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da Casa Madre Anno 99 - N. 06 / Giugno Perstiterunt in Amore Fraternitatis Istituto Missioni Consolata

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Perstiterunt in Amore Fraternitatis

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Anno 99 - N. 06 / Giugno - 2017

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FRAMMENTI DI LUCE

P. Giuseppe Ronco, IMC

CONSOLATE IL MIO POPOLO

La festa della Consolata, celebrata il 20 giugno di

ogni anno, porta sempre gioia in casa nostra. E’ il giorno in cui si festeggia la Madre, ringraziandola e offrendole come dono il desiderio di imitarla nel suo atteggiamento di consolazione dell’umanità. La missione consolatrice di Maria si è resa universale sul Calvario, quando Gesù l’ha offerta come madre a tutta la Chiesa, guida e conforto ai figli pellegrinanti sulla terra. Il genio di Michelangelo seppe scolpire nel marmo questa nuova vocazione di Maria, da tutti considerata come la vera pietas, l’eusebeia. Pur affranta dal dolore per la morte del Figlio, essa sa offrirlo con gioia al mondo, quasi come una nuova maternità, come salvatore: la morte del Figlio genera il mondo nuovo!

Prendendo Maria come madre e compagna di vita in casa propria, i fedeli troveranno aiuto e sollievo nel loro impegno quotidiano di santità. “Come non sospireremo a te, che sei la consolazione dei miseri, il rifugio dei fuggiaschi, la liberazione dei prigionieri, la medicina degli infermi, la madre dei piccoli, la sposa degli adulti, la condottiera dei combattenti, la sovrana di tutti e perfino dei nemici?” (GIACOMO DA MILANO, Meditazione sull’antifona Salve Regina)

Maria rimane per noi la madre esemplare e il modello di consolazione che suggerisce atteggiamenti e azioni tese a rendere felici chi è triste, ad aiutare chi è nel bisogno, a liberare chi è legato da corde di schiavitù e ci invita a trasformare la consolazione in virtù e missione. Colei che ha

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sperimentato di persona la beatitudine di “quelli che piangono” ci incoraggia ad accogliere, con tenerezza e rispetto, ogni emarginato che a noi si avvicina, ogni persona scartata dalla società ma preziosa agli occhi di Dio, perché “Chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me” (Mt 18,5).

Consolando, anche noi riceviamo consolazione!

Oggi che è la tua festa ti voglio parlare

dei tuoi missionari.

Portan nel mondo il tuo nome, la Luce che nel tuo grembo s’accese. Certo, tutti li conosci

a uno – a uno.

Ti prego: fa’ loro sentire, oggi (non lo scorderanno mai più) Il brivido

Di una tua carezza vera.

(P. Ugo Viglino, La Consolata, 1987)

La consolazione

Il verbo greco Parakaleìn, nhm in ebraico, normalmente usato per indicare l’atto del consolare, significa “chiamare accanto”, “far venire a sé”. Dice immediatamente che la prima azione del consolare consiste nel creare una prossimità, nel far si “presenza accanto” a chi è nella desolazione e nella solitudine, o nella sofferenza.

La consolazione presuppone sempre una relazione di mutua fiducia tra due persone. Entrare, infatti, nella sofferenza del fratello con dolcezza ed empatia non è impresa facile.

L’esercizio della consolazione non ha un luogo specifico in cui praticarsi, così come non conosce categorie di persone particolari a cui rivolgersi. Il luogo in cui si realizza è ovunque e per tutti, privilegiando certamente coloro su cui pesa il titolo di umanità abbruttita o persona di scarto. Il prossimo infatti non è legato ad un luogo, ma è una persona che si decide di incontrare, non tanto perché è nel bisogno, ma in quanto persona umana.

A volte si incontra un malato o una vedova, a volte ci si imbatte in persone senza casa e senza fissa dimora, a volte ancora incrociamo persone disfatte dalla vita, dalla droga, dal crimine. L’importante è saperle vedere là dove sono, nei bassifondi o nei quartieri bene, nelle loro periferie esistenziali, senza essere noi a stabilire dove incontrarli.

La vera consolazione non si riduce però ad offrire soltanto affetto e solidarietà, ma si preoccupa di migliorare l’atteggiamento delle persone che vivono in situazioni di sofferenza fisica o morale, di vecchiaia, di solitudine o di abbandono. Manifesta attenzione a chi ci sta accanto, ascoltando la fatica di vivere del fratello scoraggiato, e condividendo con lui la speranza di un avvenire migliore. “Concedi al tuo servo un cuore capace di ascolto (lev shomea) perché sappia rendere giustizia al tuo popolo” (1 Re 3, 9): era la preghiera di Salomone

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Si rapporta con amore alla persona in difficoltà, usando una sapienza relazionale che trova origine nel savoir faire cristiano, fatto di gesti, di vicinanza fisica, che possono far sentire non solo il nostro calore umano, ma anche la presenza stessa di Gesù come segno concreto dell’amore del Padre.

Si fa contemplazione orante della storia del povero che vive vicino a noi, con sguardo partecipativo e compassionevole, per entrare nel suo mistero, mostrandogli solidarietà e comprensione.

E intercede presso Dio per tutti, dando voce a chi forse non ha più la forza di pregare, affinché le situazioni di malessere incontrate si modifichino e si manifesti la potenza del Creatore.

Fonda le sue radici e trova la forza di azione nella convinzione che il Signore della storia vuole la felicità del suo popolo e spinge noi missionari ad essere “testimoni della misericordia e tenerezza del Signore, che scuote i rassegnati, rianima gli sfiduciati, accende il fuoco della speranza” (Francesco, 7 dicembre 2014).

Saper consolare presuppone soprattutto una vita vissuta in santità. Vale ancor oggi per la consolazione, quello che si dice di S. Vincenzo de Paoli per la carità: “Non è la carità che lo ha

fatto santo, ma è stata la santità che lo ha reso capace di carità”.

Ogni persona umana, nella vita, sperimenta varie afflizioni e sofferenze bisognose di consolazione, ma la più bruciante e permanente riguarda il bisogno dell’uomo di essere in comunione con Dio. Già Agostino l’aveva vissuta, scrivendo nelle Confessioni: “Ci hai fatti per Te e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in te” (Le Confessioni, I,1,1). E’ un’afflizione esistenziale che si placa soltanto quando si percepisce nel profondo di noi stessi che Dio ci ama, che non ci abbandona mai, e che fa strada con noi. Allora, il cuore inquieto si placa, trova il riposo e la consolazione vera.

Il consolatore per eccellenza è Dio

“Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione. Egli ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio” (2 Cor. 1, 3-4).

Queste parole di Paolo ci invitano a mettere la nostra attenzione non tanto sulla consolazione, ma su Colui che ci consola: Dio stesso.

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“Io, io sono il tuo consolatore” (Is 51, 12). E il salmista constata e prega: “Tu, Signore, mi hai soccorso e consolato” (Sl 86, 17). “Nel tuo otre raccogli le mie lacrime” (Ps 56,9), che “sono la sostanza liquida e salata del caos, prezzo da pagare alla nostra fragilità che si apre e viene ferita” (Alessandro D’Avenia, L’arte di essere fragili, 2016)

Il Dio consolatore si presenta con i tratti di una madre (cf. Is 66,13) e del buon pastore (cf. Is 40,11), capaci di prendersi cura dei beni loro affidati.

Ma è in Gesù, volto umano dell’amore di Dio verso l’uomo, che si rivela in modo perfetto il “Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione” (2 Cor 1,3). Qui si svela il mistero di un Dio che si china sull’uomo, sui poveri, sofferenti, umiliati, dimentica ti, soli e abbandonati, perché possano alzare lo sguardo e ricominciare a sperare.

Il Vangelo nel suo insieme è un messaggio di consolazione, liberazione e salvezza per i poveri, gli afflitti ed i piccoli mostrando Gesù che viene incontro all’uomo per consolarlo, morendo e risorgendo per lui.

Il libro dell’Apocalisse infatti presenta il Risorto come colui che dona all’umanità la massima consolazione: “Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio-con-loro”. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate”(Ap 21,3-4).

Gesù ci consola anche inviandoci lo Spirto Santo, “il Consolatore” (Gv 14,16), sostegno nelle prove e portatore di una speranza che non delude.

“Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore” (Lc 4, 18-19).

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La nostra consolazione sta nel consolare

Se il dovere di consolare riguarda ogni cristiano, al missionario è richiesto il di più.

Il grido di Qohelet risuona ancor oggi più vivo che mai: “Ho considerato tutte le oppressioni che si commettono sotto il sole. Ecco il pianto degli oppressi, che non hanno chi li consoli; da parte dei loro oppressori sta la violenza, mentre per essi non c’è chi li consoli” (Qo 4, 1).

Come Gesù, anche il discepolo si propone di incontrare l’altro nella sua periferia spirituale o esistenziale mentre si vive il quotidiano, chiamando al banchetto del Regno “poveri, storpi, zoppi, ciechi” (Lc 14,13) e andandoli a cercare per le strade, le piazze, lungo le siepi, ai crocic chi (cf. Lc 14,21.23).

Ancora una volta vediamo come la prossimità sia essenziale per l’evangelizzazione e la consolazione. L’altro è sempre un fratello e “un fratello per il quale Cristo è morto” (1Cor 8,11).

“Le periferie esistenziali sono i luoghi in cui “c’è sofferenza, c’è sangue versato, c’è cecità che desidera vedere, ci sono prigionieri di tanti cattivi padroni” (messa crismale); sono i luoghi abitati “da tutti coloro che sono segnati da povertà fisica e intellettuale” (convegno di Roma); sono

i luoghi dove sta “chi sembra più lontano, più indifferente” (Omelia nella giornata mondiale della gioventù, Rio de Janeiro, 28 lu glio 2013), dove “Dio non c’è” (Visita pastorale ad Assisi, Incontro con il clero e i religiosi, 4 ottobre 2013); sono “le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo” (Evangelii gaudium 20). Ecco dove il Vangelo deve giungere, perché lì nessuno lo fa brillare, lo evoca, vi allude: qui sono le periferie esistenziali” (E. Bianchi, Con il vangelo nelle periferie esistenziali, Cagliari 2014).

Bisognosi di consolazione, oggi più che mei, sono i migranti e i rifugiati. Da atteggiamenti di paura, di disinteresse o di emarginazione e dalla mentalità che ci porta a vederli come “cultura dello scarto”, dobbiamo passare ad un atteggiamento che abbia alla base la “cultura dell’incontro”, l’unica capace di costruire un mondo più giusto e fraterno, un mondo migliore. “Violenza, sfruttamento, di scriminazione, emarginazione, approcci restrittivi alle libertà fondamentali, sia di individui che di collettività, sono alcuni dei principali elementi della povertà da superare. Molte volte proprio questi aspetti caratteriz zano gli spostamenti migratori, legando migrazioni e povertà. La Chiesa, rispondendo al mandato di Cristo “Andate e fate discepoli tutti i popoli”, è chiamata ad essere il Popolo di Dio che

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abbraccia tutti i popoli, e porta a tutti i popoli l’annuncio del Vangelo, poiché nel volto di ogni persona è impresso il volto di Cristo! Qui si trova la radice più profonda della dignità dell’essere umano, da rispettare e tutelare sempre. Non sono tanto i criteri di efficienza, di produttività, di ceto sociale, di appartenenza etnica o religiosa quelli che fondano la dignità della persona, ma l’essere creati a immagine e somiglianza di Dio (cfr Gen 1,26-27) e, ancora di più, l’essere figli di Dio; ogni essere umano è figlio di Dio! In lui è impressa l’immagine di Cristo!” (Francesco, Messaggio per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato, 2014).

Nell’esercizio della consolazione occorre l’ atteggiamento umile di chi sa proporre con mitezza e dolcezza.

“Rivestitevi di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza” (Col 3,12) – vuole indicare lo stile con cui il Vangelo può raggiungere le periferie esistenziali, lo stile da assumere nel vivere il Vangelo della carità, lo stile della vostra azione che

possiamo definire diakonía, servizio, Questo perché il Vangelo non è tale solo per il contenuto ma deve essere annunciato con uno stile adeguato, coerente con il messaggio stesso. L’azione caritativa dei discepoli non può essere solo un fare il bene ma deve essere un’azione che anche nelle modalità con le quali è eserci tata mostri la carità di Dio.

L’apostolo Pietro raccomanda invece ai cristiani “un bel comportamento” (anastrophé kalé: 1Pt 2,12), una pratica cordiale del confronto e dell’alterità, sen za ostentazione di certezze che mortificano o di splendori della verità che abbagliano” (E. Bianchi, ibidem).

S. Francesco “si chinava, con meravigliosa tenerezza e compassione, verso chiunque fosse afflitto da qualche sofferenza fisica, e quando notava in qualcuno

indigenza o necessità, nella dolce pietà del cuore, la considerava come una sofferenza di Cristo stesso... Sentiva sciogliersi il cuore alla presenza dei poveri e dei malati, e quando non poteva offrire l’aiuto, offriva il suo affetto” (FF 1142). Anche l’antica biografia di Antonio, scritta da Atanasio, testimonia di un uo mo reso capace di autentica consolazione, di essere mi nistro della consolazione di Dio.

“Chi andò da lui nel dolore e non tornò nella gioia ? Chi andò da lui piangendo i suoi morti e non depose subi to il lutto ? Chi andò da lui nella collera e non si con vertì a sentimenti d’amore? Chi, afflitto per la sua po vertà, venne a trovare Antonio e ascoltandolo e veden dolo non disprezzò la ricchezza e non trovò conforto nella sua povertà ? Quale monaco scoraggiato andò da lui e non divenne più saldo ? ... Quando mai andò da lui qualcuno tormentato dal demonio e non ne fu li berato? E chi andò da lui tormentato dai pensieri e non trovò la pace della mente ?”.

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PAOLO E BARNABA

p. Giuseppe Ronco, IMC

IL CULTO A SAN BARNABA

Il culto di san Barnaba, “uomo virtuoso,

pieno di Spirito Santo e di fede” (Atti 11,26),

prende origine in un passato molto antico.

Ignoriamo come abbia trascorso gli ultimi

anni di sua vita. Secondo lo scritto apocrifo

Gli atti e il martirio di S. Barnaba a Cipro,

composto nel V secolo, l’apostolo sarebbe

stato lapidato e bruciato dai giudei venuti

dalla Siria a Salamina nel 61, gelosi delle

conversioni che egli operava.

Alcuni discepoli fedeli seppellirono Barnaba in una cava, sotto un albero di carrubo a Famagosta, ad ovest di Salamina, nell’isola di Cipro. Posero sul suo petto il Vangelo di Matteo che l’apostolo teneva sempre con sé.

Gli  Atti di Barnaba  riferiscono ancora che, al tempo dell’imperatore bizantino Zenone (474-491), Barnaba sarebbe apparso nel sonno all’arcivescovo Anthemios, vescovo di Salamina, indicandogli il luogo dove scavare per ritrovare l’ipogeo che conteneva la sua sepoltura in un sarcofago. Aperta la tomba, oltre ai suoi resti mortali, fu trovato sul suo petto un esemplare del Vangelo di S. Matteo, scritto in ebraico di sua propria mano.

Su iniziativa del Vescovo Anthemios e con il finanziamento dell’imperatore di Costantinopoli Zenone, si costruì sulla tomba di Barnaba un grande Monastero, comprendente una chiesa, un convento e un’edicola. Vescovo e Imperatore sancirono definitivamente l’autocefalia della Chiesa cipriota, proclamando Barnaba fondatore della Chiesa greco ortodossa e santo patrono di Cipro.

Il suo corpo, ancor oggi visibile, fu deposto nell’abside della navata meridionale della chiesa, in un arcosolio chiuso da un coperchio forato al centro, che permetteva il contatto con le reliquie del santo.

Le reliquie

Gruppi sempre più numerosi di pellegrini venivano a pregare sulla tomba e a venerarne le reliquie, considerate come taumaturgiche.

La dimensione liturgica del culto delle reliquie ha sempre avuto come scopo di ricordare la persona stessa del santo e di stabilire con lui una mistica comunione. Si credeva fermamente alla relazione esistente tra la venerazione delle reliquie e l’intercessione del santo.

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Infatti, “La virtus, il potere miracoloso dei santi si manifesta in tutta la sua pienezza là dove riposano i loro corpi o le loro reliquie. La virtus del santo procura la salute ai viventi e la salvezza eterna ai defunti, due nozioni espresse dalla parola latina salus” (JC. Picard, Dictionnaire de spiritualitè).

L’Icona

Si incominciò anche a scrivere l’icona di Barnaba. Nell’Oriente bizantino, uno dei momenti più importanti del rito di canonizzazione è lo scoprimento dell’icona del nuovo Santo, la cui effigie che lo rappresenta nella sua dimensione di gloria da quel momento può essere venerata (cfr Vito Teti, Le Reliquie: significato teologico e spirituale, Museo della Certosa)

Nell’icona (Cf Contemplando l’icona di S. Barnaba Parrocchia S. Barnaba – Marino) Barnaba è rappresentato in piedi, uomo del Vangelo, afferrato da Cristo, totalmente e unicamente proteso verso di Lui. Il corpo slanciato e fiero veste una tunica blu , colore iconografico simbolo della divinità. Barnaba è rivestito di Cristo, per indicare la conformità al Signore Gesù, anima e forza della sua vita.

E’ l’uomo che lo Spirito ha scelto per primo per inviarlo ad annunciare il Vangelo. L’icona lo rappresenta con grandi piedi nudi. Sono i piedi resi belli dall’annuncio della Parola, i piedi del messaggero della salvezza (cfr. Is 52,7). Sono piedi liberi da ogni costrizione per correre con l’annuncio della salvezza, piedi che percorrono la Via che è il Cristo. Piedi che percorrono instancabili le vie degli uomini e della storia per aprirle alle vie di Dio. Barnaba è un annunciatore fiero, con il rotolo della Parola ben stretto nella sua mano, unico bagaglio del suo viaggio missionario, unico strumento di incontro con i fratelli. L’altra mano è vuota e benedicente: il dono che porta è la benedizione di Dio, Cristo Gesù nel quale siamo stati benedetti con ogni benedizione spirituale (cfr. Ef 1,3). Il manto che ricopre il suo corpo è rosso fuoco, segno della potenza dello Spirito che anima la sua parola, la sua vita missionaria, il suo annuncio.

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Lo sguardo aperto e fiero di Barnaba ci parla di un uomo che ha concentrato tutto di sé nella contemplazione del mistero di Cristo. Gli occhi grandi e buoni penetrano il Mistero e guardano lontano, oltre l’orizzonte del visibile a cogliere l’invisibile potenza dell’amore di Dio, come si è rivelata in Cristo. Si tratta di occhi illuminati dalla luce della fede per una sempre più profonda conoscenza di Lui (Ef 1,17-20), pronti a scorgere nella Pasqua del Cristo il dono della vita senza fine. Con questo sguardo attento, Barnaba riconosce la presenza del Signore nelle prime comunità cristiane, e sa scorgere il bisogno reale del fratello Paolo, nel momento della più grande solitudine e incomprensione, a causa di Cristo Gesù.

Memoria liturgica: 11 giugno

La memoria obbligatoria di san Barnaba, iscritto nel canone romano accanto a Stefano e Mattia, fu fissata nei calendari della città di Roma alla data dell’ 11 giugno dal secolo XI, giorno del ritrovamento del suo corpo.

Le nuove orazioni della Messa riprendono la tematica biblica che ci descrive la fisionomia e l’attività di Barnaba.

La colletta proclama Barnaba “pieno di fede e di Spirito Santo, per convertire i popoli pagani”; l’orazione sulle offerte ci fa pregare il Signore di accendere in noi “la stessa fiamma di carità, che mosse san Barnaba a portare alle genti l’annunzio del Vangelo”; l’orazione dopo la comunione ci richiama la parusia: “Signore, che nel glorioso ricordo dell’apostolo Barnaba ci hai dato il pegno della vita eterna, fa’ che un giorno contempliamo nello splendore della liturgia celeste il mistero che abbiamo celebrato nella fede”.

Nella liturgia della Parola, la prima lettura è dedicata a S. Barnaba. Di lui si evidenzia il fatto che “vide la grazia di Dio, si rallegrò” (At 11,23), e che “Mentre essi stavano celebrando il culto del Signore e digiunando, lo Spirito Santo disse: “Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati”” (At 13,2).

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il primato della Parola come forza di guarigione: «Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni» (Mt 10,7-8). L’evangelizzazione è il fondamento di ogni esperienza di guarigione e di liberazione: l’annuncio del vangelo è esso stesso guarigione. Il testo presenta altri versetti chiave: “Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone” (Mt 10,9-10).

Negli inni della liturgia delle ore sono cantate le glorie di questo discepolo di Cristo, scelto da Dio (secondo At 13,2-4) per annunciare il Vangelo con Paolo.

Nell’ufficio delle letture, Cromazio di Aquileia esalta la predicazione dell’apostolo come una teofania di Cristo: «Voi dovete brillare come fonti di luce in questo mondo, impregnati della parola di vita». Barnaba rimane il modello di una sintesi equilibrata fra le doti di onestà umana, e di un umile discernimento delle doti altrui. O Padre, che hai scelto san Barnaba,  pieno di fede e di Spirito Santo,  per convertire i popoli pagani, 

fa’ che sia sempre annunziato fedelmente,  con la parola e con le opere, 

il Vangelo di Cristo, 

che egli testimoniò con coraggio apostolico.  Per il nostro Signore Gesù Cristo

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L’ALLAMANO

NELLE TESTIMONIANZE

P. Francesco Pavese, IMC

FINEZZE DELL’ALLAMANO

L’Allamano è descritto come un uomo dignitoso,

laborioso, ordinato, forte, deciso, costante, ecc. Queste sono doti e virtù che lo hanno caratterizzato agli occhi di quanti lo hanno avuto la fortuna di conoscerlo e frequentarlo. Da sole, però, queste virtù non dicono tutta la verità sull’Allamano. C’è da aggiungere anche che era un uomo “sensibile”, come abbiamo visto il mese scorso, come pure un uomo “delicato”, come vorrei evidenziare qui. Le sue delicatezze, che lo hanno reso caro e gradito a molti, sono pure abbondantemente testimoniate.

Inizio da un particolare che esprime bene il suo abituale stato d’animo, e poi riporterò qualche semplice aneddoto che nanifesti nel concreto la sua finezza.

Il sorriso abituale dell’Allamano. Le fotografie del Fondatore, eccetto tre, ce lo presentano piuttosto serio, ma lui non era così. Si vede che di fronte all’obiettivo fotografico di quel tempo, quando l’operatore manovrava a lungo sotto un drappo nero, il Fondatore non si trovava a suo agio. Abitualmente, però, era sereno e con il volto illuminato da un soffuso sorriso. Proprio questo sorriso abituale manifestava più delle parole il suo stato d’animo. Era un uomo in pace con Dio, con se stesso e con gli altri.

Il can. Giuseppe Giobergia, rettore del seminario di Mondovì, che fu seminarista a Torino per un anno, lo espresse molto bene: «Aveva sempre un sorriso costante che gli veniva dal cuore».

Don Alessandro Cantono, sacerdote di Biella, ma allievo del Convitto, giornalista, cultore di sociologia, in due articoli pubblicati sulla rivista “Il Servo di Dio G. Allarmano Tesoriere della Consolata” negli anni 1974 e 1978, colse nel segno: «Il suo sorriso era bello ed aveva del celestiale»; «Il Can. Allarmano, irradiato da un sorriso, luce della sua anima candida e serena […], era un conoscitore d’uomini, uno psicologo, un uomo che intuiva il fondo di un individuo».

Il salesiano Don Antonio Cojazzi a chi gli domandava le impressioni del biennio trascorso al Convitto, rispose: «Ci parlava e ci guidava con un perenne sorriso sul volto».

Chi non ricorda l’episodio che sta alla base della vocazione del Fr. Benedetto Falda? Era la conclusione del primo incontro alla Consolata: «Il Canonico mi fissò col suo sguardo buono, poi mi posò una mano sulla spalla e mi disse: “-Bravo! Mi pare che ci intenderemo. […]. Allora il Fondatore mi avvolse in uno dei suoi celestiali sorrisi».

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Parole delicate e incisive sono state scritte da Mons. Giovanni Battista Ressia, Vescovo di Mondovì, compagno di classe e sincero amico del Fondatore, comunicando la notizia della morte alla diocesi: «Regala a me uno di questi sorrisi dolci che mi consolavano e spronavano ad essere più buono».

Il Fondatore sorrideva alle persone, perché prima aveva sorriso a Gesù. Sono semplici ma vere le parole del suo domestico Cesare Scovero: «Io gli servii per tanti anni e quasi ogni giorno la Messa. […]. All’elevazione era mia abitudine guardarlo perché gli veniva sempre un sorriso sincero come sorridesse a qualcuno».

Questo aspetto è uno dei più indicativi della personalità del Fondatore. È ampiamente sviluppato nella commemorazione per il 59° anniversario della morte del Fondatore, che il P. Candido Bona tenne a Bevera e che poi pubblicò nel volume “La fede e le opere”, alle pp. 353-368, dal titolo “L’incanto di un sorriso”.

Ricordi sparsi. Alcuni scorsero la “delicatezza” o “finezza” del Fondatore nelle sue parole, altri nei suoi gesti.

Anzitutto le parole. P. Giovanni Piovano ha fatto speciale attenzione per vedere, come lui stesso rivelò, se il Fondatore «parlando, avesse usato termini o espressioni volgari». Il risultato fu «che mai udii dalla bocca del Padre alcuna espressione volgare, capace di dimostrare irriflessione nel suo parlare. Le sue parole erano sempre pesate e vagliate degne di un Padre e di un maestro del Clero, come era lui».

Non solo il Fondatore era fine nel parlare, ma voleva che lo fossero anche i suoi missionari. C’è una confessione di P. Giuseppe Prina: «[Il Fondatore] più volte mi riprese perché parlavo grossolanamente, specie per le parolacce: “boia faus; cristianin; ecc.” tanto che una volta mi disse: “Tu come sei tanto cortese con quei di fuori sei grossolano con quei di casa”».

Gli episodi che dimostrano la finezza del Fondatore sono molti. In genere sono semplici, alcuni quasi insignificanti e pochi li hanno notati. Fatti da lui, però, assumono un notevole significato, perché sono compiuti con uno spirito speciale, in modo cosciente, e così diventano esemplari anche per noi.

Uno piuttosto strano, che risale al 1920, è quello raccontato da P. Carlo Masera: «Nessuna soggezione si provava alla sua presenza pur non concedendo familiarità esagerata. Ordinariamente gli chiedevo una presa di tabacco e lui l’offriva di buon grado sapendo che soffrivo qualche disturbo al capo». Si noti quel: “di buon grado”. Per esperienza il Fondatore sapeva l’effetto di una presa di tabacco per chi, come lui, soffriva di mal di testa.

Lo stesso P. C. Masera ricordò un episodio di cui lui solo fu spettatore. Si trovava alla Consolata quando il Fondatore lo invitò ad accompagnarlo in Casa Madre: «Fu provvidenziale perché in via Garibaldi mentre saliva sul tram, la vettura si mosse ch’egli non era ancora sopra ed io da terra lo sostenni mentre egli stava per cadere all’indietro. Dalla sa bocca non uscì una parola di rimprovero per nessuno».

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P. Giovanni Piovano ricordò il fatto avvenuto a S. Ignazio d’estate, del bastoncino che un vecchietto gli aveva scortecciato “con arte montanara”, perché quello che aveva visto al Fondatore non era degno di lui. Il Fondatore, uscendo per le passeggiate, lo usava sempre, così quel vecchietto lo vedeva ed era contento».

L’attenzione di padre. Verso i figli e le figlie il Fondatore aveva un’attenzione veramente paterna. Si interessava anche di minimi particolari, purché essi si trovassero bene in comunità. Sr. Adelaide Marinoni narrò che l’8 settembre, festa della Natività di Maria, il Fondatore le domandò per telefono se le suore erano allegre, proponendo un suo programma: «Oggi fate così: ponete in laboratorio la statua di Maria Bambina, adornatela, e poi io oggi verrò a trovarvi». È stato di parola e la suora commentò: «Povero Padre, temeva soffrissimo la malinconia perché poche e suppliva lui a tutto».

È pure segno di delicatezza quanto il Fondatore consigliò ad una giovane appena accettata. È lei stessa, divenuta Sr. Angelica Aschieri a ripetere

le parole del Fondatore: «Mi disse: “Ed ora vieni quando vuoi, però se vuoi scegliere il mese di maggio, la Madonna ti benedirà. Farai l’entrata dopo il ritiro annuale della Comunità. Ti prenderebbe la malinconia, quando ti trovassi con le suore tutte in silenzio!”. M’inginocchiai e ricevetti la benedizione».

La bambola e il cane. Ricordo ancora due aneddoti, successi nell’ambiente delle missionarie. Il primo riguarda la loro divisa. È risaputo che l’Allamano e il Camisassa, quando studiavano il vestito delle Suore, avevano fatto fare un modellino adattandolo su una bambola. Precisamente è questa bambola al centro dell’episodio. Sr. Lodovica Crespi confidò con semplicità: «Essendo incaricata di far pulizia, in sala (in quel tempo si trovava in un angolo di questa una bambola dell’altezza naturale di una ragazza di circa 12 anni vestita da suora come noi), togliendo la polvere dalle pareti con una grossa spazzola, questa uscì dal manico e cadde sulla testa della bambola che rotolò per terra. La raddrizzai, ma con mio rincrescimento constatai

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che la testa era rotta, e non si vedeva perché aveva la cuffia e il velo. Avendo paura del Sig. Vice Rettore, fui tentata di star zitta, ma poi mi decisi di chiedere al nostro amato Padre come dovevo fare. Temevo di consegnarmi e d’altra parte non volevo che dessero ad altre la colpa. Il nostro Venerato [Padre] si mise a ridere poi mi disse: “Sta tranquilla, siccome è già da tempo che penso di farla ritirare, prenderò questa occasione per farla ritirare in soffitta, così nessuno non saprà più niente”. Difatti alla sera non c’era più e non lo disse a nessuno».

Il secondo aneddoto riguarda un cagnolino di nome “Spot”. Il racconto è di Sr. Ferdinanda Gatti: «Durante le giornate rosse tenevamo in casa un buon cagnolino da guardia. La bestiola era affezionata a Padre e quando egli arrivava, gli correva incontro facendogli tante feste. Sovente gli si accoccolava ai piedi e non muoveva finché egli andava via. Padre si ricordava anche del cane mandando dalle suore che andavano in ufficio del periodico, il pacchettino di avanzi di cibo per la povera bestiola».

Anche P. Domenico Ferrero si è interessato al cane Spot, ricordando aspetti che non avremmo sospettato: «Riferiscono le Suore che era commovente, quando il Padre aveva inviato presso di loro la talare da rammendare, il cane vi faceva attorno delle feste e scodinzolava come se fosse il Padre stesso». Ancora: «Quando alla mensa dei Superiori del Convitto ove abitava, si mangiava il pollo, ne faceva raccogliere le ossa dal suo domestico, che poi le portava al cagnolino Spot. E una volta che lo incaricava di ciò alla mia presenza, mi disse: “Povere bestie! Non hanno che queste soddisfazioni, […]. Anche questa è una carità”».

Una simpatica conclusione a queste riflessioni possono essere le parole del sac. Torrero Simone, compagno di seminario e di qualche anno più giovane dell’Allamano: «Era un uomo grave, esemplare in tutto, esatto nei suoi doveri, dolce e affabile. Eccelleva nella dolcezza del parlare e del tratto. […]. Mi ricordo che, tanti anni fa, un mio compagno, palandomi dell’Allamano, mi diceva che a parlare col Can. Allamano sembrava gustare del miele».

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MESSAGGI PAPALI AI CAPITOLI

All’inizio dell’Udienza il Superiore Generale

P. Piero Trabucco, ha rivolto al Santo Padre il

seguente indirizzo.

Beatissimo Padre,

Siamo i Capitolari dell’Istituto Missioni

Consolata. Oggi, 19 giugno, vigilia della festa

della nostra Patrona e Titolare, la Madonna

Consolata, concludiamo il IX Capitolo

Generale. L’incontro con Vostra Santità

di-venta per noi un dono particolarmente

significativo.

Il passato sessennio di vita del nostro Istituto,

che questo Capitolo Generale conclude, è

stato marcato da due avvenimenti di grande

importanza:

1. la Beatificazione di Giuseppe Allamano, nostro Fondatore, il 7 ottobre 1990, giorno in cui la Chiesa ha messo il sigillo alla sua santità e ce lo ha proposto come modello di vita e di missione

2. l’Enciclica Redemptoris Missio, in cui

Vostra Santità ha ribadito con forza la

perenne validità della missione ad gentes e il

ruolo fondamentale che gli Istituti Missionari

hanno in essa. Abbiamo accolto l’invito a

riflettere sugli ambiti della missione e sulla

spiritualità che questa richiede e lo abbiamo

tradotto nel tema stesso del Capitolo: «I

Missionari della Consolata verso il 2000:

Quale Missione? Quale Missionario? Quale

Spirito?».

Grazie, Santità, per il Vostro insegnamento e

la Vostra testimonianza.

Il Papa si è fatto missione. La sua parola

rafforza il nostro passo missionario e ci apre

continuamente nuovi cammini di missione.

Il suo andare continuamente ad gentes, dove

maggiore è il bisogno e più urgenti l’annuncio

e la testimonianza. di Cristo, ci ,è di sprone e

incoraggiamento.

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Siamo qui, inoltre, per chiedere a Vostra

Santità la Benedizione Apostolica:

1. su tutti i Missionari della Consolata,

specialmente su quelli ammalati o affaticati,

affinché possano essere sempre fedeli alla loro

chiamata missionaria nello spirito del Beato

Allamano;

2. sui popoli e sulle comunità cristiane

affidate alle nostre cure;

3. sulle decisioni della nostra Assemblea

Capitolare affinché posano trasformarsi in

impegno e crescita spirituale e apostolica per

tutta la nostra famiglia missionaria.

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II  AI PARTECIPANTI AL CAPITOLO

GENERALE 

DEI MISSIONARI DELLA CONSOLATA

Sabato, 19 giugno 1993  

Carissimi “Missionari della Consolata”!

1. Vi ricevo oggi con profonda letizia in occasione del IX Capitolo Generale del vostro Istituto. Nel porgervi il più cordiale saluto, vi ringrazio per questa visita, segno di fede e di filiale attaccamento al Vicario di Cristo. Attraverso di voi, il mio pensiero si estende a tutti i vostri Confratelli sparsi nel mondo, che intendo ringraziare per il loro ministero generoso ed intenso. Sono, inoltre, grato al neo-eletto Superiore Generale, P. Pietro Trabucco, per le cortesi parole che mi ha rivolto, e formulo a lui, come pure al nuovo Consiglio Generale, vivissimi auguri per i prossimi impegni.

2. La celebrazione del Capitolo Generale costituisce sempre una occasione propizia non solo per rivedere le Costituzioni e la loro pratica applicazione nella realtà concreta, ma anche per rimeditare con aggiornata sensibilità il carisma del Fondatore. Si tratta spesso di una necessaria “rilettura” dell’intuizione carismatica delle origini per poter proseguire fedelmente nella direzione suggerita dallo Spirito.

Per non smarrire la vostra identità di “Missionari della Consolata”, è la personalità umile ed ardente del Beato Giuseppe Allamano che dovete incessantemente riscoprire.

In mezzo alle tante sue attività apostoliche, egli coltivava in cuore un progetto grandioso: essere missionario. Aspirazione, questa, che pure molti chierici e giovani sacerdoti dell’epoca gli avevano confidato.

Il 24 aprile 1900, festa del missionario martire San Fedele da Sigmaringa, come racconterà in seguito ai suoi figli spirituali, scrisse una lunga lettera all’Arcivescovo di Torino, il Cardinale Agostino Richelmy, suo antico compagno di Seminario, per confidargli il progetto di istituire una nuova Congregazione missionaria. Dopo ciò, “celebrai la Messa – egli aggiunge – affinché si facesse la volontà di Dio; poi senz’altro la portai alla posta e la spedii al Cardinale”. La proposta fu accolta dall’Arcivescovo e poco dopo fu approvata dai Vescovi piemontesi riuniti in conferenza. Bastarono pochi giorni all’Allamano per raccogliere alcuni sacerdoti e laici desiderosi di consacrarsi alle missioni e l’8 maggio del 1902 partirono per il Kenia i primi quattro missionari: due sacerdoti e due fratelli.

3. Carissimi Missionari della Consolata, questa è la vostra origine. Siete nati dal cuore sacerdotale e dal fervore missionario dell’umile e zelante canonico Giuseppe Allamano! A lui, pertanto, alla sua fede intrepida, alla sua ansia evangelica, al suo amore a Cristo e alle anime, dovete sempre volgere lo sguardo per rimanere fedeli alla tipica vostra spiritualità e al vostro peculiare carisma.

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Il Beato Allamano, debole di salute e scarso di mezzi, senza mai spostarsi dalla sua Torino, fondò due Congregazioni missionarie tuttora fiorenti e presenti in ben quattro continenti. Ecco i prodigi che opera il Signore.

Nel presente Capitolo generale vi siete preoccupati di far emergere queste note caratteristiche della personalità spirituale del vostro Fondatore, perché la presenza apostolica dell’Istituto risulti rinnovata e sempre più rispondente alle esigenze dell’epoca presente. Avete così posto in evidenza che ogni autentico rinnovamento presuppone la fedeltà: fedeltà al Vangelo, al proprio carisma, “ai segni dei tempi”. Restano pertanto sempre validi i moti ispiratori e gli obiettivi del vostro apostolato così come Giuseppe Allamano li aveva felicemente intuiti: una vita incentrata sull’Eucaristia e una particolare devozione a Maria Santissima, un impegno totale per la formazione degli apostoli del Vangelo.

Il vostro Fondatore continua ancor oggi a ripetervi: “Non dimenticate mai che siete missionari e che le anime si salvano con il sacrificio. Qualcuno si figura l’ideale missionario tutto poetico, dimenticando che le anime si salvano con la croce e dalla croce, come fece Gesù”. E ancora: “Ci vuol fuoco per essere apostoli. Essendo né caldi né freddi, cioè tiepidi, non si riuscirà mai a niente... Noi missionari siamo votati a dar la vita... Dovremmo essere contenti di morire sulla breccia”.

4. Carissimi fratelli! Nell’Enciclica  Redemptoris missio, considerando le difficoltà oggi esistenti, scrivevo: “Grandi ostacoli alla missionarietà della Chiesa sono anche le divisioni passate e presenti tra i cristiani, la scristianizzazione in Paesi cristiani, la diminuzione delle vocazioni all’apostolato, le contro-testimonianze di fedeli e di comunità cristiane, che non seguono nella loro vita il modello di Cristo. Ma una delle ragioni più gravi dello scarso interesse per l’impegno missionario è la mentalità indifferentista, largamente diffusa, purtroppo, anche tra cristiani, spesso radicata in visioni teologiche non corrette e improntata ad un relativismo religioso che porta a ritenere che una religione vale l’altra” (n. 36). Di fronte a tali ostacoli insidiosi, proseguite, carissimi,

serenamente nel vostro lavoro missionario.

Come il vostro Fondatore, vi dico anch’io: “Coraggio nel Signore e nella Consolata!”.

La Vergine Maria mantenga vivo nei vostri animi il desiderio di essere santi missionari, disposti ad agire solo e sempre per amore di Cristo e delle anime, in piena e docile sottomissione alla Chiesa e alle sue direttive.

Invocando su di voi l’abbondanza dei favori celesti, di gran cuore vi imparto la benedizione apostolica, che con affetto estendo ai vostri Confratelli e alle vostre attività missionarie.

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ATTIVITÀ DELLA DIREZIONE GENERALE

P. Stefano Camerlengo, IMC

UNA PAROLA “FRATERNA” SUI FRATELLI IMC

LETTERA DI FRATEL

BONFANTI ALESSANDRO

SUI FRATELLI

Caro P. Stefano,

In questi giorni tra una visita medica a l’altra ho potuto dare uno sguardo ai “Documenti di lavoro del XIII Capitolo Generale” che avete mandato a tutti i confratelli.

Ho notato che la parola “Fratelli” è quasi assente. In alcuni casi si accenna ai “Laici Missionari”. Vorrei dire che il Fratello è il vero Laico -perché siamo laici- Missionario -perché siamo dedicati alla missione per tutta la vita con i voti religiosi-. Ma non è questo il punto. Vorrei essere una sola particella di polvere di lievito per cercare di risvegliare la vocazione del Fratello.

Molti ci vedono come mezzi preti e mezzi laici. Nemmeno va bene l’immagine del Fratello come una specie di intermediario tra i fedeli e i pastori. Non siamo a metà strada fra i preti e i laici, ne a metà strada fra i pastori e i laici.

Abbiamo un carisma proprio: il servizio. Proprio come ci voleva il Padre fondatore.

L’esempio l’abbiamo da Gesù che lava i piedi e dice di fare altrettanto.

Siamo sacramento del Servizio a Dio e ai

fratelli.. Da questa parola “servizio” deriva tutto lo sviluppo del nostro lavoro, della nostra vocazione, del nostro essere nella Chiesa.

Papa Francesco a Milano il 25 Marzo scorso ha detto che oggi sembra che tutto debba “servirci”, come se tutto fosse finalizzato all’individuo: la preghiera “mi serve”, la comunità “mi serve”, la carità “mi serve”. Questo è un dato della nostra cultura. Voi siete il dono che lo Spirito ci fa per vedere che la strada giusta va al contrario: nella preghiera servo, nella comunità servo, con la solidarietà servo Dio e il prossimo. E che Dio vi doni la grazia di crescere in questo carisma di custodire il servizio nella Chiesa. Grazie per quello che fate.

Noi Fratelli siamo anziani (io stesso ho 68 anni) e molto pochi. Il sentimento più ovvio quale è? La rassegnazione? Quando ci prende la rassegnazione, viviamo con l’immaginario di un passato glorioso che, lungi dal risvegliare il carisma iniziale, ci avvolge sempre più in una pesantezza esistenziale. Tutto si fa più pesante e difficile da sollevare.

L’Allamano si sentì mosso dallo Spirito Santo in un momento concreto della storia ad essere presenza gioiosa del Vangelo per i fratelli; a rinnovare ed edificare la Chiesa come lievito nella massa, come sale e luce del mondo. Se si fosse adagiato nella sua malattia, noi -missionari della Consolata- non ci saremmo per portare

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l’annuncio del Vangelo a tutte le genti.

Oggi la realtà ci interpella, ci invita ad essere nuovamente un po’ di lievito, un po’ di sale. Ancora Papa Francesco il 25 Marzo disse: siete poche, siete pochi, siete quelli che siete, andate nelle periferie, andate ai confini a incontrarvi col Signore, a rinnovare la missione delle origini, alla Galilea del primo incontro, tornare alla Galilea del primo incontro! E questo farà bene a tutti noi, ci farà crescere, ci farà moltitudine. Mi viene alla mente adesso la confusione che avrà avuto il nostro Padre Abramo: gli hanno fatto guardare il cielo: “Conta le stelle!” - ma non poteva -, così sarà la tua discendenza”. E poi: “Il tuo unico figlio” - l’unico, l’altro se n’era andato già, ma questo aveva la promessa – “fallo salire sul monte e offrimelo in sacrificio”.

Da quella moltitudine di stelle, a sacrificare il proprio figlio: la logica di Dio non si capisce. Soltanto, si obbedisce. E questa è la strada su cui dovete andare. Scegliete le periferie, risvegliate

processi, accendete la speranza spenta e fiaccata da una società che è diventata insensibile al dolore degli altri.

Nella nostra fragilità come congregazioni possiamo farci più attenti a tante fragilità che ci circondano e trasformarle in spazio di benedizione. Sarà il momento che il Signore vi dirà: “Fermati, c’è un capretto, lì. Non sacrificare il tuo unico figlio”. Andate e portate l’“unzione” di Cristo, andate. Non vi sto cacciando via! Soltanto dico: andate a portare la missione di Cristo, il vostro carisma.

E non dimentichiamo che «quando si mette Gesù in mezzo al suo popolo, il popolo trova gioia. Sì, solo questo potrà restituirci la gioia e la speranza, solo questo ci salverà dal vivere in un atteggiamento di sopravvivenza. Per favore no alla rassegnazione. Non sopravvivere, vivere! Solo questo renderà feconda la nostra vita e manterrà vivo il nostro cuore. Mettere Gesù là dove deve stare: in mezzo al suo popolo» (Omelia nella S. Messa della Presentazione del Signore, XXI

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G.M. della vita consacrata, 2 febbraio 2017). E questo è il nostro compito.

Caro P. Stefano, un dieci minuti di riflessione sulla necessità dei Fratelli nella nostra congregazione potrebbe far bene.

Non dimentichiamo che la prima spedizione per l’Africa fu di due padri e di due Fratelli.

Buon Lavoro che la Consolata ti aiuti e ti assista e lo Spirito Santo ti illumini.

Fratel Sandro

UNA PAROLA “FRATERNA”

SUI FRATELLI

DELL’ISTITUTO!

Carissimi fratelli,

Colgo volentieri l’occasione dalla

lettera-riflessione che Fratel Alessandro Bonfanti

mi ha inviato e che abbiamo pubblicato sul

Sito in occasione della festa di San Giuseppe

lavoratore del primo maggio, per condividere

con voi alcuni pensieri sulla vocazione e la

presenza dei fratelli nella nostra famiglia

missionaria. Lo scopo di questa riflessione è

quello che, alla vigilia del Capitolo, non ci

dimentichiamo dei Fratelli e dell’importanza

della loro vocazione per la missione.

La figura del Fratello Missionario della Consolata è presente nella mente del Padre Fondatore nella fase stessa di progettazione dell’Istituto. Nel primo documento da lui elaborato per la presentazione del suo progetto alla Santa Sede egli manifesta di averlo maturato a contatto con i sacerdoti e seminaristi, ma aggiunge, come per inciso: “i laici non mancheranno” (Lettera a C. Mancini, 6 aprile 1891). Difatti, nella bozza di Regolamento dello stesso anno sono considerati sacerdoti e laici “desiderosi di dedicarsi alle missioni”, “di consacrarsi all’evangelizzazione degli infedeli”. A questa idea l’Allamano non venne mai meno nelle successive redazioni del Regolamento e delle Costituzioni. Egli esprime il suo pensiero sulla funzione dei

Fratelli nell’Istituto nelle sue Conferenze e la sua visione del Fratello va compresa tenendo conto del condizionamento giuridico, della situazione e del concetto di missione del suo tempo e anche del suo pensiero sull’Istituto.

L’Istituto è una famiglia che vive e opera in unità d’intenti. Questo è certamente un punto basilare dell’ispirazione originaria. Infatti, quando l’Allamano parla di comunione, “spirito di famiglia”, “unità d’intenti”, non esprime tanto una “strategia”, ma della motivazione che l’ha indotto a pensare alla fondazione dell’Istituto quindi, a ciò che lo deve caratterizzare. Per questo, non è pensabile che egli abbia considerato i Fratelli come a una “classe di seconda categoria”. Egli stesso, in una conferenza, s’interroga se una sola classe di membri non favorirebbe una maggiore uguaglianza. E risponde con l’immagine classica e a lui cara del corpo e delle membra. L’essenziale è che si faccia un corpo solo, in cui ognuno fa la sua parte. “Ogni membro dev’essere contento del suo stato [...]. Ognuno deve dire: Sono contento della mia posizione, aiuto anch’io a formare il corpo, anche se sono solo un dito, perché il corpo senza un dito non è perfetto” (Conferenze ai Missionari, IlI, 390). “In una Congregazione c’è questo di bello che si coopera tutti insieme a fare il bene, meritano tutti lo stesso, tanto chi scopa come chi lavora o chi studia, purché faccia quello che l’obbedienza ci comanda” (ivi, 564). Quindi: “Guai se uno dicesse: oh, sei solo un Coadiutore!” (II, 22)

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L’ideale comune a tutti è la missione. Non v’è dubbio che il fine per i Sacerdoti e i Fratelli è identico: la santificazione personale e la cooperazione all’evangelizzazione dei non cristiani. Identici sono lo spirito, le virtù cui formarsi, l’impegno di preparazione alla missione. I Fratelli sono “apostoli come gli altri loro confratelli Sacerdoti”. Per l’Allamano, lo sappiamo la vocazione missionaria è la più grande e il maggior titolo di gloria. Egli stesso si ritiene inferiore ai suoi missionari, anche Fratelli. Di qui il rispetto e l’ammirazione con cui tratta i suoi missionari, Sacerdoti e Fratelli. “Avete ricevuto la vocazione missionaria, o Sacerdote o Coadiutore [...]. Se non posso essere sacerdote, sarò coadiutore, ma sempre missionario. Anche solo un coadiutore missionario in Paradiso sarà sopra gli altri Sacerdoti [...]. E’ una bella grazia di Dio anche quella dei Coadiutori!” (III, 509). “Missionari del bene fatto senza rumore”. Una nota costante nei profili dei Fratelli è proprio questa: uomini che parlano poco, ma di grande laboriosità. Nella sua “regola di vita” M. Cavigliasso scriveva che il Fratello: “Con tutti è amico, di tutti è servo; per tutti è pronto a sacrificarsi; parla poco e opera molto”. L’umiltà richiesta dall’Allamano ai suoi Missionari sta proprio in questo. La sua ben nota e più volte dichiarata predilezione per i Fratelli non deriva soltanto dal fatto che “lavorano di più con minori soddisfazioni”, ma dalla sua visione soprannaturale di fede, dalla convinzione che il Regno di Dio non si costruisce con strombazzamenti da gran cassa, ma da chi sa lavorare nel silenzio. Si richiama spesso agli esempi di santi che scelsero di proposito o avrebbero desiderato lo stato di Coadiutori, e in quello si fecero santi: il Beato Alano, S. Alfonso Rodriguez (vedovo e portinaio), S. Francesco di Sales il quale “diceva che avrebbe più volentieri pulito i pavimenti che portato la responsabilità...”; mentre il “Padre Lainez, teologo più insigne del Concilio di Trento ha domandato la grazia di essere trattato da Coadiutore”; S. Francesco d’Assisi che non volle diventare sacerdote (cf. II, 22-23). E lo stesso S. Giuseppe la cui vita insieme con quella di Maria esalta il valore della vita quotidiana. Mette in risalto il valore della “quotidianità” di Maria al Tempio: studiava,

lavorava, pregava; della sua visita a Elisabetta per la quale faceva la vita di tutte le donne del paese.  Molti Fratelli hanno testimoniato di aver compreso questo valore amato dall’Allamano e l’hanno vissuto con gioia. Basti la testimonianza di Guido Grosso:  “Sono contento di aver aiutato a costruire altari su cui non ho mai celebrato, di aver messo assieme cattedre su cui non ho mai insegnato, di aver insaccato tanti sacchi di caffè che sono serviti ad aiutare le missioni; perché il Fratello coadiutore è chi non fa nulla che valga la pena di essere scritto, lavora e prega perché il regno di Dio venga nel mondo. E se dovessi nascere un’altra volta, mi farei missionario di nuovo, e mi farei di nuovo Coadiutore, per rendere testimonianza a Cristo, nel silenzio”.

Questa frase dovremmo incorniciarla e metterla in tutte le nostre case, esprime in sintesi l’essenza

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della nostra identità di missionari della Consolata: umili servitori e costruttori del Regno con i più poveri e abbandonati!

Oggi, sono cambiate le situazioni missionarie, e la vocazione del Fratello più che altre vocazioni soffre di questa realtà con minore coinvolgimento diretto nella realizzazione di strutture, l’utilizzazione di personale locale o di laici specializzati per un lavoro temporaneo. Per il mutare di queste situazioni, anche una specializzazione a senso unico può essere insufficiente per chi si consacra alla missione. È cresciuto  il servizio alla missione di laici non consacrati, e in particolare di coloro che s’identificano con lo spirito del Fondatore. Ciò va incoraggiato per l’allargamento dell’impegno dei battezzati per la missione, ma pone anche la necessità di un approfondimento e di una presentazione appropriata del carisma del laico consacrato come Missionario della Consolata. E va pure meglio precisato in quali forme egli può prestare un vero servizio all’interno dell’Istituto, delle sue attività e scelte preferenziali, sempre nell’ottica “allamaniana” dell’unità di intenti, dell’internazionalità e dell’interculturalità e della preferenza alla prima evangelizzazione. 

Carissimi, tutte queste problematiche che ho cercato qui di mostrare, insieme a tante altre che toccano la vita religiosa in generale, necessitano nuovi approcci e nuove dimensioni, nuovi cammini e nuove animazioni, ma non diminuiscono il valore e il dono di una vita donata con umiltà al servizio dei più poveri. Il Padre Fondatore era convinto che i Fratelli siano indispensabili alla Missione. Questa era una sua convinzione profonda e non nata soltanto a causa delle necessità concrete. Con la Fondazione dell’Istituto egli ha inteso prestare un servizio alla Missione della Chiesa e anche alle singole persone, offrendo loro la possibilità di realizzare una vocazione di totale consacrazione alla Missione.  Inoltre, la presenza dei Fratelli nell’Istituto, è per tutti noi un richiamo ad assumere gli atteggiamenti dello spirito del Fondatore che, i Fratelli, hanno dimostrato di assorbire meglio. Forse è mancata e, manca ancora, nella formazione dei Fratelli l’attenzione a questo qualcosa di tipico pur

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nell’unicità dello stesso spirito dell’Istituto. Ciò va oltre ed è più prezioso della sempre rilevata destinazione ad attività professionali o manuali.  È auspicabile una maggiore chiarezza sull’identità del Fratello e sui modi concreti di prestare il servizio missionario come laico consacrato. Una “consacrazione” e un “servizio” che lo caratterizza in modo forte e singolare. Per questo il Fratello Missionario della Consolata non si può confondere con altre forme di cooperazione laicale, com’è avvenuto alcune volte nel passato e con maggior enfasi anche oggi. In questo senso, va meglio presentata e valorizzata l’identità del Fratello Missionario della Consolata, come l’ha pensato e voluto il Beato Giuseppe Allamano.

Fratelli Carissimi, vi esorto a non lasciarvi andare allo scoraggiamento e al pessimismo, v’invito a essere profeti del dono a Dio della propria vita nell’umiltà e nel servizio, vi appoggio nell’animazione vocazionale, affinché siate voi stessi i primi animatori della vostra vocazione e continuate a essere contenti di appartenere

all’Istituto. Sappiate che tutti noi, come Missionari, vi sentiamo parte fondamentale della famiglia della Consolata.

Termino con una frase di San Francesco indirizzata ai suoi frati inviati in missione e che potrebbe diventare anche una illuminazione per noi tutti: «Siamo pochi e non abbiamo prestigio. Che cosa possiamo fare per consolidare le colonne della Chiesa? Contro i Saraceni non possiamo lottare perché non possediamo armi. E poi che cosa si ottiene combattendo? Non possiamo lottare contro gli eretici perché ci mancano argomenti dialettici e preparazione intellettuale. Noi possiamo offrire solo le armi dei piccoli, cioè: amore, povertà, pace. Che cosa possiamo mettere al servizio della Chiesa? Solo questo: vivere alla lettera il Vangelo del Signore». Che ciò avvenga anche per voi e per tutti noi! A te, carissimo Fratel Sandro e a tutti i 47 fratelli dell’Istituto, il mio ringraziamento più sincero con l’augurio che Dio ci benedica, GRAZIE! Coraggio e avanti in Domino!

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Carissimi Confratelli del Continente Europa, Con l’Assemblea Continentale Pre-Capitolare, svoltasi a Roma a cavallo tra novembre e dicembre 2016, si sono di fatto concluse le attività continentali del sessennio. In quell’occasione è stata approvata l’ultima e definitiva versione del Progetto Missionario Europeo, che vi è stato inviato insieme al resto dei documenti capitolari. Sarà ciò che presenteremo al Capitolo come frutto finale di un lavoro che ci ha coinvolti per tutti questi anni e che sarà la cornice entro cui impostare la nostra missione del futuro. Alla fine di marzo, ci siamo trovati ancora una volta come Consiglio Continentale per prepararci insieme al momento del Capitolo e per approfondire alcuni dettagli che riguardano la formazione

P. Ugo Pozzoli, IMC

SALUTO ALL'EUROPA

dei missionari che stanno completando il loro periodo di studi nel Continente.

Permettetemi allora a questo punto

qualche breve considerazione:

Innanzitutto, desidero dire il mio grazie ai confratelli che in questo sessennio hanno fatto parte del Consiglio Continentale, ovvero ai padri Carminati e Piovano (Italia), Fernandes e Butti (Portogallo), Ruiz e Pereyra (Spagna), più i padri Stock e Bovio (Polonia) e Tomás (Inghilterra). Quanto è stato fatto è frutto di sensibilità diverse, ma anche della disponibilità a lavorare insieme per un Progetto comune. La nostra è stata una bella esperienza di squadra, che ha reso più facile il mio lavoro di coordinamento. Per merito

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dello sforzo di tutti si è riusciti ad appianare le divergenze più grandi e grazie alla ricchezza e diversità dei contributi ciò che avrebbe potuto rappresentare un problema si è convertito in opportunità. Approfittando di una certa facilità di trasporto, il Consiglio Continentale ha potuto riunirsi più volte ed è stato possibile organizzare attività che aiutassero a cementare i legami tra le Circoscrizioni.

Grazie anche a tutti voi, soprattutto a coloro che a vario titolo hanno partecipato alla redazione del progetto: ai molti missionari che hanno discusso, opinato, offerto contributi; a coloro che hanno fatto parte delle commissioni di approfondimento e a chi, con pazienza, ha collaborato nella fase di redazione.

Abbiamo cercato di evitare il rischio di cadere in una facile ideologia; sappiamo infatti bene che una “continentalità” teorica, impostata come modello da costruire a tavolino, non resisterebbe alla prova del tempo; a ben vedere, la stessa parola “continentalità” non trova molto spazio nel nostro documento. Abbiamo invece ritenuto che la scelta di lavorare insieme fosse l’unico modo per affrontare, nel tempo e con efficacia, una realtà che sta cambiando velocemente e profondamente. Credo che l’intenzione di fondo dietro la stesura del nostro documento possa essere riassunta semplicemente con la seguente convinzione: “Cerchiamo di costruire noi un Progetto di missione insieme prima che la realtà ce lo imponga con la forza e ce lo faccia assumere in fretta e furia, con tutti i rischi del caso”.

L’intento di fondo è quello di dare continuità ed efficacia alla missione che già si sta portando avanti, pensando a come potrebbe essere il nostro Continente fra non molti anni, abituandoci a riflettere maggiormente insieme su ciò che facciamo e su come diamo sostegno alle nostre iniziative. Oggi, alla vigilia del Capitolo, mi sento di dire che una certa consapevolezza sta crescendo in molti missionari. Conforta vedere che chi si è coinvolto in prima persona in qualche ambito del Progetto lo ha fatto con entusiasmo e capacità critica costruttiva. Come Consiglio Continentale lamentiamo il fatto di non essere stati capaci di coinvolgere di più e meglio

tutti i missionari nelle attività del Consiglio stesso, ma siamo anche consapevoli del fatto che la costruzione di un Progetto si basa su un processo dinamico, in cui non si può avere tutto subito. Su questo punto si dovrà continuare a riflettere e lavorare perché in futuro, senza un sufficientemente coinvolgimento dei missionari e delle comunità, diventerà difficile implementare nelle Circoscrizioni quanto deciso a livello di Continente.

Proprio a questo scopo, il Progetto prevede un tempo prudente di preparazione ai cambi strutturali che sono stati ipotizzati. Il Consiglio Continentale avrà così modo di approfondire i punti che rimangono oggi più oscuri, di digerire i suggerimenti che verranno dal Capitolo Generale, dalle comunità e dai singoli missionari e di studiare la maniera migliore di conseguire gli obiettivi che il Progetto si prefigge.

La cosa importante – e su questo punto la Direzione Generale ha molto insistito – è che il cammino della riorganizzazione non si distacchi da quello della rivitalizzazione della persona, della comunità e della missione. Oggi la Chiesa, attraverso le parole di Papa Francesco, ci chiede di evangelizzare soprattutto con la forza dell’attrazione. Di qui la necessità di riscoprire quell’anelito del nostro Fondatore per

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una missione che deve sprigionarsi dalla santità se vuole considerarsi veramente tale e se vuole essere ancora attraente per potenziali candidati alla vita religiosa per la missione ad gentes e per amici e benefattori della nostra comunità IMC. Su questo aspetto non possiamo fare altro che aiutarci l’un l’altro a crescere, in spirito di verità, di servizio vicendevole e attraverso la preghiera. Un caro saluto a tutti voi. Paolo e Barnaba guidano il nostro cammino verso il Capitolo, Maria Consolata, il beato Giuseppe Allamano e la beata Irene Stefani ci aiutano ad essere fedeli ed entusiasti nella vocazione missionaria in modo da trasmettere la gioia del Vangelo alla nostra cara e vecchia Europa… che iniezione di Spirito Santo! La strada che ci attende non sarà facile, ma affidandoci a questa compagnia di santi nulla ci può essere precluso.

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CASA GENERALIZIA

P. Renzo Marcolongo, IMC

MAGGIO 2017

compagni Portoghesi hanno potuto prendersi delle foto davanti alla sua tomba.

Un altro gruppo di missionari ha invece scelto di andare a Pompei con i seminaristi di Bravetta: anche lì molte cose antiche da vedere (gli scavi di Pompei) e il Santuario per pregare.

Il primo sabato di maggio abbiamo avuto l’ultimo ritiro comunitario guidato dal padre indiano Frank Elias. Ha concluso la trilogia sull’Eucarestia spiegandocene i dettagli.

La casa si sta riempiendo velocemente di partecipanti al capitolo: Daniel Sugamo dal Messico, James Mbugua dal Brasile, Sisto Karrau dal Mozambico, Philip Njoroge dall’Amazzonia, Venanzio Mwangi dalla Colombia, Peter Makau dal Venezuela e Tamene Asaro dall’Etiopia seguono un corso intensivo di Italiano. Non sarà facile parlarlo correttamente, ma almeno permetterà di capirci durante il Capitolo.

Non tutti hanno bisogno di imparare o rinfrescare l’Italiano e per questo che dopo un paio di giorni di riposo qui in casa, se ne sono andati in giro per l’Italia a trovare amici e benefattori. Tutti saranno di ritorno per sabato 20 maggio per poter iniziare il capitolo generale.

I missionari studenti hanno lasciato le loro stanze libere per i capitolari e se ne sono andati chi a Bravetta e chi alla nostra comunità della Nomentana. Saranno di ritorno alla fine di L’ultimo notiziario di casa generalizia terminava

con la Pasqua e gli auguri a tutti per “fare, essere Pasqua”: due parole che sono state scritte sull’altare della cappella e che ci accompagneranno fino alla Pentecoste.

E’ tradizione che dopo Pasqua la comunità, o meglio, coloro che ne abbiano desiderio, facciano una gita turistico educativa. Un gruppo di noi ha scelto la città di Viterbo come meta e vi ha trascorso tutta la giornata. Viterbo è chiamata la città dei Papi perché in essa vennero eletti e vissero 12 papi.

L’episodio che attirò addirittura l’attenzione mondiale su Viterbo, fu l’elezione papale del 1268-1271, che portò  Gregorio X  al soglio pontificio: i cardinali che dovevano eleggere il successore di  Clemente IV  si riunivano inutilmente da quasi 20 mesi, quando il popolo viterbese sdegnato da tanto indugio, sotto la guida del  Capitano del popolo  Raniero Gatti, giunse alla drastica decisione di chiudere a chiave i cardinali nella sala dell’elezione (clausi cum clave), nutrirli a pane e acqua, e scoperchiare il tetto lasciandoli esposti alle intemperie, finché non avessero eletto il nuovo Papa. Storia e leggende si mescolano sovente per rendere gli avvenimenti più interessanti. 

Lì nella cattedrale c’è la tomba dell’unico Papa Portoghese: Giovanni XXI ricordato anche da Dante nella Divina Commedia, così che i nostri

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giugno. Hanno invece anche lasciato le stanze definitivamente i padri Oscar Clavijo e Alberto Minora che termineranno il loro sabbatico in altri luoghi per poi tornare l’uno in Etiopia e l’altro in Argentina. Grazie per la vostra presenza. Il consiglio generale si è radunato a intermittenza per dare gli ultimi tocchi alla preparazione del capitolo e prendere le ultime decisioni. Da parte di tutti noi residenti, un grazie per il servizio svolto da ognuno di loro nei diversi compiti svolti. Non è mai facile guidare un istituto in tempi di cambi così veloci e significativi. Che il Signore vi ricompensi.

Il mese di maggio non ha avuto molti visitatori che stessero in casa, ma alcuni sono passati: il Vescovo di Bucaramanga (Colombia) mons. Ismael Rueda Sierra, i padri Zintu Gianfranco, Giorgio Marengo e José Martins, quest’ultimo arrivato per lavorare nel settore amministrativo come revisore fiscale assieme al signor Marco Longoni.

Tra non molto la casa sarà piena di missionari che, guidati dallo Spirito Santo e dal nostro carisma, esamineranno i sei anni passati e proietteranno l’istituto verso i prossimo 6 anni. Continuiamo a pregare per il capitolo e per coloro che vi partecipano perché ci guidino con saggezza e intelligenza verso nuovi lidi.

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VITA NELLE CIRCOSCRIZIONI

Italia

Maurizio Emanueli è diventato sacerdote lo scorso 22 aprile nella chiesa di Maria Speranza Nostra a Torino, nella parrocchia dove da alcuni mesi svolgeva il suo ministero diaconale. Era diventato missionario della Consolata nel 1990, operando come diacono in missione prima e poi alla casa madre a Torino.

«Ho studiato a Nairobi e sono stato in missione dieci anni in Tanzania, tre anni a Gibuti e quattro in Kenya», ricorda il neo sacerdote. Richiamato in Italia, ha profuso tutto il suo impegno nell’infermeria della casa madre di Torino, dove stava a contatto con i sacerdoti anziani e ammalati. In preparazione all’ordinazione presbiterale, quindi, ha svolto il ministero nella parrocchia in Barriera di Milano, in particolare accompagnando le famiglie nella pastorale battesimale.

«Gesù, dopo la risurrezione, dona ai suoi discepoli lo Spirito Santo», ha sottolineato l’Arcivescovo Nosiglia, commentando il Vangelo della domenica della Divina Misericordia, «perché noi sacerdoti, noi Chiesa, siamo deboli e spesso non sappiamo portare la fede; ma grazie allo Spirito di Dio superiamo le nostre debolezze e riceviamo il prezioso mandato di servire la

Luca BELLO

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Italia

comunità, di difendere i doni che Cristo ci ha

fatto, l’Eucaristia e la Confessione prima di tutto».

Il rito dell’ordinazione si è svolto nella parrocchia dove da alcuni anni i missionari hanno la cura pastorale della comunità: la partecipazione dei fedeli, la presenza numerosa dei confratelli sacerdoti e diaconi, del parroco padre Valeriano Paitoni e del superiore dei Missionari della Consolata nella Provincia italiana padre Michelangelo Piovano, la presidenza dell’Arcivescovo hanno creato quel clima di comunione che caratterizza la comunità cristiana: «la vicenda di san Tommaso», ha continuato mons. Nosiglia, «ci fa vedere che si crede solamente se si è inseriti nella comunità dei discepoli, se si è in comunione con la Chiesa». Sono due le condizioni fondamentali che un sacerdote, in particolare un missionario, deve vivere in profondità, e che il Vescovo ha ricordato a padre Maurizio: «la fede, perché il sacerdote è prima di tutto un credente e la sua fede si accresce donandola e mostrando la gioia del credere in Cristo; e poi la vita di comunità, che è la prima cosa che si crea quando si va in missione, per poter trasmettere la fede ci vuole una comunità».

Una comunità presente nella celebrazione e nella festa che al termine si è svolta nel cortile dell’oratorio. «Certamente in missione mi sono trovato bene» conclude padre Emanueli, pensando all’avvenire, «ma per ora continuerò il ministero in questa parrocchia e poi, dopo il Capitolo generale, si vedrà che cosa il Signore ha in serbo per me; in ogni caso, la missione è in ogni luogo e anche nei nostri paesi c’è grande bisogno di evangelizzazione».

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P. Paolo Fedrigoni, IMC

HANDING OVER OF SOMERSET

Dear brothers,

before leaving for the General Chapter, I would like to send a greeting to all of you with some news.

1. This week we remember the 100 years from the apparitions of Our Lady in Fatima, Portugal.  Fatima plays a primarily role in our Society.  From Fatima began our presence in Portugal with Father John De Marchi who then greatly contributed to the spreading of the devotion to Our Lady of Fatima also here in the States.  Many of our Portuguese missionaries studied in Fatima, just a walk away from the shrine and go back to our house there during their holidays. Fr. De Marchi was also instrumental to the growth of our Society here in the States. He was followed by other Fathers, attached to Fatima, who worked and work with great zeal in North America. Those whom I know and come to my mind are: Fr. Aventino Oliveira, Fr. Jose’ Costa, Fr. Jorge Amaro and Fr. Ze’ Martins.

Around Fatima rose the mission. From Our Lady came the commitment to be apostles of her Son. Our Lady of Fatima brings a message of conversion and the request of prayer for peace.  May we be all guided by Mary to be truly missionaries here in North America, and be inspired by her to renew ourselves and pray (and work) for world peace!

2. Today, May 11, our property in Somerset has been handed over to Franklin Township. The sale crowns a discernment process about this house that goes back more than fifteen years with sometimes steps forward and then backward, until the final decision was taken four years ago by the General Direction. We have downsized and continue to operate in the area; our house is just a mile south on Route 27. We have kept

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the same mail address and telephone number. The Township intends to keep the property mostly the way it is, adding only one building for sports activities. It seems that the existing three buildings could be used by the Board of Education. While it is uncertain the use that is going to be made of the farm house (“white house”).  

The formal closing of the sale took place in the Municipal Council Hall, where the Mayor, Mr. Phillip Kramer signed on behalf of the Townsign. The signing was witnessed by Fr. James King’ori and our lawer, Mark Stevens. After the signing, there was a short celebration, with some Champagne. The Mayer cheered at the future of the property and blessed the Lord. 3. On May 22, the XIII General Chapter will begin. Our three Delegates are preparing to attend. Fr. Bilwala will leave in few days, Fr. Daniel is already in Rome to study Italian, while myself I will leave on May 14. Please accompany with your prayer the work of the Chapter so that we may be aware of the needs of today’s world and open to the lead of the Holy Spirit.

After the Chapter, I will go to Ivory Coast to preach a retreat to our missionaries and then have my home-leave. I will come back in the States at the middle of September.

May Our Lady, Mother of the Church, intercede for us all that we may be open and obedient to the inspiration of the Holy Spirit.

To each one of you, especially those who have a particular need, go my thoughts and prayers.

Referências

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