di pecore: la concentrazione del commercio di lana nelle mani di pochi, che mantengono prezzi elevati, indipendentemente dal numero di pecore.

3 - [Hitlodeu:] Quod si maxime increscat ouium numerus, precio nihil decrescit tamen (CW 68/4- 5).

OL: [...] senza giovare à la republ. anzi noiandola, [...] (15)

TF: Ma se anche dovesse crescere al massimo il numero di tali bestie, non per questo ne diminuisce il prezzo; [...] (26)

LF: Ma anche se il numero degli ovini dovesse crescere a dismisura, il prezzo non calerebbe [...]

(120)

AB: In ogni caso, il prezzo non diminuirebbe anche se aumentasse il numero delle pecore allevate, [...] (205)

In questo brano, increscat16 e decrescit17 sono termini composti che si assomigliano nella forma. Tuttavia sono distinti dal prefisso (in-/de-) e dal tempo verbale. Nessuna delle traduzioni mantengono la paronomasia che crea una tensione semantica per mezzo dell’iterazione del verbo primitivo “crescere” (cresco).

4 – [Hitlodeu:] […] quod earum, si monopolium appellari non potest (quod non unus uendit), certe oligopolium est. (CW 68/6-7)

OL: non tradotto.

16 Cf. voce incresco: 1 To develop, grow. [...] c To increase in numer or amount. (OLD)

17 Cf. voce decresco: 1 To grow smaller in size, dwindle, shrink (OLD)

(11)

TF: [...] se non formano monopolio nelle mani di uno solo (non è uno solo a vendere), sono un oligopolio, [...] (26)

LF: [...] perché, se non si può chiamare monopolio uma vendita che non è fatta da uno solo, certo che si tratta di oligopolio. (120)

AB: non tradotto.

Nel quarto brano abbiamo una corrispondenza sonora tra monopolium 18 [...] non potest/oligopolium est19, costituita da due sostantivi neutri e dalla ripetizione del verbo primitivo in potest (“può”), che risuona con est (“è”). Anche qui si può dire che il senso è accentuato dalle figure di suono. Soltanto il parallelismo monopolio/oligopolio è stato conservato da TF e LF. In OL e AB questa proposizione è stata eliminata.

Come già ricordato, la lunga replica di Hythlodaeus, in cui egli racconta il dialogo tenutosi durante una cena a casa del cardinale Morton, include anche il brano 5. Tratto da una passo chiamato intermezzo comico (“intermède comique”) da Prévost (1978), il brano in questione riguarda due personaggi della cena: un parassita che imitava un buffone30 e un frate mendicante. Il brano fa parte della descrizione fatta da Hythlodaeus di questo buffone che, accorgendosi di riscuotere successo nel prendersi gioco del frate, equiparandolo ad un vagabondo, persiste nel provocarlo. Alla fine, il buffone si rivela saggio, mentre il frate, sciocco.20

5 – [Hitlodeu:] Iam scurra serio scurrari coepit. (CW 82/28)

OL: Allhora il Boffone da douero boffonegiando disse. (18)

TF: Allora il buffone, buffoneggiando sul serio

18 Cf. voce monopolium: The right of exclusive sale of a commodity, monopoly. (OLD)

19 Cf. voce oligopolium: né il Thesaurus Linguae Latinae, OLD, né il Gaffiot registrano questa parola.

20 Il topos dell’inversione di valori è presente tanto nell’Utopia quanto nell’Elogio della folia di Erasmo, ed è sviluppato in momenti diversi e a vari livelli. Cf. in proposito, Marc’Hadour, 1971.

(12)

LF: Allora sí che il buffone, trovandosi sul proprio terreno, cominciò per davvero a dire buffonate:

[...] (130)

AB: Allora il buffone prese a fare a clown sul serio [...] (214)

La ripetizione del radicale per la giustapposizione di scurra21/scurrari22 intensifica la forza semantica (cf. Lausberg, 2004, p. 181), mettendo in rilievo il personaggio e le azioni del buffone.

AB è stato l’unico a non mantenere questa ripetizione del radicale.

Nelle traduzioni di TF e AB si mantiene l’opposizione follia/serietà (serio), che percorre tutta l’Utopia (e che rimanda all'Elogio della follia).23

In ultima analisi, a partire da questi esempi, possiamo constatare che la traduzione di Ortensio Lando, benché cronologicamente più vicina al testo originale, non mantiene in modo sistematico (almeno nel campione che abbiamo preso in esame) l'impronta stilistica di una prosa contrasegnata da risorse sonoro-semantiche, “musicali” (cf. Prévost, 1978). Questa mancanza è in larga misura condivisa dagli altri traduttori fin qui passati in rassegna; tale assenza è forse dovuta a tre fattori:

1. La difficoltà di tradurre la coincidenza tra forma e senso;

2. Il trascurare le potenzialità espressive delle ripetizioni;

3. Il non riconoscere l’Utopia come un testo scritto in una prosa poetica, nella quale anche la forma trasmette significato.

Sulla scorta di questa breve analisi ci si possono porre delle domande riguardo il senso di questa prosa poetica. Come capire la forma letteraria di un testo finzionale così paradossale come l’Utopia? Ricordandoci l’esempio dei numeri immaginari, come mettere in relazione l’uso della prosa poetica con i temi espressi in essa, come i problemi così concreti derivati dal passaggio di un’ordine socio-economico (il feudalesimo) a un’altro (il capitalismo)? Queste sono questioni che intendo indagare in un'altra sede.

Tradotto da Ana Cláudia Romano Ribeiro e Anderson Magalhães

21 Cf. voce scurra: A fashionable city idler, ‘man about town’; (the term came to be used mainly w. ref. to the offensive wit affected by such a person, and from Augustan times denoted a professional buffoon, or sim). (OLD).

22 Cf. voce scurror: To play the scurra, i.e. dine off one’s jokes. (OLD).

23 Su ironia, satira e ambiguità nell’Utopia si veda, ad esempio, Heiserman (1963) e McCutcheon (1971).

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Referências

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