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da Casa Madre Istituto Missioni Consolata Perstiterunt in Amore Fraternitatis Anno 95 - N.2 febbraio

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da Casa Madre

da Casa Madre

Perstiterunt in Amore Fraternitatis

Istitut

o Missioni Consol

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Pasquale Mastrogiacomo, Una Cattedrale in Europa 2014,

A

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95 - n.2

febbrAio

- 2015

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FRAMMENTI DI LUCE

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L’EUROPA E I SUOI SANTI PROTETTORI

P. Giuseppe Ronco, IMC

L’Europa è un continente relativamente piccolo. Favorita dal clima temperato, dall’assenza di zone inabitabili e dal lunghissimo tratto di mare che la circonda, ha però una popolazione molto elevata, inferiore soltanto all’Asia e all’Africa. Il suo nome è legato al mito di Europa, raccontato da Omero, Esiodo ed Ovidio. Figlia

di Agenore, re di Tiro, Europa fu rapida da Zeus apparso sotto forma di un toro bianco. Ne divenne l’amante, generando tre figli: Minosse, da cui nacque il Minotauro, Sarpedonte e Radamanto, giudice degli inferi. Ma colui che usò per primo il termine Europa per indicare il continente fu san Colombano, fondatore dell’abbazia di Bobbio, in una lettera che scrisse

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al papa Gregorio Magno.

Come realtà storica e costituita, l’Europa nasce all’indomani del Secondo conflitto mondiale, dinanzi al triste spettacolo di morte e devastazione che per anni aveva imperversato, fino a produrre Aushwitz.

Al pessimismo di quegli anni subentrò la speranza che una ritrovata solidarietà tra i suoi popoli avrebbe generato una pacifica convivenza ed un benessere equamente ripartito. Si trattava di conferire unità geopolitica a un territorio diviso dall’evoluzione storica, operando una vera e propria unificazione spirituale. Robert Schuman, uno dei padri fondatori dell’Unione Europea, prevedeva che l’unità si sarebbe costruita solo per gradi, “per piccoli passi”. E così avvenne. Oggi, il superamento del vecchio concetto di territorialità induce a praticare una solidarietà legata ai diritti e alla democrazia, piuttosto che allo spazio fisico. La convivenza multiculturale, dovuta all’inarrestabilità dei flussi migratori, con il conseguente travaso di culture, fa sì che la cultura europea si sia globalizzata ed “è probabilmente un privilegio dell’Europa il fatto di aver saputo e dovuto imparare, più di altri paesi, a convivere con la diversità” (H.G. Gadamer, L’eredità dell’Europa, Einaudi 1991). “Unita nella diversità”, diventa nel 2000 il motto dell’Unione europea. L’ispirazione venne dalla storia del re vichingo Harald Blåtand , detto Harold Bluetooth a causa di un dente azzurro, che seppe unire i popoli scandinavi introducendo nella regione il cristianesimo. Al suo nome si ispirarono anche gli inventori della tecnologia bluetooth, ritenendo che fosse un nome adatto per un protocollo capace di mettere in comunicazione dispositivi diversi , così come il re unì i popoli della penisola scandinava con la religione.

Nella bandiera dell’UE a fondo azzurro, le 12 stelle in cerchio rappresentano gli ideali di unità, solidarietà e armonia tra i popoli d’Europa. L’inno europeo è “An die Freude”, l’Ode alla gioia di Friedrich Schiller, tratto dalla Nona sinfonia di Ludwig van Beethoven, composta nel 1823. “E’ una visione ideale di umanità quella che Beethoven disegna con la sua musica: «la gioia attiva nella fratellanza e nell’amore reciproco,

sotto lo sguardo paterno di Dio» (Luigi Della Croce). Non è una gioia propriamente cristiana quella che Beethoven canta, è la gioia, però, della fraterna convivenza dei popoli, della vittoria sull’egoismo, ed è il desiderio che il cammino dell’umanità sia segnato dall’amore, quasi un invito che rivolge a tutti al di là di ogni barriera e convinzione” (Benedetto XVI, Scala, 1° giugno 2012).

Nel 1995 una piccola località del Lussemburgo darà il nome agli accordi di ‘Schengen’ che, gradualmente, consentiranno ai cittadini di viaggiare liberamente senza controllo dei passaporti alle frontiere.

Realizzato il mercato unico, il Trattato di Maastricht (7 febbraio 1992), ha fornito le modalità e i criteri per la politica monetaria e la moneta unica, che consistono nell’ innalzare i profitti contenendo i salari, e nel rendere il mercato del lavoro più flessibile per stimolare la produzione. L’UE diventa così un regime economico, parte integrante dell’impero del denaro, dove l’aspetto finanziario prevale su quello democratico.

Con la firma del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (Roma, 29 ottobre 2004), sono delineati il ruolo centrale della Costituzione e i valori universali, quali la civiltà, l’umanesimo, l’eguaglianza, la libertà, la possibilità di professare liberamente la propria fede nonché la custodia dell’immenso patrimonio culturale, artistico e umanistico. Manca però il riferimento alle radici cristiane di cui tanto si è discusso. Dostoevskij con

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veemenza gridava: “L’Europa ha rinnegato Cristo. E’ per questo, è solo per questo che sta morendo”.

Radici cristiane dimenticate

«C’è un quinto continente un po’ invecchiato. E questa è una “periferia”. Alcuni dicono che l’Europa non è la “madre Europa”, ma la “nonna Europa”. Non so se è vero! Ma questo continente è una “periferia” (Papa Francesco, 21 settembre 2014).

C’è una domanda alla quale è difficilissimo rispondere: Perché l’Europa rifiuta di riconoscere le proprie radici cristiane?

Se è vero che oggi l’Europa si rivela come un mosaico di culture (l’area latina, germanico-baltica, slava e celtica) e molte religioni hanno asilo sul suo suolo, è pur sempre vero quello che Wolfgang Goethe diceva: “La lingua materna dell’Europa è il cristianesimo”.

Benedetto XVI afferma che «non si può pensare di edificare un’autentica “casa comune” europea trascurando l’identità propria dei popoli di questo nostro Continente. Si tratta infatti di un’identità storica, culturale e morale, prima ancora che geografica, economica o politica; un’identità costituita da un insieme di valori universali, che il Cristianesimo ha contribuito a forgiare, acquisendo così un ruolo non soltanto storico, ma fondativo nei confronti dell’Europa». (Discorso al congresso COMECE, 24 marzo 2007).

Soffocata dall’edonismo, dalla tecnolatria e da un crescente individualismo, l’Unione Europea, negando le sue radici cristiane, rischia di rimanere senza radici e di perdere i riferimenti necessari per esprimere un ideale di libertà vera, fatta di rispetto per la vita, dignità della persona, responsabilità e senso critico.

Anche Kant era convinto che “il Vangelo è la fonte da cui è scaturita la nostra civiltà”. Contro la smarrimento dell’eredità cristiana è necessario riscoprire il ricordo dei valori sorgivi della nostra civiltà.

Nell’ Esortazione Apostolica Post-Sinodale Ecclesia In Europa (28 giugno 2003) Giovanni Paolo II ha stigmatizzato in modo eccellente i

drammi negativi dell’Europa.

Si è diffuso un agnosticismo pratico e un’indifferenza religiosa di vasta portata; riesce difficile integrare il messaggio evangelico nell’esperienza quotidiana; si ha l’impressione che il non credere vada da sé mentre il credere abbia bisogno di una legittimazione sociale né ovvia né scontata.

Grande è il vuoto interiore e la perdita del senso della vita che attanaglia molte persone. Sul piano sociale aumenta una sensazione di solitudine, la natalità diminuisce, le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata si estinguono, si sgretola la concezione di famiglia, perdurano i conflitti etnici, rinascono atteggiamenti razzisti e tensioni interreligiose. L’indifferenza etica e il decidere da sé cosa sia il bene e il male è ormai moneta corrente.

In breve, il tentativo di far prevalere un’antropologia senza Dio e senza Cristo ha portato ad abbandonare l’uomo a se stesso. La cultura europea dà l’impressione di una « apostasia silenziosa » da parte dell’uomo sazio che vive come se Dio non esistesse. Siamo ai prodromi di una “cultura di morte”.

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cristiana capaci di entusiasmare e creare una vera Eur-hope, basata sulla speranza di un futuro migliore.

I santi patroni

“Per questo, dopo opportuna consultazione, completando quanto feci il 31 dicembre 1980, quando dichiarai compatroni d’Europa, accanto a san Benedetto, due santi del primo Millennio, i fratelli Cirillo e Metodio, pionieri dell’evangelizzazione dell’Oriente, ho pensato di integrare la schiera dei celesti patroni con tre figure altrettanto emblematiche di momenti cruciali del secondo Millennio che volge al termine: santa Brigida di Svezia, santa Caterina da Siena, santa Teresa Benedetta della Croce. Tre grandi sante, tre donne, che in diverse epoche — due nel cuore del Medioevo e una nel nostro secolo — si sono segnalate per l’amore operoso alla Chiesa di Cristo e la testimonianza resa alla sua Croce”( Spes aedificandi, 1 ottobre 1999). La loro santità, infatti, si espresse in circostanze storiche e nel contesto di ambiti « geografici » che le rendono particolarmente significative per il Continente europeo e ispiratrici per il futuro. Tre santi e tre sante. Due monaci: Benedetto

e Cirillo; un ecclesiastico: Metodio; tre donne mistiche impegnate nel sociale e indicate da Giovanni Paolo II come compatrone d’Europa per la loro specificità di donne e per il forte significato spirituale e storico della loro testimonianza cristiana.

Benedetto è il primo patrono nominato

nel 1964 da Paolo VI, a riconoscimento dell’opera originaria e fondamentale svolta dal monachesimo benedettino nello sviluppo della civiltà e della cultura europea, a partire dall’alto medioevo (V-VI secolo) e dalla evangelizzazione degli antichi popoli barbarici. Egli testimonia lo sforzo della Chiesa nella costruzione di un ordine sociale e politico sulle macerie del mondo antico.

Dall’insegnamento evangelico e dalla spiritualità di san Benedetto è scaturito il progetto medievale dell’Europa unita intorno ai valori cristiani di libertà, del rispetto per ogni uomo e ogni nazione, della giustizia e della sovranità dei popoli militarmente deboli. Elaborò un programma per lo sviluppo culturale dei singoli uomini e di intere comunità, radicando con il suo “ora et labora” la sua vita stessa in Dio. Fu “araldo” della religione di Cristo e fondatore della vita monastica in occidente; mentre sul versante civile, fu messaggero di pace e maestro di civiltà.

Si servì di tre strumenti: la Croce, cioè la legge di Cristo, in cui popoli diversi potevano riconoscersi come l’unico popolo di Dio; il libro, cioè la cultura, un patrimonio da salvare e trasmettere; l’aratro, cioè il lavoro manuale per far fiorire anche le terre selvatiche.

Metodio e Cirillo, coinvolsero nell’evangelizzazione i paesi del cristianesimo ortodosso e dell’area bizantina orientale, introducendo nella cultura europea di allora il patrimonio culturale dell’Oriente, e aprendo agli slavi la strada per conoscere la civiltà occidentale.

La loro opera missionaria sta all’inizio della cultura dei popoli slavi. Tradussero la Bibbia in lingua cirillica, inventando appositamente un alfabeto ancor oggi in uso e ponendo le basi della letteratura nelle lingue di quei popoli. Fu

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il «principio» della cultura slava e un esempio mirabile di inculturazione cristiana.

Veri precursori dell’ecumenismo lavorarono accanitamente per l’unità della Chiesa, svolgendo il loro servizio missionario mettendo in comunione la chiesa di Costantinopoli con quella di Roma.

Brigida di Svezia nacque nel 1303 a Finsta.

Modello di vita laicale, sposa felice e madre di otto figli, pur vivendo a corte aiutò personalmente molti poveri, dedicando loro tempo ed energie. Attraverso i numerosi pellegrinaggi intrapresi in vari santuari venne a conoscenza della realtà europea. Innamorata della passione di Cristo, partecipò in vari modi all’edificazione della comunità cristiana, ammonendo ogni genere di persone e svelando, attraverso le sue rivelazioni, i disegni di Dio sulla storia. Fondatrice dell’Ordine del SS. Salvatore, contribuì al rinnovamento della vita consacrata, raggiungendo essa stessa le vette più alte della mistica.

Vivendo poi in terre scandinave, distaccate dalla piena comunione con la sede di Roma, Brigida resta un prezioso esempio ecumenico, rafforzato anche dall’impegno del suo Ordine a pregare sempre per l’unità.

Di poco posteriore a Brigida è Caterina da Siena, dottore della Chiesa, discepola

della spiritualità domenicana, radicata in una profonda intimità con Cristo maturata nella “cella interiore” del suo cuore, operò attivamente per l’elevazione e il bene pubblico e privato dei suoi concittadini.

Donna “virile” e forte, ebbe il coraggio di andare ad Avignone per convincere il papa a tornare a Roma e rinsaldare attorno a lui la cristianità sbandata e impaurita.

Proponeva a tutti il rinnovamento dei costumi, il governo del mondo e della Chiesa fatto con giustizia e nella ricerca della pace, con l’esclusione totale delle armi.

Molti si raccolsero attorno a lei come discepoli, riconoscendole il dono della maternità spirituale e imitandola nel suo impegno per i poveri. Con Edith Stein prende forma il tormento

della ricerca e la fatica del « pellegrinaggio » esistenziale dell’uomo europeo contemporaneo. Ebrea rimasta fedele al suo popolo, illustre filosofo della fenomenologia di Husserl, ebbe il pregio di saper dialogare con il pensiero filosofico contemporaneo.

Dopo l’incontro con le opere di Teresa d’Avila si convertì al cristianesimo e divenne carmelitana assumendo il nome di Teresa Benedetta dalla Croce. Militò a favore della promozione sociale della donna esplorando la ricchezza della femminilità e la missione della donna sotto il profilo umano e religioso. Solidale con il suo popolo , seppe vedere nello sterminio sistematico degli ebrei la croce di Cristo, morendo martire nel tristemente famoso campo di Auschwzitz-Birkenau. Oggi Edith è per noi un esempio luminoso dell’annuncio del vangelo della croce e della protesta levata contro tutte le violazioni dei diritti fondamentali della persona. Dichiarare oggi Edith Stein compatrona d’Europa significa porre sull’orizzonte del Continente un vessillo di rispetto, di tolleranza, di accoglienza, che invita uomini e donne a comprendersi e ad accettarsi al di là delle diversità etniche, culturali e religiose, per formare una società veramente fraterna.

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Un futuro di speranza

“Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio” (Ef 2,19).

È tempo ormai che quell’appello susciti nuovi disegni di santità, perché l’Europa ha bisogno soprattutto di quella particolare santità che il momento presente esige, originale quindi e in qualche modo senza precedenti. Occorrono persone, capaci di “gettare ponti” per unire sempre più le Chiese e i popoli d’Europa e per riconciliare gli animi. Occorrono “padri” e “madri” aperti alla vita e al dono della vita; sposi e spose che testimonino e celebrino la bellezza dell’amore umano benedetto da Dio. Persone capaci di dialogo e di “carità culturale”, per la trasmissione del messaggio cristiano mediante i linguaggi della nostra società.

L’Europa ha bisogno di nuovi confessori della fede e della bellezza del credere, di testimoni che siano credenti credibili, coraggiosi fino al sangue, di vergini che non siano tali solo per se stessi, ma che sappiano indicare a tutti quella verginità che è nel cuore d’ognuno e che

rimanda immediatamente all’Eterno, fonte d’ogni amore.

La nostra terra è avida non solo di persone sante, ma di comunità sante, così innamorate della Chiesa e del mondo da saper presentare al mondo stesso una Chiesa libera, aperta, dinamica, presente nella storia odierna d’Europa, vicina ai dolori della gente, accogliente verso tutti, promotrice della giustizia, attenta ai poveri, non preoccupata della sua minoranza numerica né di porre paletti di confine alla propria azione, non spaventata dal clima di scristianizzazione sociale (reale ma forse non così radicale e generale) né dalla scarsità (spesso solo apparente) dei risultati.

Sarà questa la nuova santità capace di rievangelizzare l’Europa e di costruire la nuova Europa!” (Congregazione per l’Educazione Cattolica - Pontificia Opera per le Vocazioni Ecclesiastiche, Nuove vocazioni per una nuova Europa. In verbo tuo … Documento finale del Congresso sulle Vocazioni al Sacerdozio e alla Vita Consacrata in Europa, Roma 08/12/1997, n. 12).

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BEATO GIUSEPPE ALLAMANO

SR. IRENE STEFANI

CONFIDENZA, FAMILIARITÀ, DOLCEZZA, FIDUCIA

IL SERVIZIO DELL’AUTORITÀ

Padre Stefano Camerlengo, padre generale IMC

Le parole poste al inizio di questa presentazione sottolineano, insieme a varie altre, il comportamento abituale del Beato Giuseppe Allamano nel trattare con le persone, e riassumano la raccomandazione costantemente fatta ai suoi missionari e missionarie.

1. Allamano Padre.

Chi rievoca la figura dell’Allamano ne mette soprattutto in risalto la paternità. È la caratteristica maggiormente ripetuta su di lui come Superiore. Era padre dal «cuore amoroso, pieno di santa premura per i suoi figli e si dice felice soltanto quando li vede al sicuro». Padre benevolo, al quale ci si sentiva portati ad aprire completamente l’anima in piena confidenza. Fin dai primi anni di sacerdozio, quando fu Direttore spirituale in seminario, i giovani trovarono in lui «la buona mamma dei chierici», «l’angelo consolatore», colui «che teneva nelle sue mani i cuori». Per questo riusciva ad ottenere con la persuasione, con l’affabilità e la dolcezza. Secondo il sistema piuttosto rigido dei seminari del tempo, non trascurava la correzione, ma la terminava sempre con la parola benevola, tutta sua, che consolava. E anche i giovani affermano che si trattenevano dal commettere «quelle innocenti sciocchezze proprie della gioventù

per non recargli dispiacere. Tanto era il rispetto e l’amore che avevano per il loro educatore. E pure alcuni che furono dimessi dal seminario, ebbero a dire: “ci ha licenziati in modo tale che ne siamo commossi e l’abbiamo ringraziato”». L’Allamano seppe anche allentare le tensioni, ottenere il rispetto delle norme disciplinari e dell’autorità, creare serenità. «Con il suo fare paterno», «con la sua dolcezza sapeva temperare la rigidità di governo del Rettore». L’Allamano aveva grande rispetto per l’autorità del Rettore e «malgrado tutto l’ascendente che aveva sui chierici non suscitò alcun dualismo fra sé e il Rettore» che egli riteneva l’unica e vera autorità nel seminario dopo l’arcivescovo. E il can. Soldati «ricorreva volentieri all’opera moderatrice dell’Allamano quando si accorgeva di essersi lasciato trasportare dal suo carattere impulsivo». Così superarono dissensi e contrapposizioni che spesso si verificano in casi simili.

Ne nacque una profonda amicizia, come in tutte le altre sue attività di collaborazione. Questa esperienza andò a vantaggio dell’Allamano stesso, che approfondì la caratteristica che sempre dimostrò nei suoi compiti di governo: esigente nelle proposte e nell’osservanza delle regole, ma comprensivo delle persone, delle loro capacità, debolezze, stanchezze e

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BEATO GIUSEPPE ALLAMANO

SR. IRENE STEFANI

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condizionamenti vari. Forte e dolce insieme; fermo nei principi, umanissimo e paterno nell’applicarli. E sarà pure il criterio che proporrà ai superiori dell’Istituto: ammonire, correggere, richiamare alla fedeltà della propria vocazione e missione, ma sempre in modo benigno, dolce e paterno.

Stesso comportamento alla Consolata. Presta attenzione ai religiosi addetti al santuario e ai sacerdoti anziani. Quando non li vedeva, andava a trovarli in camera, portava il cibo, riordinava la stanza, “facendo da infermiere e un po’ di tutto”.

«Trattava i convittori come un buon padre, interessandosi delle loro condizioni economiche, e riducendo la già tenue retta di pensione, e pure concedendone a parecchi una totale dispensa. In casi pietosi sovveniva le stesse famiglie dei convittori» (F. Perlo).

«Si interessava anche delle minime richieste; ascoltava tutte le difficoltà; era tutto per l’individuo con cui trattava; non dimostrava noia alcuna, né preoccupazione per aver altro da fare, né paura di perder tempo, sembrava non avesse

altro pensiero. Quando il visitatore gli aveva esposto il motivo della visita, egli rispondeva, dava il consiglio, la direzione, ma con un fare così paterno e persuasivo che si usciva dal colloquio con la convinzione di essere stati compresi, e che la via tracciata era proprio quella da seguire, perché voluta da Dio, che aveva parlato per bocca del suo ministro» (G. Cappella).

Così all’Istituto. «Si preoccupava delle minime necessità materiali e spirituali di ognuno. Si interessava grandemente dei parenti dei membri dell’Istituto, specialmente delle loro mamme. E quando avvertiva qualche necessità, senza esserne pregato, sovveniva con larga generosità» (G. Barlassina). Era sempre lui a lenire la piaga quando nella famiglia del missionario succedeva qualche disgrazia.

2. Esortazioni ai missionari.

Per l’Allamano, la dolcezza e la mansuetudine sono virtù indispensabili per tutti coloro che devono trattare con il prossimo. Già nel primo Regolamento dell’Istituto propone: «Ad esempio del Divin Maestro che era mite e umile di cuore, (i missionari) usino grande carità, mansuetudine, longanimità nel trattare con gli indigeni; si prestino con affabilità a curare le malattie» senza distinzione tra cristiani e non convertiti (II, 16).

E vi ritorna spesso nelle sue lettere o esortazioni ai missionari e alle missionarie.

Ai missionari, il Beato Fondatore raccomanda: «siate “Missionari della bontà”, agite con la “bontà della vita”, con tenerezza, pazienza, umiltà, affabilità; senza asprezze, con “massima dolcezza”. Esorta a farsi conoscere come “diversi” per la “bontà della vita”, che è benevolenza, misericordia, facendo vedere che si vuol bene.

Fin dalla prima lettera circolare ai missionari in Africa scrive che: «non si attirano le anime con la durezza, con uno zelo amaro, col rinfacciare duramente gli errori, riprendere con asprezza i vizi. Ciò torna sovente più a danno che a utilità». E manifesta anche il suo “vivo

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dolore” nell’apprendere che non si trattarono con viscere di carità gli africani «e che talora si spinse l’impazienza fino ad alzare le mani e batterli. Vi accerto che ne fui addoloratissimo e ne provai una pena inesprimibile» (27.11.1903). E qualche anno più tardi ritorna sullo stesso argomento e attesta di aver piano per questo e ribadisce: «amateli questi poveri infelici, trattateli con bei modi ... e non perdendo la pazienza quando per ignoranza o testardaggine, non corrispondessero ai vostri desideri».

Così, tra i ricordi ai partenti raccomandava sempre la “mansuetudine”, unica virtù di cui Gesù dice specificamente di imitarlo e invitava a farne un proposito da rinnovare ogni mattina. Per lui, la dolcezza e la mansuetudine è virtù indispensabile per tutti coloro che devono trattare con il prossimo.

Questo ha in ricaduta nella attività missionaria. Secondo lo spirito dell’Allamano, quella del missionario è una spiritualità di presenza, con rapporti personali e attenzione all’altro. I primi missionari nel Kenya lo calarono nelle “decisioni di Murang’a”, soprattutto con l’impegno delle visite quotidiane ai villaggi per conoscere e contattare le persone, curare

gli ammalati, rendersi conto delle necessità, annunciare il vangelo. Ciò corrisponde a quanto proponeva il Fondatore:

-> abbiamo a cuore la gente, prestando attenzione alle necessità degli altri;

-> stiamo con loro specialmente dove c’è sofferenza, solitudine, violenza;

-> ci prendiamo cura dei più deboli e degli marginati; in una parola: vogliamo portare consolazione;

-> spandete il profumo dell’amore, facendo felici le persone.

Alle Missionarie dice che devono avere: «un cuore largo verso i suoi fratelli», «cuore grande e generoso», «cuore aperto», «cuore magnanimo per ogni miseria umana», «cuore pieno di amore per Dio». Ad alcune in partenza per l’Africa raccomandava: «lasciate il sapore dell’amore di Dio dovunque andrete, ma ancor più del prossimo» (III, 29). E ribadiva che «La missionaria in modo particolare deve avere un cuore largo verso i suoi fratelli», «cuore grande e generoso», «cuore aperto», «cuore magnanimo per ogni miseria umana», «cuore pieno di amore

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per Dio» (Conf. I, 86, 156, 346; II, 143).

È una delle caratteristiche della Ven. Sr. Irene Stefani, presto prima Beata degli Istituti missionari dell’Allamano. Mirabile è la sua dedizione caritatevole verso tutti, soprattutto i più bisognosi. Ma la sua attenzione alle persone non era disincarnata. Si dedicava agli altri con dedizione tutta materna, con bei modi, rispetto, delicatezza, dolcezza e affabilità, senza fare distinzioni. Questo colpì gli africani, che la soprannominarono, a sua insaputa, Nyaatha: “mamma tutta misericordia”, la misericordia personificata. Per loro è ancora oggi la Nyaatha, “la buona mamma che vuole bene a tutti”, “la segretaria dei poveri”, “l’angelo di carità”... e così via. È come una litania ripetuta che sintetizza il vivo ricordo di lei, le sue caratteristiche, il suo cuore, la realizzazione della sua convinzione che la missionaria «ha cuore per amare, mani per aiutare» e deve farlo con «sentimenti di misericordia, bontà, umiltà, mansuetudine, pazienza».

3. Raccomandazioni ai Superiori.

La esortazione che con maggiore frequenza ritorna nelle lettere dell’Allamano a superiori e superiore è di: intervenire “colle belle maniere”, “con bel garbo”, con comando “fermo ma dolce”, “amorevolmente”, “con fermezza e benignità”.

Alla giovane superiora, Sr. Margherita De Maria, trasmette il suo spirito di padre: «abbi grande pazienza, incoraggiando, consolando, sempre correggendo maternamente... Fa coraggio a tutte... Raccomanda sempre grande carità, longanimità».

Alcune altre raccomandazioni nelle lettere a superiori/e:

- Fa loro coraggio; richiama in bei modi senza scoraggiare; sostieni la debolezza dei fratelli. - Occorre pazientare, comprendere, correggere e animare perché si arrivi poco per volta a essere e vivere all’altezza della loro vocazione;

- Esortare a tenere sempre alto il morale e nessuno si scoraggi.

La stessa cosa ripete anche ai formatori. È loro dovere intervenire. Ma, “con belle maniere”, “in bel modo”, con fermezza e dolcezza. A questo riguardo, significativo è il richiamo al formatore Don Borio: «usi parole e modi amorevoli coi giovani. Non so come vada, ma in casa nostra c’è più timore che amore... Nelle correzioni private e pubbliche... e nel dare avvisi lasci le parole secche... Ciò non vuol dire che debba lasciar andare, no; è solo questione di modo e tempo opportuno: mai dare l’impressione di agire con improvvisazione e passione».

Esorta anche a “pazientare, compatire e scusare”. Si deve supporre che chi ha già affrontato tanti sacrifici non può essere tacciato di cattivo animo. A volte può sembrare che alcuni lo siano, «ma non lo sono, e presi in bel modo e tollerando un poco si rimettono a posto».

A questo riguardo a una giovane superiora scrive: «fa coraggio a te e a tutte. Sono giovani, facili a scoraggiarsi, ma buona volontà è in tutte, e il Signore le aiuterà. Tu continua con carità e longanimità a sostenerle; non tralasciando di ammonirle e correggerle finché si pongano all’altezza della loro vocazione».

Questo è il cuore del metodo educativo dell’Allamano.

“Farsi amare”. Dando il compito di formatore a P. Gallea, raccomandava: «Devi cercare di farti amare più che di farti temere». Non basta amare, bisogna far vedere che si ama. Da chi si sente amato si ottiene tutto. Il rapporto

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singolare del Padre Fondatore con i missionari lo evidenzia in modo superlativo e ammirevole. I missionari cresciuti al suo fianco hanno conservato scolpito nel cuore il suo ricordo. Avevano viva coscienza di aver trovato in lui «un vero padre, tutto amore per i figli», «un amato, amatissimo Padre». Hanno avuto per lui stima, confidenza piena, totale apertura di cuore; fiducia incondizionata, da rimettersi sempre alla sua parola, ritenendola espressione della volontà di Dio. Su questo rapporto di comunione e affetto, il Fondatore ha impostato le relazioni con le persone e la formazione. Per questo ebbe una grande forza di attrazione e una straordinaria efficacia e incisività.

«Alla domenica, dopo le funzioni, amava averci attorno a sè, ben vicino e familiarmente, come figli attorno al padre amato; si ascoltava senza fatica questi insegnamenti che sgorgavano pian piano ma fluenti dalle sue labbra e più dal suo cuore, e poi tutti insieme l’accompagnavamo fino al cancello della palazzina, ed ancora volevamo trattenerlo e dilungare di un po’ la gioia all’udire la sua voce, così paterna e suasiva, che ci lasciava in cuore una pace e una volontà di mettere in pratica i suoi insegnamenti» (B. Falda).

L’incontro comunitario veniva approfondito in quello individuale attraverso le lettere, i diari, le confidenze, l’interessamento per situazioni personali o famigliari, l’attenzione a tutti, per cui ognuno aveva l’impressione di essere oggetto della sua particolare attenzione.

Ciò provoca la cordiale apertura con lui, la fiducia e confidenza piena, l’adesione cordiale. E’ uno dei segreti della riuscita dell’opera missionaria dell’Istituto fondato dall’Allamano. Le sue parole avevano una straordinaria efficacia: bastavano a infondere coraggio, a far superare le difficoltà e indurre a perseverare nelle prove. «In questi frangenti - ricorda un missionario - erano balsamo al mio povero cuore le parole del venerato Rettore, ripetute molte volte familiarmente». Un altro, ricorda un momento di solitudine nella foresta africana e prosegue: «Colla mente e col cuore ritorno al caro Istituto, e colla mia fantasia passo questa serata col nostro amato padre». Un altro ancora gli scrive: «Mi farebbe oltremodo piacere un suo

scritto... E’ incalcolabile il bene e il coraggio che mi infonderebbe», «mi mette di buon umore». Per una convinzione vissuta, l’Allamano esorta i formatori a “farsi amare”. Questo comporta un insieme di atteggiamenti: tratto umano, sensibilità da amico, capacità comunicativa, incontro personale, infondere fiducia e ottimismo.

E ha avuto un seguito anche nei suoi successori nella direzione dell’Istituto. Il Dr. Borla testimonia: «Non credo di esagerare affermando che dopo lo spirito dell’Allamano si possa parlare dello spirito di Barlassina, per i Missionari della Consolata e per molti altri. O meglio Barlassina fu la proiezione vissuta dello spirito dell’Allamano».

Questo si può applicare anche a altri. Lo si ritrova nei Capitoli e nelle circolari dei Superiori Generali, anche se l’insistenza è piuttosto sulla “solidarietà”, “la comunione”, la “armonia di intenti e di lavoro”. Ma per realizzare queste proposte che fanno parte del carisma e spirito del Fondatore, non bastano i propositi e desideri, occorrono i tre principi per i Superiori, indicati dall’Allamano stesso al Camisassa in visita al Kenya: «sincerità e confidenza; dolcezza e bontà; contatti personali».

E per l’impegno personale di ognuno, vi è un’altra sintesi, stilata da Sr. Irene Stefani: «Spirito di carità operosa/ di pietà/ e di dolcezza. Ecco tutto!». Un “tutto”, che è “il nostro distintivo”, “lo stampo”.

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LE DIECI ABITAZIONI

DELL’ ALLAMANO

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A DIECI MIGLIA CIRCA DA TORINO...

CASTELNUOVO E LA CASA PATERNA DEL FONDATORE

P. Francesco Pavese, IMC

Da giovane sacerdote, il Fondatore tentò di scrivere la biografia dello zio don Cafasso, rimasta poi solo un manoscritto di 5 capitoli e di 33 pagine, perché come lui stesso confidò in seguito, si vide «incapace di ben esprimere la stima e la venerazione che osservavo in quanti l’avevano conosciuto». Iniziava questa biografia con una breve descrizione, di sapore manzoniano, del suo paese: «A dieci miglia circa da Torino, per quella parte che volge ad Oriente posa sull’estremo pendio di lunga collina a destra e a sinistra circondata da ridenti colli ricchi di vigneti che gli fanno nobile corona con davanti verdeggiante e deliziosa pianura, Castelnuovo d’Asti, paese assai considerevole pel numero dei suoi abitanti e piccolo centro di commercio e

di comodità pei molti paeselli che gli stanno vicini. Non è qui il luogo di parlare delle sue glorie antiche: come fosse in mano dei Signori Astesi nelle lunghe e terribili lotte feudali del Medio Evo un potentissimo Forte, ciò che indica il nome conservatoci».

Il card. C. Salotti, nella biografia del Cafasso dal titolo “La perla del cloro italiano”, descrive così il paese: «Castelnuovo d’Asti può dirsi un paese fortunato […]. Situato ai piedi di un ameno e fertile colle, che lo separa dai venti boreali, è composto da famiglie di lavoratori, che traggono sostentamento ed una certa agiatezza dall’onesto lavoro dei campi».

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“fortunato”. Diede i natali nel 1811 a S. Giuseppe Cafasso; nel 1815 a S. Giovanni Bosco; bel 1838 al card. Giovanni Cagliero, salesiano e missionario in Patagonia; a mons. Giovanni Battista Bertagna, insigne moralista, professore al Convitto, vescovo ausiliare di Torino; a mons. Francesco Cagliero, Missionario della Consolata e Prefetto Apostolico dell’Iringa, in Tanzania; a mons. Matteo Filippello, vescovo di Ivrea. Al centro di questo lungo elenco, per noi è registrato il 21 gennaio 1851, data della nascita del nostro Fondatore!

Se si osserva la foto di Castelnuovo, come appariva al tempo dell’Allamano, si notano tre chiese con i loro campanili. A destra si intravede solo quella di S. Bartolomeo. Al centro appare meglio la parrocchiale di S. Andrea. In alto sulla sinistra, la Madonna del Castello, dove il Fondatore ha tenuto una predica da diacono. La casa paterna degli Allamano, che non si può vedere, si trova in basso, sulla destra della foto. Tutti, però, conosciamo la sua casa in via G. Marconi, 6, costruita a due piani. È una casa di contadini, che, da come si presenta, dimostra una situazione di un decoroso livello economico. La famiglia del Fondatore non era ricca, ma neppure povera. Si entra nel cortile

da un portone in legno, in fondo ad un vicolo di pochi metri. La porta d’ingresso della casa introduce in una minuscola entrata a pian terreno: a sinistra la cucina, che serviva anche da sala da pranzo; a destra la stalla, che aveva l’entrata per gli animali direttamente dal cortile, abbastanza ampia, dove d’inverno la famiglia si rifugiava per riscaldarsi al tepore delle mucche. Dalla piccola entrata inizia la scala fino al primo piano: a destra ci sono due camere da letto. La prima è quella dei genitori, dove nacquero i figli. I mobili sicuramente corrispondevano a quelli che possiamo ammirare oggi, che sono del tempo. Uscendo dalla porta a vetri si accede ad un balcone in legno, che percorre metà della facciata. A sinistra della scala, un’ampia camera, forse dei figli. Uscendo da questa camera inizia un’altra rampa di scale che porta al secondo piano, con camere a destra e a sinistra, corrispondenti per dimensione a quelle del piano sottostante. Quella più ampia si può immaginare che servisse da magazzino, che in una casa di contadini era indispensabile per conservare i frutti di differenti coltivazioni fino alla consumazione in famiglia o alla vendita. Sulla parete sinistra di questa camera, in alto, si apre una botola che introduce ad un basso sottotetto. Di rimpetto a questo edificio, che

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costituiva la vera abitazione, al fondo del cortile, c’era una rustica costruzione, che dava sulla strada, la quale poteva servire per le masserizie e come fienile. Questa costruzione, in seguito, fu modificata in abitazione.

L’Allamano non si lamentò mai né della sua casa e né del suo paese. Che fosse felice di essere un “castelnovese” lo dicono molte cose: si è recato diverse volte durante la vita e ne ha parlato abbondantemente. Anche queste sue semplici parole sono interessanti: «Sono nato in quei luoghi, in mezzo alle vigne. Quando eravamo ragazzi andavamo a vedere che cosa facevano nelle vigne, a fare i curiosi, ma qualche volta ci cacciavano via, perché a quell’età imbrogliavamo solo. Però il mezzadro che avevamo era un buon vecchio e ci radunava tutti e ci spiegava. Io non ho mai fatto quel mestiere, ma mi pare che se mi mettessi imparerei subito». Il fatto che ci fosse un mezzadro indica che alla famiglia bastava la metà del ricavato per vivere con un certo decoro.

A Castelnuovo, salendo dalla piazza verso la parrocchia, ad un certo punto la strada si biforca: quella di sinistra porta alla casa natale del Cafasso. L’Allamano l’acquistò nel 1921. Nel 1925, quando il Cafasso venne beatificato, lo stesso Allamano fece porre sulla facciata una lapide a ricordo. È stato il P. G. Barlassina, superiore generale, a trasformare nel 1937 il primo piano in cappella.

Castelnuovo, oggi, si è ingrandito e molti edifici sono restaurati o fabbricati di recente. Al tempo del Fondatore le case e le strade erano sicuramente più modeste. Le chiese no, sono ancora quelle del suo tempo, eccetto la succursale della parrocchiale, una recente e bella costruzione nella parte bassa del paese, che agevola la partecipazione alle funzioni per quanti non possono percorrere le ripide salite che portano all’antica chiesa parrocchiale. La casa del Fondatore fu restaurata, soprattutto all’interno, sotto la guida e i consigli del p. Giulio Cesare, in occasione della beatificazione nel 1990. Nel cortile è stata posta una statua in bronzo, alta 2 m., opera dello scultore M. Ventura, in atteggiamento di accoglienza. Copie della stessa statua si trovano anche altrove: in casa madre a Torino, ad Alpignano, nella casa

delle missionarie in corso Allamano, a Nepi e al Sagana in Kenya.

Recentemente nella casa si realizzò un’altra e più importante restaurazione, sotto la direzione del p. Valeriano Paitoni con la collaborazione del p. Orazio Anselmi. Venne inaugurata nella festa della Consolata del 2013. L’edificio che dà sulla strada fu praticamente rifatto. Al piano terreno una saloncino per accogliere i visitatori e offrire le prime spiegazioni; al piano superiore tre camere indipendenti, più una sala da pranzo con cucinino. Anche il cortile subì un profondo rifacimento. In esso domina la statua del Fondatore. Anche l’interno della casa paterna ebbe abbellimenti e grosse modifiche: nella cucina sono sistemati mobili d’epoca; la stalla è trasformata in cappella. Al primo paino, sulla sinistra della scala, c’è una sala che presenta la “vita dell’Allamano” con fotografie e l’attrezzatura per proiezioni. Oltre la camera da letto dei genitori, conservata intatta, si può ammirare una esposizione di oggetti e ricordi personali del Fondatore. Al secondo piano è rifatta la mostra missionaria, con fotografie e oggetti, a partire dai primi tempi, fino ad oggi.

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ATTIVITÀ DELLA DIREZIONE GENERALE

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PORTARE FRUTTO IN TEMPI DIFFICILI!

P. Stefano Camerlengo, IMC

“Gli Istituti religiosi all’inizio furono per lo più fervorosi. Ma non tutti continuarono nel fervore, rientrò lo spirito mondano che prese il sopravvento. Che dire del nostro Istituto? Esso sussisterà; però domandiamoci: si manterrà sempre nel fervore? Ecco la grazie che dobbiamo chiedere incessantemente al Signore. Guai se si lascia decadere il fervore degli inizi... se un giorno lo spirito dell’Istituto dovesse venir meno, spero di farmi sentire dal paradiso!”

“Si ponga con animo all’opera non in via provvisoria ma stabile, come dovesse ciò fare per sempre; procuri di esaminare i posti e gli individui e secondo la lor idoneità li collochi al loro luogo; non si consumi in lavori e viaggi faticosi, ma operi per mezzo di tutti: è da prudente il sapere operare per mano altrui anche con qualche difetto nell’esito delle opere”. Beato Giuseppe Allamano

“Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla.” La lettera di Giacomo, ribadisce che, anche nella prova più dura, c’è uno spiraglio per la gioia, perché la sofferenza irrobustisce la pazienza, che è il midollo della speranza ( Gc 1,2-4.12).

Missionari carissimi,

Grazie per l’accoglienza e la fraternità!

Anche se viviamo tempi difficili, si tratta di portare frutto, anche in stagioni apparentemente problematiche. Occorre attivarsi e mettere sulla tavola, i frutti del banchetto eucaristico: amicizia, fraternità, pace, giustizia, riconciliazione, pazienza e mitezza. Il senso della vita cristiana è “rendere grazie” anche all’interno di “giorni difficili”. Che questo tempo di “purificazione” sia di rinnovamento profondo e segno di entusiasmo ritrovato nella missione. Accogliamo con spirito disponibile ed aperto il messaggio del Papa Francesco ai consacrati nella lettera apostolica che presenta l’anno dedicato alla vita consacrata: “Non ripiegatevi su voi stessi, non lasciatevi asfissiare nelle piccole dispute della casa, non restate prigionieri dei problemi. Essi

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si risolvono se voi andate fuori ad aiutare gli altri e a risolvere i loro problemi e annunciare la buona novella. Voi troverete la vita donando la vita, la speranza donando speranza, l’amore amando” (Papa Francesco, Lettera apostolica a tutti i consacrati, anno dedicato alla vita religiosa, 30 novembre 2014-02 febbraio 2016!).

1. Missione da ripensare

Il nostro Istituto sta facendo una grande riflessione sulla missione e sul nostro modo di essere missionari per il futuro. Credo che questa riflessione deve toccare anche le nostre comunità ed ognuno di voi dovrebbe sentirsi coinvolto in questo cammino. Il contesto attuale della missione non è più lo stesso sia perché il paese è cambiato e sia perché noi anche siamo diversi, la situazione attuale ci conduce a un profondo, radicale ripensamento delle nostre strutture, della loro comprensione, delle nostre relazioni, dei nostri progetti e orizzonti. Per questa ferma decisione di ritornare alla missione e qualificarla maggiormente, non ci sono ricette, né modelli collaudati e approvati. Ci sono tuttavia alcuni compiti da assolvere con partecipazione e diligenza.

Il primo aspetto è quello di fare una riflessione sul tempo di crisi e di incertezza che stiamo vivendo, segnata da questo tempo di “purificazione”, dal profondo cambiamento generazionale e

geografico del personale missionario, dalle difficoltà economiche, dalla frammentazione dell’identità carismatica. Paradossalmente, questo momento, questa epoca può essere la migliore per riproporre il progetto originario della vita consacrata e della missione, proprio a partire dalla fragilità storica in cui essa si trova. Al contrario, quando i numeri diventano sinonimo di successo, il riconoscimento sociale è considerato un fine, la missione è misurata in base all’efficienza e alla visibilità, il rischio della vita religiosa consacrata e della missione è di cadere nella logica del mondo, di andare incontro a un drammatico processo di “paganizzazione” e di perdere il senso della trascendenza della nostra vocazione. I tempi attuali, pertanto, sono tempi di purificazione e di recupero dell’essenziale. È fondamentale non soccombere alla mediocrità e al compromesso, o alla tentazione di tornare al passato, dal momento che questo passato non esiste più. In secondo luogo occorre accettare che molti nostri modi di fare la missione hanno fatto il loro tempo e hanno già compiuto il loro servizio. Oggi la situazione è completamente cambiata e chiama ad un uscita dai luoghi e dalle forme comuni. Questa uscita indica l’alto mare: “duc in altum”, “verso acque profonde” (Lc 5,4). Non sempre è necessario ristrutturarsi per essere più efficienti. Molte volte, il grande cambiamento è una semplice questione di riposizionamento.

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2. Missione da vivere insieme come fratelli

Certo che i differenti contesti di missione generarono varie forme di presenza dove l’essenziale non è una vita condivisa, ma una missione assunta in comune. La comunità non viene prima della missione come qualcosa di prestabilito: è costituita a partire dalla missione, nella sua esperienza spirituale e nei suoi aspetti concreti e istituzionali. Purtroppo non è questo ciò che avviene. La frattura tra la vita comunitaria e la missione è una delle principali ragioni della profonda crisi in cui ci troviamo oggi in generale in tutto l’Istituto. Senza dubbio, anche la missione si qualifica, in maniera decisa, quando avviene in comunità. Il mondo richiede, oggi, una testimonianza di comunione, di fraternità e di dialogo (Vc. 51), non solo come autentico servizio evangelico, ma anche come segno. Perciò, comprendere la missione come progetto comune non è solo una strategia per un’efficacia pastorale, ma è principalmente fedeltà all’imitazione del maestro, che ha voluto la missione in comunità, inviando i suoi discepoli a due a due (Mt 10,1-4). In essa si esprime l’impegno fondamentale contro ogni forma di dominio sull’altro, e la pratica assidua della fraternità, come manifestazione di una nuova logica di convivenza universale. La comunione e la condivisione annunciano l’effondersi dell’amore di Dio-Trinità nelle nostre vite, come un modo nuovo di ripensare

le relazioni con le persone, al di là di tutte le frontiere, per trasformare il mondo in una sola famiglia.

3. Missione con un stile povero e solidale

Un fondamentale aspetto dello stile cristiano del missionario del Vangelo è l’essenzialità, la sobrietà, la povertà nel cibo, nel vestito, nelle esigenze quotidiane e nelle relazioni interpersonali: «E ordinò loro che, oltre al bastone, non prendessero nulla per il viaggio: né pane, né bisaccia, né denaro nella borsa; ma, calzati solo i sandali, non indossassero due tuniche» (Marco 6, 8-9).

«E ordinò loro»: è la prima volta, in Marco, che Gesù comanda qualcosa e non si limita a consigliare. Come a dire che è solo l’obbedienza a Gesù che giustifica e rende possibile la missione in povertà.

«Non portare nulla»: dunque distacco pieno dalle cose, povertà totale. Ma una povertà che è frutto e segno di una grande libertà interiore: quella libertà che ha in sé l’energia di superare ogni possibile preoccupazione terrena, perché emerga e domini l’unica, vera, grande “passione” alla quale il missionario obbedisce, la passione di annunciare, senza ostacoli e freni di qualsiasi genere, il Vangelo, la lieta notizia del

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Regno di Dio. Nulla, in realtà, è più importante e prioritario del Regno! Solo il Regno è il fatto decisivo per eccellenza: tutte le altre cose passano in secondo piano!

La povertà che il Signore richiede al missionario non può non interpellarci, sempre e in un modo più forte nelle attuali situazioni segnate dalla cultura consumistica, proprio in ordine alla credibilità e all’efficacia dell’annuncio del Vangelo. Solo una Chiesa povera è pienamente libera, e solo una Chiesa libera è veramente missionaria! E questo diciamo non solo dei singoli membri della Chiesa, ma anche delle singole comunità cristiane: delle nostre stesse parrocchie e realtà di Chiesa. In questo senso, non basta che la Chiesa sia attenta e sollecita verso i poveri. Deve passare da una “Chiesa per i poveri” a una “Chiesa povera”, nel senso evangelico del termine: povera perché non s’aggrappa ai potenti di questo mondo; povera perché pronta a disfarsi di inutili pesi; povera perché consapevole che il segreto della propria forza è la grazia di Dio; povera perché capace di usare mezzi umani con distacco e libertà.

Conclusione

Quanto descritto e condiviso è un ideale normativo nel quale fissare continuamente il nostro sguardo, nel senso più radicale e impegnativo, che richiede conversione. È una conversione che certamente tocca le stesse comunità, ma che, in definitiva, interpella e coinvolge sempre la singola persona. Non ci sarà l’auspicato, anzi il necessario rinnovamento, delle nostre comunità, se non ci sarà quello di ciascuno di noi, con tutto il peso e l’onore di una responsabilità personale insostituibile e indelegabile.

Imploriamo dal Signore la grazia di questa conversione! Con fiducia umile e salda, chiediamo a lui che, tra il dono e il compito missionario che ci affida e la fragile libertà umana di ciascuno di noi che gli risponde, non prevalgano mai la nostra infedeltà e la nostra miseria di uomini “plasmati di polvere”. Prevalgano sempre la sua fedeltà e la sua grandezza misericordiosa. Vinca la sua salvezza come “lieta notizia” per noi e per tutti. Sia, ancora e sempre, il suo Vangelo a

correre per le strade del mondo e a ricreare in novità il cuore di ogni uomo.

A tutti e ad ognuno: coraggio e avanti in Domino!

Fraternamente, padre Stefano Camerlengo, padre Generale

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Nel 1926 l’eredità di guida dell’Istituto passò ad un uomo diverso dall’Allamano ma che aveva in comune con lui l’amore per le missioni, anche se le concepiva come una conquista continua ed una espansione inarrestabile: Mons. Filippo Perlo.

Monsignor Perlo applicò all’Italia il metodo da lui adottato in Africa, per accrescere il numero delle missioni. L’esigenza di sviluppare alcune strutture dell’Istituto nel paese d’origine era condivisa da tutti e in parte programmata anche dall’Allamano. Ciò offriva dunque al Superiore Generale la possibilità di far convergere le proprie energie su di un campo che gli era congeniale: in due anni diede mano all’ampliamento della Casa Madre, e fece aprire in tutta Italia centri di Animazione Vocazionale per ragazzi, secondo un piano di proporzioni grandiose che mirava ad un duplice scopo: accrescere il numero dei missionari ed ottenere mezzi abbondanti per il mantenimento e lo sviluppo dell’Istituto.

Durante il suo governo in Africa lavoravano 167 missionari e 164 suore, mentre in Italia si trovavano 220 tra sacerdoti, fratelli e chierici con 320 suore a cui andavano aggiunti 510 aspiranti per un totale di 1372 unità. Quelle che apparivano non erano però le sole realtà che caratterizzavano il governo di Mons. Perlo. Esse richiedevano un prezzo nascosto di sacrifici e malintesi che finì per mettere in crisi l’intera istituzione da lui guidata.

Tanto che il 2 gennaio 1929 arrivò nella Casa Madre di Torino il vescovo cappuccino mons. Luca Ermenegildo Pasetto che lesse ai superiori riuniti il decreto con cui Propaganda Fide li sospendeva dalle loro funzioni ora affidate a lui. Con questo atto iniziava il lungo periodo della Visita Apostolica all’Istituto che terminò solo nel 1933, quando con decreto del 28 giugno Propaganda Fide nominava p. Gaudenzio Barlassina, Prefetto Apostolico del

Kaffa, a Superiore Generale dell’Istituto.

La nomina di padre Gaudenzio Barlassina a Superiore Generale, non solo suscitò il consenso di tutto l’Istituto ma ritrovò un centro di unità, di identificazione, che lo fecero definire da molti come l’ideale continuatore dell’Allamano. Il suo programma si rivolge al recupero della dimensione “religiosa” dell’Istituto che egli si proponeva di rinvigorire ascoltando tutti, ma senza seguire il volere di tutti, anzi sforzandosi di non subire l’influenza di nessuno al di fuori di quella della spirito di Dio, come scrisse nella sua prima circolare.

Non era diverso da Mons. Perlo per dinamismo, amore alle missioni, senso dell’Istituto, ma era più sagace e più prudente: un impareggiabile uomo di relazioni e conoscitore delle persone. Aveva annunciato che avrebbe fatto il Superiore con il peso che aveva allora questa parola, e non ci rinunciò mai. I suoi primi atti di governo furono rivolti a riportare lo spirito di famiglia e la semplicità di rapporti tra i membri dell’Istituto. Poi anche lui pensò ad allargare l’Istituto fuori dall’Africa, dove nessuno ipotizzava di estenderlo. In p. Gaudenzio Barlassina, l’idea di aprire all’Istituto la “strada dell’America”, era nata dal bisogno di trovare fonti economiche capaci di assicurarne un migliore assetto finanziario. Lo sviluppo dei territori di missione africani; la ristrutturazione delle case in Italia che, sebbene ridotte di numero dopo la Visita Apostolica, richiedevano somme ingenti per un equipaggiamento decoroso; la necessità di acquistarne delle nuove per rispondere ai bisogni emergenti; l’opportunità più volte avvertita di non concentrare gli investimenti dell’Istituto solo in Africa e in Italia erano ragioni valide per far pensare ad un paese oltre oceano.

Alle motivazioni economiche si aggiungeva anche l’intuizione alimentata con lo scambio di notizie tra gli istituti religiosi, che i paesi

TRATTI DESCRITTIVI DELLE GUIDE

DEL NOSTRO ISTITUTO

DOPO L ‘ALLAMANO

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dell’America Latina, erano vivai di vocazioni. P. Barlassina capiva che l’Istituto voluto dall’Allamano non poteva avere frontiere, proprio perché aveva come scopo la missione che è intrinsecamente universale.

Ma anche solo guardando al campo già affidato all’Istituto non ci voleva molto per recepire la necessità di moltiplicare gli operai.

Il Capitolo Generale del 1949 segnò una tappa importante di questa “nuova” visione, soprattutto attraverso la mediazione del padre Domenico Fiorina, che in quell’assemblea fu eletto Superiore Generale.

Durante quel Capitolo, i Capitolari analizzarono la vita dell’Istituto, elaborarono uno statuto per le missioni e tenuto conto dello sviluppo del medesimo in vari Paesi, decisero l’istituzione delle “Delegazioni”, entità che pur conservando dei legami di unità con il centro, avrebbero goduto di una certa autonomia, assumendo ciascuna un particolare aspetto a seconda del paese in cui si trovava e del lavoro che i missionari svolgevano. Ma in quell’assemblea fu soprattutto compreso il senso specifico delle nuove aperture e si percepì coscientemente la trasformazione dell’Istituto che esse avrebbero operato. In cambio, Torino

garantiva alle missioni la continuità di personale e di mezzi per portare avanti il processo iniziato. Per giungere ad una profonda trasformazione del proprio ambiente il missionario aveva bisogno di pensare e di sentirsi in comunione. L’isolamento non avrebbe permesso il crescere delle idee; di certo invece ne avrebbe anticipato la morte.

Queste indicazioni del Capitolo si rivelarono a breve distanza estremamente intuitive poiché si avvicinò un momento della storia dell’Istituto in cui il processo di trasformazione si evidenziò come momento essenziale della attività missionaria: il tempo del travaglio per l’indipendenza e la sua accoglienza nei Paesi Africani.

All’apparenza meno evidente, ma forse ancor più profondo è stato il processo di trasformazione dell’ambiente e dell’Istituto operato in e dall’America Latina.

Espressione del tempo Conciliare è il padre Mario Bianchi, uomo dall’acuto pensiero, eletto superiore generale, della felice mano del p. Natale Giacobbe che vi trasfuse il pathos di un momento di grazia e di tanti membri del medesimo Capitolo che sentirono

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profondamente di essere convocati per un’assemblea speciale.

Tutti i Capitoli sono stati un momento importante della storia dell’Istituto, ma quello del ‘69 lo ha trasformato: nella sua comprensione della mutante realtà in cui era inserito, nella proposta di uno sguardo d’amore e non di sfida o di paura verso il mondo che cambiava, nel coraggio con cui gli propose di rinnovarsi e di fare una nuova missione appoggiandosi sulla forza del Vangelo e sul coraggio della incarnazione.

Esso metteva in guardia i missionari dal fare una missione che cedesse alla tentazione di gratificare se stessi, di farli sentire utili segnando così il divorzio tra la loro opera e una nuova umanità che camminava nel mondo.

Il Capitolo tracciava le seguenti linee essenziali per il rinnovamento a cui orientava l’Istituto: decisa affermazione della natura esclusivamente missionaria dell’Istituto; richiamo ad un rinnovamento interiore nello stile e nella tradizione del Fondatore; impostazione della vita religiosa nella prospettiva missionaria; rinnovamento della vita comunitaria; accentuazione della internazionalità dell’Istituto, mantenendo le caratteristiche missionarie della sua fondazione; volontà di accogliere e promuovere vocazioni missionarie anche nelle regioni di missione; affermazione che tutti i membri dell’Istituto formano una sola famiglia con pari diritti e doveri; applicazione dei principi di collegialità e sussidiarietà nei rapporti e nella vita dell’Istituto; volontà di continuare e di perfezionare l’attività missionaria con spirito di servizio nelle chiese locali; inserimento nelle comunità umane con piena solidarietà allo sviluppo dei popoli; disponibilità a collaborare con tutte le forze missionarie della Chiesa, in particolare con gli istituti missionari e con il clero locale; attuazione di nuove forme di collaborazione con i laici; accentuazione data ai problemi della formazione, come vitali per l’istituto; senso dell’ottimismo e della speranza come caratteristiche distintive del missionario (Atti pag. 18-19).

A supporto di queste indicazioni il Capitolo esortava tutto l’Istituto a un rinnovamento profondo poggiato su una continua ricerca e su

fiduciose sperimentazioni. Ciò avrebbe richiesto in tutti un grande spirito di apertura, un’ansia di ricerca che portasse a trovare vie nuove e il coraggio di abbandonare soluzioni e formule diventate inoperanti. Le sperimentazioni avrebbero esigito l’accordo e la collaborazione di tutti.

Seguendone lo spirito gli Atti del Capitolo produssero un paragrafo che oggi suona profezia. Il numero 160 diceva: “Il dovere missionario della Chiesa si estende pure alla rievangelizzazione delle comunità cristiane che si trovano in regresso, a motivo di una evangelizzazione superficiale o per mancanza di adeguata assistenza religiosa... l’attività pastorale si orienti alla formazione della fede personale adulta, operante e costantemente aggiornata; guidi i singoli e le comunità ad operare per il miglioramento delle condizioni attuali di vita, sostenendo i valori della giustizia e della fraternità con la testimonianza cristiana” (Atti pag. 76).

Le orme di questo Capitolo sono state ripercorse in quelli successivi. Le migliori intuizioni sono state codificate nel nuovo testo delle Costituzioni.

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L’afflato spirituale è riecheggiato in tante lettere del p. Mario Bianchi e del padre Giuseppe Inverardi.

La ricchezza di questo magistero per l’Istituto è stata raccolta nelle oltre mille pagine del volume “Consacrazione e Missione”. In esse vi si ritrova costantemente espresso che il bisogno di profondità attraversa oggi ogni interrogativo sulla missione che l’Istituto si pone. Infatti è il modo nuovo con cui la missione dell’Istituto si colloca nella realtà del mondo che le fa scoprire sempre un di più da raggiungere, un oltre da perseguire.

Tensioni politiche, difficoltà sociali, guerre e guerriglie, minacce e calunnie e sofferenze fisiche che hanno portato anche alla morte di alcuni missionari, hanno segnato la vita dell’Istituto in Mozambico, in Etiopia, nel Congo, a Roraima e in Colombia. Tuttavia, non ha vinto la paura ma l’amore per la gente alla quale infondere coraggio e speranza e con la quale condividere i rischi della vita.

Nonostante questa dimensione di martirio, l’Istituto ha voluto continuare a esprimere che la missione è un continuo andare oltre, ed ha così progettato l’apertura all’Asia. Preparata in antecedenza e formalmente decisa dal Capitolo del 1987 essa ebbe inizio nel gennaio 1988 con l’ invio di quattro missionari appartenenti a quattro nazionalità diverse. Nel desiderare e programmare tale presenza, l’Istituto aveva in mente i ricorrenti aspetti missionari che qualificano l’Asia.

Raccoglie i 2/3 dell’umanità, ha una piccola percentuale di cristiani, è il continente delle grandi religioni e culture con le quali cercare il dialogo, e ha zone di immensa povertà.

Guardando a questa realtà l’Istituto pensava a uno stile nuovo e complementare di fare missione. Ai pochi missionari parve evidente una sola certezza: la Corea, e per estensione l’Asia, richiedeva atteggiamenti missionari totalmente nuovi rispetto a quelli ritenuti da tempo tradizionali nell’opera dell’Istituto.

Nella sua relazione al Capitolo Generale del 1993, il Superiore Generale padre Giuseppe Inverardi, che terminava il suo secondo mandato,

presentava in questo modo gli aspetti importanti della realtà a cui l’Istituto era proteso: “Prima di poter operare delle scelte è importante conoscere il momento storico e i mutamenti in atto e prevedibili. Non è sapiente ignorare le interrelazioni tra aree geografiche diverse e tra le dimensioni del complesso tessuto della società. L’istituto vive e opera in un contesto che deve conoscere...”, padre Inverardi voleva spronare l’Istituto a cogliere i fermenti presenti nelle varie Chiese locali per rinnovare il cuore e lo zelo dei missionari stessi.

A loro riveniva il compito di una presenza missionaria sfrondata dalle strutture di un tempo ma chiaramente capace di donare speranza, propugnatrice di valori umani, morali e spirituali e solidale con i poveri. Si voleva soprattutto invitare ogni missionario a comprendere che era chiamato ad una profonda trasformazione.

Lo esigeva la realtà esterna indicata; lo evidenziavano le statistiche interne. La desiderabile proporzione numerica tra i continenti non si era mantenuta negli ultimi anni, né era ipotizzabile per l’immediato futuro. Mentre l’Africa sosteneva l’Istituto con un numero crescente di missionari, si erano impoverite l’Europa e il Nord America, incerta era divenuta l’America Latina e la Corea appariva ancora imponderabile.

La provenienza dei missionari non si prospettava senza conseguenze per il futuro: infatti la nuova geografia vocazionale avrebbe condizionato scelte, posti, attività, opere, valori, mezzi e stile con cui continuare la missione dell’Istituto considerando un valore la diversità dei membri dell’Istituto e la crescita della missione. Si può onestamente affermare che la visione del p. Inverardi sia passata nella sua problematicità come nei suoi segni di speranza a tutto l’Istituto.

Oggi, la realtà della missione ad gentes sta cambiando, a noi risentire il gusto, il valore, il peso e la gioia di una missione “che è solo agli inizi” e che sta a noi continuare!

Conclusione: il superiore esperto nell’attenzione!

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“Succederà quel che successe con quell’uomo partito per un viaggio dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai servi, a ciascuno il suo compito, e ordinato al portiere di vigilare ”(Mc 13,34).

Si può pensare al superiore come il portiere del vangelo. La parabola fa la distinzione tra i personaggi: il padrone di casa, prima di assentarsi, ripartisce due tipi di responsabilità, secondo la categoria di coloro che rimangono in casa: ai “servi” affida a ciascuno un compito, mentre incaricherà il “portiere” di qualcosa di diverso: vigilare. Il portiere è al tempo stesso un uomo del “dentro” e del “fuori” e la sua missione è qualcosa di frontiera, di liminale. Egli appartiene in un certo senso alla “casa” e, anche se non ne è il padrone, conosce bene le ricchezze che essa contiene ed ha la responsabilità di custodirle e difenderle. Mentre gli altri servi svolgono compiti all’interno, lui rimane in un posto che confina con l’esterno, con l’attenzione rivolta oltre le mura di casa, intensificando la sua attenzione per proteggerla e anche per riconoscere con la vista e l’udito il

ritorno atteso del padrone assente o le notizie che di lui possano portare altri.

Il suo signore gli ha affidato un compito di responsabilità delegandogli qualcosa di così importante come aprire o chiudere la porta, permettere o negare l’accesso alla casa: gli ha consegnato “il potere delle chiavi”. Non potremo sentirci come lui, proposti dalla comunità ad essere “uomini della porta”, collocati tra il dentro e il fuori e ai quali è stato affidato il compito di essere esperti nell’attenzione?

“Si esige una grande coerenza da parte di chi guida l’Istituto, le Circoscrizioni, le comunità. La persona chiamata ad esercitare l’autorità deve sapere che potrà farlo solo se essa per prima intraprende quel pellegrinaggio che conduce a cercare con intensità e rettitudine la volontà di Dio.

Vale per essa il consiglio che sant’Ignazio di Antiochia rivolgeva ad un suo confratello vescovo: « Nulla si faccia senza il tuo consenso, ma tu non fare nulla senza il consenso di Dio ». L’autorità deve agire in modo che i fratelli o

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le sorelle possano percepire che essa, quando comanda, lo fa unicamente per obbedire a Dio. La venerazione per la volontà di Dio mantiene l’autorità in uno stato di umile ricerca, per far sì che il suo agire sia il più possibile conforme a quella santa volontà.

Sant’Agostino ricorda che colui che obbedisce compie sempre la volontà di Dio, non perché il comando dell’autorità sia necessariamente conforme alla volontà divina, ma perché è volontà di Dio che si obbedisca a chi presiede. Ma l’autorità, per parte sua, deve ricercare assiduamente, con l’aiuto della preghiera, della riflessione e del consiglio altrui, ciò che veramente Dio vuole. In caso contrario il superiore, invece di rappresentare Dio, rischiano di mettersi temerariamente al suo posto.”

“Ogni autorità nella comunità cristiana non è un qualunque servizio di potere, è un modo di attuare la sequela di Colui che ha dichiarato di essere venuto: “ non per essere servito, ma per servire.” ( Mt. 20, 28 ) (Dal documento “Il servizio dell’autorità e l’obbedienza” n.9-12) Siamo coscienti che il luogo privilegiato per formarci alla santità è la vita quotidiana della nostra missione, fatta di gioie e speranze, di limiti e debolezze, nelle sue varie forme ed espressioni. Si tratta di viverla a imitazione del Signore che “fece bene ogni cosa” (Mc. 7:37) con la convinzione che il “bene bisogna farlo bene e senza rumore” (VS 128 – 129). La Santità del nostro Istituto dipende dall’impegno di ogni missionario, sempre e ovunque.

Come il Beato Giuseppe Allamano ciascuno missionario è chiamato a diventare una sentinella di santità che scruta i segni del passaggio di Dio nella storia, li anticipa nella sua testimonianza, solidale con le attese e le preoccupazioni della gente. Come lui, il missionario abita lo spazio della speranza nell’umiltà e nella marginalità tra i poveri, dove la certezza dell’aurora è più trasparente.

Affidiamo il nostro impegno e iniziative a Maria, nostra Madre, la Consolata, modello di Santità alla sequela di suo Figlio Gesù, affinché la consolazione diventi annuncio della Buona Novella ai poveri, mirando alla promozione

umana, al benessere e alla felicità delle persone, liberandole da ogni schiavitù e sofferenza, dalla paura e dall’oppressione.

Immaginiamo che il portiere della parabola potrebbe dirci: “Vivete svegli e in attesa, non lasciate che la vostra attenzione venga meno: solo in essa si rivela l’immenso e silenzioso lavoro di Dio nel vostro stesso cuore e nel mondo. Lasciate la porta socchiusa perché entrino coloro che che la provvidenza vi ha affidato e coloro che vivono alle intemperie: il Signore che aspettate verrà a voi nascosto tra questi!”.

Coraggio e avanti in Domino! Fatima, Consulta 2014

Referências

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